Pedalando verso il cielo

di

Giovanni Foiadelli


Giovanni Foiadelli - Pedalando verso il cielo
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 204 - Euro 18,00
ISBN 978-88-6587-5841

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In copertina: «Vintage or retro bicycle left on a tree. Snowy field» © irantzuarb – Fotolia.com


“L’uomo inerpicandosi verso il cielo si illude di poter trovare ciò che da sempre gli è precluso…
Resta il gesto, infinitamente grande, di chi non si dà per vinto e continua a cercare…”


Prefazione

“Pedalando verso il cielo”, opera di Giovanni Foiadelli, racconta la storia di un uomo e del suo grande amore per la bicicletta, come a seguire un sottile filo sotterraneo che unisce le vicende esistenziali, dal periodo dell’infanzia alle prime gare ciclistiche e, poi, attraversando le sofferenze subite durante la seconda guerra mondiale, conducendo il lettore, quasi ad accompagnarlo con discrezione anche nei momenti più difficili, fino all’ultima stagione dell’avventurosa vita del protagonista nella quale riuscirà a regalare il suo “sogno” ad un giovane talentuoso ciclista.
La narrazione di Giovanni Foiadelli è densa di fascino e riesce, in ogni pagina, ad alimentare la lettura con la stessa passione che il protagonista Luigi dimostra nei confronti della sua bicicletta: la sua vita, fin da bambino, è legata alla bicicletta che, passando gli anni, diventa una ragione di vita, una “linea guida da seguire come un bisogno profondo interiore”.
La cifra stilistica dell’intero romanzo ruota intorno alla profonda consapevolezza che, nella vita, è fondamentale dare un senso alla propria vita e la “passione”, che sia per la bicicletta o per qualcosa d’altro poco importa, rappresenta il fuoco sacro da seguire, fino alla fine, senza mai perdersi d’animo: le traversie saranno superate, le vicende sofferte verranno metabolizzate, il destino avverso nulla potrà contro la passione di Luigi.
Nella vita nulla è facile e tutto deve essere faticosamente conquistato con grande sacrificio e perseveranza, sempre attingendo alla forza d’animo ed al grande coraggio che solo un vero uomo può avere, Giovanni Fo­iadelli innalza la storia di un uomo e la forza dei sentimenti con la sua Parola, che fa vibrare l’animo ed incendia il cuore, sempre attento ad illuminare le “occasioni” della vita, di montaliana memoria, sempre capace di rendere in modo perfetto le intense emozioni che invadono il protagonista ed il suo sentirsi parte del mondo: un grande uomo capace di immensi sacrifici e disposto a lottare in ogni momento della sua vita, aperto verso gli altri, generoso e capace di amare profondamente.
Il protagonista Luigi nasce, agli inizi del Novecento, in una famiglia contadina della Brianza in un contesto dove dominava la forte religiosità ed il senso del dovere era parificato al duro lavoro nei campi, tra sudore e sacrificio.
Il piccolo Luigi, di corporatura gracile, è curioso ed intelligente con una forte predisposizione allo studio, ma la possibilità di entrare in collegio si scontra con le necessità economiche della sua famiglia e, grazie all’interessamento del parroco del paese, finisce con mansione di garzone in una drogheria di Milano. Lui si dimostra subito un ragazzino molto in gamba e, per riuscire a stare al passo con le numerose commesse dei clienti, gli verrà comprata una bella bicicletta che diventerà la sua passione. In questo momento ha inizio la sua avventura che sarà sempre collegata all’amore per la bicicletta anche quando sarà assunto alla Breda, importante industria nell’hinterland milanese, a Sesto San Giovanni, dove capiterà casualmente davanti ad una Società ciclistica: sarà la scintilla che scatenerà il fuoco della passione con la gioia di partecipare alle prime gare ciclistiche con la sua Bianchi dal famoso color acquamarina.
Per Luigi pedalare all’aria aperta è una gioia nel cuore, significa sentirsi libero e volare nel vento, ma il destino è in agguato e, poco dopo, proprio quando lui è in procinto di passare professionista, l’Italia entra in guerra e tutto cambia inesorabilmente.
Inviato come soldato in Grecia, sull’Isola di Samo, con la sua bicicletta recapiterà dispacci segreti o rifornirà di vivande le vedette degli osservatori sempre affrontando pericolose missioni. In terra greca incontrerà anche la bella Sophia e si innamorerà di lei ma purtroppo dovrà lasciarla per far ritorno in patria e, più tardi, rimpiangerà quel forzato abbandono.
Il suo pericoloso viaggio attraverserà mezza Europa sempre in compagnia della sua bicicletta e riuscirà a tornare a casa dove aspetterà la fine dell’occupazione tedesca. Seppur ancora giovane si renderà conto che il suo fisico è ormai stato minato dalle sofferenze patite in guerra e potrà solo continuare a coltivare la sua passione per la bicicletta, ma dovrà abbandonare il desiderio di diventare un ciclista professionista.
La scelta finale di Luigi sarà quella di aprire un negozio per la vendita e la riparazione di biciclette e riuscirà a coronare il desiderio di gestire una squadra giovanile di ciclisti ai quali poter offrire la sua esperienza ed infondere i suoi valori morali: ultimo tentativo ben riuscito, di dare un senso alla sua vita.

