Il tempo perduto

di

Giovanni Foiadelli


Giovanni Foiadelli - Il tempo perduto
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 176 - Euro 18,00
ISBN 979-1259510822

eBook: pp. 160 - Euro 6,99 -  ISBN 9791259511010

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In copertina: «Sanduhr in faltiger Männerhand als Symbol für vergehende Zeit» © Ralf Geithe – stock.adobe.com


“Torneremo ad abbracciarci e soprattutto a perdonarci. Solo il perdono ci può salvare, ancor più dell’amore, perché contempla la fallibilità dell’essere umano e la sua compassione”.

Giovanni Foiadelli


Il tempo perduto


A mia nonna Maria, a mia madre e a tutte le persone che hanno sorvegliato e illuminato il mio esistere.

IL TEMPO PERDUTO

I timidi raggi del nuovo giorno fecero breccia tra le ante illuminando fievolmente la stanza miseramente spoglia e le sagome di due persone coricate su un giaciglio. Francesco si alzò dal letto con indolenza. I movimenti compassati e disarmonici lo rendevano un corpo svuotato di ogni energia. Fatti i pochi passi che lo separavano dalla finestra, dischiuse gli scuri con misurata lentezza. Poi, puntò i gomiti sul davanzale e buttò lo sguardo oltre il cortile, come aveva fatto altre mille volte. Era un’abitudine che non generava in lui alcuna emozione perché i suoi occhi erano spenti da tempo ed incapaci di cogliere una qualsiasi meraviglia.
Una leggera coltre di brina copriva la distesa di campi disposti intorno alla cascina come ritagli irregolari di un’immensa scacchiera ed il freddo pungente lo si poteva intuire ancor prima di percepirlo sull’epidermide. Il cinguettio degli uccelli, in quell’alba gelida, si contrapponeva in modo così netto al silenzio di quelle mura, da rendere quest’ultimo ancora più mesto ed opprimente. Nulla sembrava vitale, al di là del solo respiro.
Solo dopo alcuni minuti, la donna rimasta fino allora distesa supina, si districò dai ruvidi tessuti che l’avevano avvolta nella notte regalandole tepore, e si alzò. Senza proferire parola e dopo aver raccolto sopra di essa uno scialle di misura generosa che riusciva a coprirle buona parte del corpo, si diresse verso la ripida scala che conduceva alla cucina, posta al piano di sotto. Una dozzina di gradini che, ripetuti nel tempo, riproponevano una Via Crucis quotidiana. Lì, i due coniugi, avrebbero consumato il pasto di inizio giornata composto da una fetta di polenta fredda ed una mezza ciotola di minestra ottenuta dalla bollitura di rape, patate e bietole. Poche calorie da centellinare nell’arco della giornata e tanta fatica da smaltire, dall’alba al tramonto. Francesco la raggiunse poco dopo. Si sedette su uno sgabello posto a ridosso di un tavolaccio ancorato per una parte al muro perimetrale e puntellato all’altra estremità con due sostegni legnosi di adeguata altezza e spessore. Celeste, la moglie, si accomodò su una cassapanca sistemata nel lato opposto. I loro sguardi vuoti si incrociarono per qualche istante.
L’ambiente circostante conteneva un camino con al centro un paiolo, una catasta di legna messa lì a fianco ed una piccola quantità di suppellettili di modesta fattura sparsi in modo casuale. Sopra la porta che dava sul cortile, un crocefisso ligneo raffigurava il Cristo morente. Era stato messo lì come testimonianza di Fede ma, con il tempo, aveva assunto sempre più la caratteristica di un sigillo alla sofferenza. Questo rituale si ripeteva fin dal giorno in cui, l’anno precedente, Francesco e Celeste, si erano uniti in matrimonio. Una celebrazione semplice e festeggiamenti ancora più sobri.
Era consuetudine che il giorno stesso la sposa raggiungesse la dimora del consorte unitamente alla propria misera dote. Il corteggiamento di Francesco lo aveva portato a gironzolare tempo prima attorno alla cascina poco distante dove Celeste viveva da nubile ma i loro incontri erano sempre stati sporadici e fugaci. L’appuntamento fisso, che dava una certa garanzia, era per la Santa Messa domenicale dove, dai rispettivi banchi posti nelle due distinte navate, i due giovani potevano scambiarsi qualche sguardo. Fuori dalla chiesa non era consentito nessun approccio poiché la fanciulla veniva sempre accompagnata da qualche fratello maggiore o dal padre. Questo era il protocollo previsto fino a quando non ci si presentava alle rispettive famiglie in modo ufficiale e si riceveva il benestare del capo famiglia. E così fecero anche Francesco e Celeste.
Erano matrimoni sostanzialmente concordati “al buio”, che nascevano soprattutto per questioni di opportunità. Si erano sposati certamente perché si piacevano ma anche con l’intento di rendere meno gravosa la loro esistenza. Unendo le forze si erano auspicati un futuro più vivibile. Un’associazione necessaria per sopportare l’oggi e potersi immaginare un domani in un contesto storico assai difficile.
