Racconto premiato di Gino Zanette


Con questo racconto è risultato 2° classificato – Sezione narrativa alla XVI Edizione del Concorso Città di Melegnano 2011


Questa la motivazione della Giuria: «Spiritosa ed effervescente satira, che non risparmia l’ironia scanzonata sull’avidità, sui parenti serpenti, sulla morte che diventa una graffiante icona di disincantata ferocia, sulle bieche aspettative delle eredità.
Attraverso gli occhi infantili della protagonista, che evidenzia con pennellate grottesche le mostruose e rapaci mire dei suoi parenti, appare un piccolo universo borghese con le sue meschinità, le sue stranezze, le idiosincrasie e le ipocrisie. Ecco che si ride amaro, ma anche con malizia, rammentando come questi personaggi siano anche tra di noi, terribilmente familiari.
La prosaicità cruda dell’avidità, le parole non dette , e l’intelligenza scarna e pragmatica della narratrice, sono di contorno a uno squallido ma ridanciano “ Ritratto di famiglia in un interno”.
I sandali d’oro preziosissimi, che la stravagante defunta ha inteso portare con sé nella bara, senza dirlo a nessuno, verranno trafugati dal prete, che rimasto inaspettatamente a becco asciutto alla lettura del testamento, penserà bene di usarli per costruire la nuova canonica, beffando le ricerche forsennate dei parenti. L’ilarità che ne consegue è quella graffiante di Roberto Benigni, che in un film dice: “ Sarò contento di esser vivo anche da morto.” Un mio personale elogio all’autrice, simpatica, acuta e splendida».