Massimo Barile


Pedalando verso il cielo


A Luigi…


La grandezza dell’uomo si misura in base
a quel che cerca e all’insistenza con cui
egli resta alla ricerca…

(Heidegger)


PEDALANDO VERSO IL CIELO

Faceva freddo in quel dicembre del 1932 e nemmeno il camino, in quella stagione perennemente acceso, bastava a riscaldare l’enorme stanza. Tutta la famiglia, seduta e silenziosa attorno al grande tavolo, se ne stava in attesa che la solita minestra fumante venisse riversata nei piatti fondi collocati davanti a loro. Poco più il là, un capiente paiolo sul fuoco, annerito negli anni, nelle mille ore in cui mani forti e pazienti vi avevano rimestolato le zuppe in un rituale arcaico ed immobile nel tempo.
Fuori la nebbia che, facendosi fitta e ghiacciando, cade in minuscoli frammenti e riveste i campi di gelo come un sottile mantello, rendendo il paesaggio contiguo ed uniforme.
Dentro la condensa che, scendendo sui vetri crea mille rivoli come fossero lacrime e fa immaginare a chi le osserva, coreografie mutevoli di disegni astratti che svaniscono e si ricreano modellando ai nostri occhi solo ciò che vogliamo vedere.
A capo tavola, ben distinta, imponente ed austera, la figura del capo famiglia Francesco. Attorno a lui, come tanti pulcini con la loro chioccia, Luigi, i suoi tre fratelli e le due sorelle. Solo Maria, la madre, quasi mai accomodata ed intenta nel suo moto perpetuo ad assecondare i bisogni di tutti.
Una famiglia brianzola di inizio Novecento, contadina e laboriosa, inserita in un contesto di forte ed ottusa religiosità dove, i dogmi propinati, fungevano da freno verso le velleità di riscossa sociale ed aspettativa futuribile per chiunque.
Luigi occupava con i genitori ed i fratelli alcuni locali di una grande cascina posta ai margini del paese. Intorno ad essa, una campagna resa fertile da generazioni di braccia che nel tempo l’avevano accudita e lavorata, profondendovi fatica e sudore. In quel caseggiato vivevano altre dieci famiglie nella totale condivisione di tutto, in una sorta di aggregazione forte e necessaria per far fronte più agevolmente ai bisogni quotidiani di ognuno. Luigi, aveva visto da sempre il padre alzarsi prima dell’alba per la mungitura e coricarsi alla sera esausto, piegato nelle membra dopo una giornata di fatica trascorsa nei campi. Pensava che anche per lui quella fosse l’unica aspettativa di vita e non riusciva, né poteva, intravederne altre. Del resto, i suoi tre fratelli di qualche anno più grandi, già si apprestavano a seguire questo percorso affiancandosi al padre, il quale benediceva il giungere di quel momento per potersi sollevare un po’ dall’oneroso compito, a volte davvero opprimente. Tutto normale. Si ringraziava il buon Dio nelle preghiere recitate più volte al giorno di quel poco che, una provvidenza avara, distribuiva con parsimonia. Erano litanie di gruppo, come a voler cercare in quella condivisione una sorta di disagio partecipato e, quindi, un po’ meno personale e più sopportabile.
Attorno a quella tavola, dopo i rituali e le preghiere, ci si accostava al cibo con il rispetto di chi sa quantificare con precisione il sacrificio necessario per poterlo ottenere. Luigi lo poteva calcolare guardando le mani grandi e ruvide di suo padre che, il lavoro duro ed il tempo, avevano rese quasi informi. Da mani simili non si era mai potuto aspettare una carezza, lo sapeva bene, e pensava che fosse giusto così. Da sua madre invece, qualche sporadico gesto di benevolenza lo aveva ricevuto, ma sempre propinato con una certa cautela e circospezione. Gesti piccoli e fuggevoli, compiuti lontano da altri occhi, per non manifestare una pericolosa e controproducente debolezza.