La situazione in territorio lombardo nel 1898 risultava infatti ampiamente compromessa per una serie di motivi. Dopo la conclusione delle guerre napoleoniche, che vide lo scioglimento dei grandi eserciti rimasti operativi per più di un ventennio, decine di migliaia di individui si ritrovarono senza lavoro e, una buona parte, anche senza dimora. Inoltre, nella prima metà dell’Ottocento, la popolazione europea andò aumentando in modo considerevole. Ad ogni generazione, i terreni dei padri venivano lasciati ai figli ma, con la spinta demografica, i terreni ereditati dovevano essere spartiti e si facevano sempre più piccoli, fino a diventare insufficienti per il sostentamento di tutti. Questo fenomeno venne contrastato efficacemente in Alto Adige con l’adozione del “maso chiuso” che, contemplando l’indivisibilità delle proprietà, ne garantiva anche l’ereditarietà da padre al primogenito maschio in forma globale. Gli altri figli potevano scegliere di lavorare per il fratello maggiore, oppure essere risarciti con una somma in denaro.
Dopo l’unificazione del 1861, L’Italia si presentava come uno Stato povero in piena depressione. Pochissime fabbriche ed un comparto agreste che risultava prevalente. L’Italia di fatto, appariva come un Paese di miserabili analfabeti, dove non era raro il poter trovare individui che vivevano in grotte oppure capanne prive di un qualsiasi accenno domestico. La Pianura Padana nella Lombardia irrigua, che aveva avuto degli imput favorevoli nei decenni precedenti, si prestava ad attraversare un periodo di forte recessione.
Il comparto agricolo in particolare, dovette subire il crollo del prezzo del mais. I nuovi “contratti d’affitto a denaro” e di “affitto a grano” andarono a sostituire quelli già problematici di mezzadria risultando peggiorativi. Inoltre il diffondersi di malattie come la “filossera” e la “flaccidezza” distrussero quasi interamente la viticultura e la coltivazione del gelso. Proprio sul settore tessile e sul baco da seta si era puntato fortemente in quanto poteva garantire un introito aggiuntivo che non contrastava le altre attività agricole. Infatti, questa occupazione attingeva per lo più alla manodopera femminile e minorile. Erano le donne che raccoglievano le foglie di gelso e seguivano le schiuse e le mute delle larve. Affiancato a questo comparto, viaggiava anche quello industriale delle filande. La crisi quindi, contaminò entrambi i settori che risultavano necessariamente complementari, affossando l’intera economia.
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 si assistette ad un progressivo svuotamento delle campagne e delle cascine. Inizialmente fu un’emigrazione temporanea e per lo più stagionale. Si emigrava in alcuni periodi dell’anno oltre confine (Svizzera, Austria e Germania) con la speranza di poter tornare presto e con qualche gruzzolo da investire nell’acquisto di sementi e capi di bestiame. Il progetto finale veniva quindi ancora contestualizzato sul suolo nazionale.
Successivamente, iniziò una vera e propria epopea che durò alcuni decenni in concomitanza con un progressivo deterioramento politico ed economico che non lasciava intravedere alcun futuro. Furono le regioni del Veneto, Piemonte e Lombardia che diedero inizialmente un impulso massivo al fenomeno.
Francesco e Celeste avevano visto da sempre i propri avi lavorare con fatica quei terreni e non potevano immaginarsi nient’altro che il ripetere, giorno dopo giorno, gli stessi rituali arcaici di cui si sentivano, loro malgrado, eredi e discepoli. Tuttavia, una disperazione crescente si insinuava prepotentemente come un tarlo scavando nella loro anima solchi incolmabili. Si sentivano sempre più vittime di un’emarginazione che non lasciava alcuna speranza futuribile.
Ciò che li attorniava nella cascina, era una conferma ulteriore del disagio globale e collettivo che permeava ogni cosa. Insieme ad altre otto famiglie che occupavano i rustici locali del complesso colonico, sottostavano alle stesse carenze igieniche, alimentari nonché alle prevaricazioni legislative e giuridiche che li privavano di qualsiasi tutela.