Luigi era un bambino curioso ed intelligente. A scuola si distingueva per una spiccata vivacità intellettiva e la maestra lo aveva percepito fin dal primo momento. Questa predisposizione allo studio preoccupava non poco i suoi genitori e veniva vissuta come un possibile intralcio verso i programmi e le aspettative della famiglia. Mai e poi mai si sarebbero potuti permettere un figlio che proseguisse un qualsiasi percorso di studio, ed è ciò che fecero presente alla maestra quando vennero convocati alla chiusura scolastica, in quinta elementare. La docente enfatizzò le doti di Luigi, prospettando loro la possibilità di farlo entrare in collegio con un tutore in grado di accollarsi per intero gli oneri derivanti da quel percorso istruttivo.
Per quanto riconoscenti dell’interessamento e della proposta ricevuta, riuscirono a smarcarsi da quella prospettiva e declinarono l’offerta, seppur manifestando un sincero dispiacere. Anche la maestra se ne dispiacque convinta che il ragazzo meritasse un futuro migliore, ma si dovette arrendere di fronte alla palese mediocrità culturale con cui si stava rapportando. Negli anni del suo insegnamento aveva cercato molte volte e con alunni diversi di sensibilizzare le rispettive famiglie, ma in pochissime occasioni aveva ottenuto un riscontro positivo. Tuttavia, ogni volta che ci riusciva lo considerava un risultato tutt’altro che marginale. In questi rari casi riu­sciva a sentirsi realizzata pienamente dando al suo compito didattico un valore aggiuntivo e molto più edificante.
A Luigi, venne precluso un percorso alternativo in prospettiva più accattivante ma questa limitazione non destò in lui alcuna recriminazione o disappunto. In fondo gli sembrò normale, come tutto ciò che da sempre vedeva scorrergli accanto. Normale, come l’accettazione incondizionata della resa prima ancora di iniziare a combattere e di un destino già scritto che non contemplava alcuna divagazione dal copione. Luigi stava crescendo a contatto diretto con questa pochezza intellettuale che aveva intriso il tessuto sociale con cui si rapportava quotidianamente. La respirava e respirandola la metabolizzava, anche se avrebbe desiderato altro.
In quegli anni, si concepivano molti figli nella speranza di vederli crescere presto e rappresentavano un investimento da far fruttare il prima possibile. Nei campi, oppure in fabbrica, il bisogno di braccia forti era crescente; per questo motivo le nascite femminili venivano appena tollerate e non costituivano certamente motivo di soddisfazione.
Nonostante queste premesse, a Luigi si prospettò un percorso diverso da quello toccato in sorte ai suoi fratelli. La sua corporatura gracile e la salute cagionevole manifestata già nei primi anni di vita, venne ritenuta non adatta al lavoro pesante dei campi e, per questo motivo, si decise di cercare per lui un’altra occupazione.
Il perno della comunità nei paesi lombardi in quel periodo storico era certamente il curato. Questa figura non assolveva unicamente compiti spirituali ma, ben più ampiamente, fungeva da catalizzatore per ogni tipo di problema e necessità. In una società contadina, così annessa al territorio tanto da fondersi con esso, la figura del prelato era vista da tutti come un riferimento assoluto. A lui venivano indirizzate le speranze e le aspettative di quella gente semplice che vedeva nell’istituzione Chiesa una sorta di protezione globale che spaziava dalla spiritualità a questioni più pratiche e materiali. Il coinvolgimento religioso spesso tracimava in una prostrazione figlia di una sottomissione culturale che aveva radici lontane. Quest’ultima, trovava la sua massima evidenza nelle donazioni che ognuno, nel suo piccolo, offriva al rappresentante della Sacra Romana Chiesa. A lui venivano riservati i tagli migliori della carne dopo la macellazione (il cappello del prete), oppure il pollame più pregiato. Insomma, ogni contesto e situazione si trasformava in un’occasione nella quale poter manifestare una venerazione assoluta, che spaziava dal sacro al profano.
A Don Ignazio, parroco del paese, si rivolsero anche i genitori di Luigi in cerca d’aiuto per una collocazione lavorativa del loro figliolo. Vestiti con l’abito migliore, molto vissuto ma rinnovato per l’occasione con stiratura ed inamidatura per renderlo più fresco, con un paio di salumi sottobraccio ed una sporta di uova freschissime, si presentarono in canonica appena finita la Santa Messa delle 11,00 (Messa alta) di una domenica di inizio primavera. Que­sta liturgia rappresentava, unitamente al pranzo festivo, l’evento centrale della giornata e dell’intera settimana.
La conversazione, che si svolse in un italiano infarcito di incursioni dialettali, arrivò ben presto al nocciolo della questione. Dopo aver ascoltato attentamente le richieste della coppia, Don Ignazio si rese disponibile senza remore ad aiutarli. Si annotò i loro buoni propositi di riconoscenza anticipata nelle parole e, di quella più pratica, promessa ad obiettivo raggiunto.
Luigi, all’oscuro di tutto, trascorreva le sue giornate dividendosi con buona volontà tra lavoretti domestici e quelli agricoli, cercando di rendersi utile e senza risparmiarsi mai. In quei frangenti cercava di immaginare il suo futuro prossimo, senza porre grandi aspettative ma con la giusta curiosità che un ragazzino di undici anni può legittimare.
La primavera si manifestava sempre più prepotentemente, dilatando ogni giorno lo spazio di luce che separa l’alba dal tramonto e disegnando paesaggi con dentro sfunature e colori sempre più accesi. La temperatura, già gradevole di primo mattino, richiamava a gran voce il risveglio della natura tutta intorno, in ogni sua espressione.
Luigi si soffermava spesso ad osservare il volo degli uccelli che, come ogni anno, tornano nei nostri cieli attraverso rotte migratorie tracciate come sentieri invisibili nell’aria. Cercava di indovinarne le traiettorie che sembravano obbedire a leggi gravitazionali indefinite e, proprio per quello, per lui così affascinanti. Era sempre stato attratto da tutto ciò che sfuggiva dalla razionalità ed apparteneva ad una sfera più emotiva e suggestiva.
Tuttavia, scrutare i prodigi della natura cercando di carpire qualcosa che non fosse di praticità spicciola, assecondando percorsi romantici a discapito di quelli materiali, lo faceva cadere in uno stato di prostrazione psicologica; si sentiva banalmente colpevole di disperdere energie preziose occupandosi del superfluo, contrariamente ai suoi famigliari uniti ed intenti a far quadrare i conti e badare alla sostanza. Si sentiva, suo malgrado, una voce fuori dal coro. Questa sua dissonanza rispetto al resto della comunità lo rendeva inquieto. Il senso di colpa si rafforzava proprio per la sua appartenenza a quel tessuto sociale che non dava minimamente ascolto all’interiorità ma che si radicava unicamente nella concretezza.
Cercando di arginare questo suo disagio, si chiedeva se le due cose non potessero in qualche modo coesistere trovando uno spazio condiviso, sia per la realtà che per il sogno; non rinnegare le sue origini condividendone i valori più profondi e riuscire a perseguire anche itinerari più effimeri, fondendo le due cose tra loro. Intuiva che se avesse trovato il modo per miscelare il tutto, ci sarebbe stata anche la possibilità per una nuova prospettiva, per lui certamente più appagante. Non lo sapeva ancora, ma avrebbe speso tutta la vita per cercare di realizzare quel difficile connubio.