La cascina lombarda era generalmente concepita di forma quadrangolare. Lungo il perimetro ed in parte all’interno, si trovavano le unità di lavoro e abitative dei dipendenti, compresa la dimora dell’affittuario, ovviamente ben diversa da quelle contadine. Sorgeva nel mezzo della pianura ed era collegata con l’esterno da una strada principale con portone d’ingresso a due battenti di legno e catenaccio. In uno dei battenti era inserita una porticina di servizio per il rientro serale della manovalanza. Era di fatto un piccolo fortino, un microcosmo isolato dal resto del mondo. La Pianura Padana era un crogiuolo di queste enclavi circoscritte e separate tra loro.
Solo raramente queste realtà venivano in contatto. Succedeva per lo più in occasione di particolari festività oppure di scambi commerciali. Erano sporadiche situazioni che tuttavia davano delle possibilità di staccarsi dal lavoro opprimente e coercitivo. Per la gioventù, anche la possibilità di conoscere altri coetanei, instaurare amicizie ed, in qualche caso, poter progettare un matrimonio.
L’introduzione della “tassa del sale”, che di fatto toglieva la possibilità di conservare insaccati e carne per l’inverno, acuì il malcontento.
Un’altra problematica che si manifestò contestualmente alle molte difficoltà evidenziate, fu il diffondersi della pellagra, malattia che si manifestava per l’uso prevalente della polenta e del mais, (a volte mal conservato), nella dieta. Questa patologia assai grave, portava ad una debilitazione prima fisica e poi mentale, con conseguenze spesso letali.
Quel crescente disagio e la sofferenza nel dover affrontare ogni giorno una vita priva di una qualsiasi minima gratificazione, indusse la coppia a volersi sottrarre dal quell’abbraccio mortale che li stava attanagliando ed annichilendo sempre di più.
A questo quadro già ampiamente compromesso, si aggiunse anche un’altra congiuntura nefasta. Il carattere ribelle di Francesco era mal tollerato dal fattore, il quale non perdeva occasione per rifarsi su di lui in vario modo. Questa figura dominante si poneva al di sopra di tutti potendo godere della fiducia del proprietario. In tal senso aveva piena autonomia e potere decisionale sulle maestranze.
I due giovani coniugi cominciarono a pensare di dover lasciare quella terra che sembrava non avere alcuna riconoscenza nei loro confronti.
Parlavano tra di loro sempre meno e, quelle poche volte che lo facevano, era per imprecare al destino avverso. Si sarebbero accontentati di una vita modestissima e null’altro reclamavano. Avrebbero voluto rimanere avvinghiati in qualsiasi modo a quella realtà seppur così cruda e feroce, semplicemente perché gli era stato insegnato che la sofferenza fortifica o, forse, perché la disperazione ti svuota e ti rende un soldato senza armi, un cavaliere disarcionato senza più armatura né cavallo.
Decisero, congiunti in un’unica preghiera, di aspettare la prossima primavera e con essa le promesse per i raccolti dell’estate. Si sarebbero dati un’ultima possibilità e sostenuti a vicenda in un abbraccio necessario quanto vitale durante quei lunghi mesi di poca luce e tanto freddo. La mancanza di tutto li avrebbe certamente uniti nella lotta alla sopravvivenza. Questa era la sola consolazione a cui potevano realisticamente ambire in quel momento.
L’inverno passò, le giornate piano piano si allungavano come i morsi della fame che, nelle giornate più nefaste, si facevano molto sentire. Poi arrivò la tanto agognata primavera manifestandosi con le sue peculiarità che da millenni marchiano le stagioni nel loro ciclo infinito. Come pervasi da una speranza nuova, ricominciarono a lavorare ancora più duramente, dall’alba al tramonto. Francesco prevalentemente nell’aratura e nella semina dei campi, Celeste nell’accudire le tre vacche rimaste in stalla sempre più scarne e nella lavorazione del baco da seta. Lavoravano e pregavano mescolando ed alternando auspici pagani a momenti di intensa spiritualità. Francesco sopportava faticosamente anche le angherie del fattore che non perdeva occasione per penalizzare la loro già misera condizione.
Furono mesi cruciali in cui la speranza ed il pessimismo si spartivano le loro interminabili giornate incidendo in modo profondo sui loro umori. Rinchiusi in quel microcosmo isolato dal resto del mondo, vivevano un’attesa messianica che potesse migliorare le loro condizioni esistenziali.
Purtroppo il 1898 si rivelò un anno nefasto che sarà ricordato negli almanacchi come uno dei peggiori dell’intero secolo. L’inverno particolarmente rigido, una primavera con siccità prolungata e la comparsa della peronospora che intaccò quasi completamente le piantagioni di patate, portò ad una carestia senza precedenti.
Francesco e Celeste trafitti da quell’ennesima sconfitta, interpretarono quella sentenza come un segnale inequivocabile del loro destino e abdicarono ogni speranza.

[continua]


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