La vita contadina risulta da sempre legata in modo indissolubile ai cicli delle stagioni e da essi ne è condizionata in modo imprescindibile. Dopo una prolungata siccità, la pioggia che arriva copiosa dal cielo salvando un intero raccolto, ha la stessa benedizione terapeutica di un medicinale salva-vita somministrato appena in tempo. Allo stesso modo, una pandemia che colpisce in modo progressivo i capi di bestiame accuditi e cresciuti come risorsa essenziale, non ha un impatto meno devastante di un’epidemia che mina la salute dei propri figli. In tutti questi casi, c’è sempre un’analogia che funge da catalizzatore per tutte le preoccupazioni derivanti dal timore di non riuscire a far fronte all’indispensabile, una sorta di appiattimento verso il basso che confluisce nella necessità primaria ed antropologica di sopravvivenza.
Anche Luigi lo sapeva. Anche in lui c’era il richiamo dell’istinto primordiale che ti morde dentro dandoti la sensazione di non avere scampo, ma intravedeva un’altra via o, per lo meno, cercava di immaginarla. Avrebbe voluto smarcarsi da quella visione ristretta e limitante senza dover rinnegare nulla di tutto ciò che aveva intorno e che gli apparteneva. Facile a dirsi, immensamente complicata da realizzare in un simile contesto, soprattutto per un ragazzino di undici anni.
Il 24 giugno si festeggia San Giovanni Battista. Era un sabato, un giorno in cui l’estate comincia ad affacciarsi con le prime calure e le spighe di grano, sotto il peso dei chicchi ormai maturi e seguendo la direzione della brezza leggera, si piegano come a fare un leggero inchino. I campi che le contengono si colorano di oro e diventano abbaglianti nella loro luce riflessa. Le lame delle falci, incontrando i raggi solari che si proiettano al suolo perpendicolari e prepotenti, si trasformano in specchi che, rifrangendo, illuminano gli uomini curvi nel gesto, dando loro una dimensione metafisica. Le giornate, mai così lunghe, danno l’impressione che il tramonto si sia dimenticato di manifestarsi, contribuendo a confezionare un appagante e distensivo senso d’infinito che, permeando gli uomini, li fa sentire integrati nel disegno Divino.
Uno scampanellio insistito si incuneò nei ritmi quotidiani ed assopiti della cascina preannunciando l’arrivo di Don Ignazio. Di rincorsa, come mosso da un insolito vigore, si fiondò nella cascina in sella ad una bicicletta nera, nuova fiammante, con le parti cromate tirate a lucido; un sellino in pelle rivoltata con cuciture ben fatte e le bacchette dei freni in osso levigato, completavano quel prodigo viaggiante!
Quel suono inusuale e gioioso, ebbe l’effetto di attirare in cortile una gran parte dei residenti, incuriositi dall’inaspettata visita e, per giunta, sull’inconsueto velocipede. Mentre il prelato era in procinto di posteggiare con cura il suo mezzo a pedali, la madre di Luigi gli si fece incontro ed, intuendo la ragione della sua presenza, con ampi ed accalorati gesti lo invitò sull’uscio della porta, scusandosi preventivamente per il disordine che avrebbe trovato nella dimora. Lo fece accomodare nel miglior modo possibile, sull’unica sedia non claudicante che poteva garantire una seduta stabile. Dopo avergli offerto un bicchiere di vino rosso novello accompagnato da un’abbondante porzione di formaggio stagionato, mandò una delle figlie presenti in casa a chiamare il marito Francesco, impegnato a quell’ora nel foraggiare il bestiame nel casolare attiguo. La sua presenza era indispensabile, nessuna faccenda di rilievo avrebbe potuto essere discussa in assenza del capo famiglia. Lo sapeva bene anche Don Ignazio che infatti non accennò a Luigi ma spostò la sua dialettica su argomenti più generici, in attesa dell’arrivo del marito.
In quello spazio temporale, Maria si preoccupò unicamente di riverire l’ospite non riuscendo a mascherare del tutto una sorta di disagio e timidezza, figli di una riverenza che aveva un’origine antica e fortificata nel tempo. Era vestita con un abito lungo di colore nero che arrivava a sfiorarle i piedi. Sulle spalle uno scialle, anch’esso scuro, finemente ricamato ed abbondante nella misura tanto da renderla un po’ goffa ed invecchiarla oltre la sua età. Una figura vetusta la sua, parificabile a tutti gli oggetti sparpagliati nello stanzone a testimoniare un contesto antico e fuori dal tempo. Di fronte a lei il prelato insaccato nell’abito talare molto vissuto con un paio di vistose cuciture sulla manica, ricomposte e rammendate con cura da una mano esperta. Spiccavano inoltre un paio di scarpe invernali stringate a collo alto, certamente di lungo corso e con la tomaia usurata nei molti anni di esercizio. Di fronte l’una all’altra, contrapposte e speculari, due figure scure e sobrie, apparentemente molto simili, a condividere quello spazio dove il tempo sembrava essersi fermato per sempre.
Francesco non tardò ad arrivare, trafelato nel suo incedere ed incuriosito nelle aspettative.
Giunto sull’uscio, non si dimenticò di levarsi in segno di saluto il cappello che teneva sempre in testa come un vezzo, al di là di una specifica utilità. Se lo tolse con cura, facendo attenzione a non sciuparne la tesa, accostandolo al petto, reclinando leggermente il busto in avanti in un accenno di inchino ed ossequiando in quel modo il prete. Con quel gesto, evidenziò la sua calvizie che contrastava nettamente con la presenza di un foltissimo e ben curato paio di baffi fieramente e baldamente rivolti all’insù.
Dopo essersi assicurato che in sua mancanza all’ospite fosse stato riservato il trattamento migliore, si rivolse a lui cercando di esprimersi in una forma di italiano il più possibile scevra di espressioni dialettali:
«Buongiorno signor curato, a cosa dobbiamo l’onore della sua visita?»
«Buongiorno Francesco, ho portato buone notizie per voi e per il vostro Luigi.»
I due coniugi, avvicinatisi l’uno all’altro come a farsi coraggio e sempre più incuriositi, aspettarono senza proferire parola il proseguo del discorso.
Il prelato aggiunse: «Attraverso una mia conoscenza, sono riuscito ad individuare una drogheria a Milano in cerca di un garzone; sono persone per bene, molto devote ed ho pensato a vostro figlio.»
Francesco, quasi timoroso nel ribattere una qualsiasi cosa riuscì solo a sussurrare:
«Ma Milano è molto lontana da qui… portarci nostro figlio sarebbe un problema.»
Don Ignazio di rimando: «C’è il treno che dalla stazione arriva in periferia e poi il tram che passa a due soli isolati dal negozio.»
E proseguendo con fare tranquillizzante di chi si aspettava tale obiezione:
«Luigi potrà alloggiare pressi i proprietari del negozio e tornare a casa ogni tre settimane; in questo modo il trasporto risulterà una faccenda meno onerosa per tutti.»
E poi ancora: «Verrà retribuito con un piccolo salario, due pasti caldi al giorno ed un posto confortevole dove poter dormire… Imparerà un mestiere e questa sarà la cosa più importante», suggellò con tono perentorio come a voler legittimare la bontà della proposta.
Francesco e Maria si scambiarono silenziosi uno sguardo di assenso; le loro titubanze, appena accennate, si sfaldarono come neve al sole, facendo capitolare sui loro visi un’espressione di compiacimento.
Del resto non potevano rifiutare una proposta fatta da Don Ignazio di cui si fidavano in modo incondizionato. Pensarono di essere protetti in ogni aspetto dalla intermediazione del prete che, con questo gesto, si faceva garante verso di loro.
Diedero il loro consenso e si accordarono di ritrovarsi in canonica la domenica successiva per poter ricevere uno scritto indicante l’indirizzo della bottega, tutti i dettagli utili e soprattutto una lettera di raccomandazione in una stesura fatta e siglata dal prete.
Si congedarono con sincera e condivisa gratitudine. Lo accompagnarono attraverso il cortile fino al muro adiacente dove, in precedenza, era stata collocata la bicicletta. Lo videro ripartire nella sua andatura un po’ goffa e ciondolante mentre, staccando una mano dal manubrio, salutava con ampi gesti chi gli si faceva incontro riverendolo.

[…]


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