Alessandra Crabbia


I sandali d’oro

Nella casa, quella mattina d’agosto di tanti anni fa, c’era un andirivieni insolito. Chi fosse passato di là, fin dalle prime luci dell’alba, avrebbe pensato che si stesse preparando un evento straordinario e felice: che so, un matrimonio (avevo tre sorelle in età da marito), una cresima (mia sorella più piccola stava, infatti, frequentando il corso d’ammissione in parrocchia), una festa di diploma (ma quella era già passata; l’avevamo celebrata alla fine di giugno per mio fratello Carlo), le nozze d’argento dei nostri genitori (mia madre ci stava lavorando da un anno, anche se la data era per l’anno venturo). C’era poi mia zia, zitella ormai certificata, che, non si faceva mancare nessuna e, se non c’erano, se le inventava. Oddio, bastava accontentarsi. E lei si accontentava. Festeggiava tutto: gli anniversari della prima comunione e della cresima, del primo giorno di lavoro, del primo (e ultimo) fidanzato, le fortune e le disgrazie delle sue amiche. Noi la chiamavamo l’olimpionica dei festeggiamenti.
E infine, a volerlo, ci sarei stata io. Avevo otto anni, e, quindi, in pieno diritto, per esempio, di fare la prima comunione. Maggio, però, era ormai un ricordo e le mie coetanee, più fortunate di me, se l’erano celebrata, e anche dimenticata, al pari di una festa di nozze. Per me, invece, nulla: un divieto del parroco me l’aveva impedito. Non ero matura, secondo lui. O, forse, secondo mia madre, perché ero troppo matura. Quando mai, alla mia età, una ragazzina s’era fatta trovare, proprio in canonica, a sbaciucchiarsi e non solo, con l’amichetto di turno?
E così anch’io, quella mattina, mi lasciai avvolgere dalla generale frenesia che rimbalzava fra le pareti della mia amatissima casa. A cominciare dall’abbigliamento.
Ripescai il vestitino bianco (inutilizzato, ahimè) della prima comunione, con la collanina d’oro che le mie sorelle m’avevano preparato per il regalo di giornata. L’orologio (sempre di giornata) mia madre m’aveva autorizzato ad indossarlo da subito, «nonostante…». Disse proprio così: «Questo lo puoi mettere, nonostante…» lasciandomi a piagnucolare (per finta) per conoscerne il seguito. Il seguito me lo spiegò più tardi la zia, in gran segreto. «Nonostante avessi l’anima nera del peccato».
Fra le stanze, la confusione aumentava di minuto in minuto perché, ciò che non vi ho ancora detto, è che, a muoverci forsennatamente su e giù, avanti e indietro, non eravamo solo noi. Noi, nove membri della famiglia, già stavamo facendo del nostro meglio. Ma c’erano anche alcuni estranei: una suora, (quella che aveva fatto la spia al prete), il parroco, naturalmente, che, quando c’è da annusare profumo di soldi non manca mai, la Fortunata, un’amica d’infanzia di mia nonna e, per ultimo, ma primo per importanza e nobiltà d’incarico, il notaio.
Mi direte: che caz…volo, insomma, che cosa c’entra il notaio?
Il notaio c’entra sempre, quando c’è di mezzo un vecchio in casa. E mia nonna (a proposito, non ve n’ho parlato perché, fra tutti, era la meno indicata per fare confusione), col notaio aveva avuto un’intensa frequentazione. Al punto da farmi pensare che la prima persona che vidi a casa nostra, aprendo gli occhi, fosse stato proprio il barbuto dottor Caproni. Sì, si chiamava proprio così ed era un cognome che portava con ignobile disinvoltura e pertinenza.
Lo seppi più tardi perché fu una delle prime confidenze che la zia si divertì a farmi, obbligandomi a dieci spergiuri. La nonna, insomma, era una donna ricchissima. La sua fortuna era stata quella d’aver perduto il marito quand’era ancora giovanissima (mio nonno, infatti, non feci in tempo a conoscerlo). Il suo lavoro, unico e meticoloso, fu di maneggiare per tutta la vita, il patrimonio che lui le aveva lasciato. Sottraendolo ai figli, naturalmente, (e a mio padre), allora minori, con un testamento capestro architettato (affermava la zia) dal fedele Caproni. Il quale, si peritava di abbinare alla sua specialità legale, anche delle innate doti amatoriali, cui la nonna, giovane e ardente vedovella, non fu fin da subito insensibile.
Che cos’era successo, per mobilitare tutta la famiglia e parte del parentado? Due settimane prima la nonna, pace all’anima sua, ci aveva (finalmente, diceva la zia!) lasciati, alla buonissima età di 92 anni. Non per malattia, no. Era sana come un pesce e, anzi, ci avrebbe deliziato con la sua ingombrante presenza, per chissà quanti anni. Purtroppo, uno scivoloso lunedì di luglio, dopo un imponente temporale, aveva voluto recarsi in banca ad ogni costo per rinnovare dei titoli che scadevano proprio quel giorno. Se avesse atteso il lunedì successivo non sarebbe successo nulla. Ma lei era fatta così: meticolosa e caparbia.
Mio padre non poté accompagnarla, come faceva di solito. Così toccò a mamma l’ingrato compito. Avvenne che, uscendo dalla banca, la nonna non volle il sostegno di mia madre. Pioveva. Ma lei rifiutò il suo braccio ed anche l’ombrello che mamma s’accingeva a reggerle. Volle mostrarsi, in pieno centro, ancora agile e in totale possesso delle sue forze. Sul gradino che immetteva sulla strada scivolò e cadde, sbattendo la testa. Ci restò secca, in una pozza di sangue e di biglietti di banca fuorusciti dalla borsa che aveva sotto braccio.
Seguì uno sfarzoso funerale, con malcelata soddisfazione di tutte le persone che lei aveva tiranneggiato in vita con prestiti e soprusi d’ogni genere.(Così, implacabile, commentò subito la zia).
Al termine della cerimonia, il notaio convocò la famiglia e alcune persone (solo lui sapeva quali) per il sabato della settimana dopo, per la lettura del testamento, nel suo ufficio.
E qui ci fu la sorpresa. Io non mi sono mai divertita come quel giorno. Ero presente perché così aveva preteso il notaio, che, evidentemente, sapeva che ero citata in qualche modo nel testamento.
Dalle sue prime parole avemmo subito la conferma che la nonna era ricchissima. Inoltre che era originale e, soprattutto, bizzarra.
Bastò la lettura della prima parte del testamento, in cui indicava solo i nomi degli eredi, per averne la certezza. Oltre a me e tutti i familiari, c’era Fuffy (un bastardino che profumava sempre come una cocotte), Dolly (una gatta smorfiosetta che teneva sempre sulle ginocchia, anche mentre mangiava), e poi la signora Fortunata, l’amica d’infanzia, e suo figlio (il tenebroso Valentino, che lei considerava, a ragione credo, il suo “Rodolfo” per come si pettinava, il signor Battel, il becchino, (nel testamento aveva scritto “batiala”, un nomignolo che solo lei sapeva perché gli affibbiò fin da quando lo trovò, addormentato e ubriaco, sopra la tomba del marito).
La vera sorpresa, però, fu che non fosse citato il nome di Don Armando, il parroco, che invece, a detta di tutti quelli che conoscevano la nonna, era un suo beniamino.
Lo vidi, con soddisfazione, aggrottare la fronte, quasi a domandarsi il perché; ma subito contrasse le labbra in un sorriso che a tutti apparve solo una smorfia di disgusto, pentendosi, forse, della benedizione solenne che aveva pochi giorni prima impartito alla salma.
Quando si arrivò, infine, alla destinazione dei beni (che lei aveva descritto e assegnato con minuziosa scrupolosità), tutti si dimostrarono felici e soddisfatti.
E n’avevano ben d’onde, perché dalla nonna ci si poteva aspettare di tutto e di peggio.
Al notaio, che aveva tirato un sospiro di sollievo per la conclusione pacifica della questione, non restava che chiudere l’incontro con i saluti di prammatica. Ma fu, a questo punto, che alzatasi, dopo aver confabulato col figlio, la signora Fortunata, chiese, rivolgendosi a tutti: «Scusate, ma i sandali? I suoi sandali d’oro dove sono finiti?» Queste parole si abbatterono su tutti i presenti come una ventata di gelo. Parvero mummificati, con gli occhi vitrei inchiodati sul notaio che, sbalordito, non seppe cosa rispondere.
Io, che conoscevo un po’ la storia dei sandali, mi volsi subito verso il parroco e, poi, osservai la zia. Ero curiosa anch’io della cosa. La nonna me li aveva fatti vedere una sola volta, in presenza proprio della zia e del parroco. Li custodiva in uno scrigno dorato che teneva nascosto dietro una parete mobile nella sua camera.
Di essi si raccontavano mirabilie. Pare che la nonna li avesse ordinati ad un gioielliere di New York, in occasione di un suo viaggio di piacere, nella ricorrenza del decimo anniversario.(Della morte del nonno, naturalmente). Avevano il tacco e le finiture in oro massiccio ed erano tempestati di pietre preziose d’enorme valore.
Un diamante, grosso come una nocciola, sormontava, algido come un faro, le due fibbie. Mio padre che, a quel tempo, teneva ancora i conti della nonna, lo sentii raccontare che per quei sandali sua madre dilapidò metà della fortuna ereditata.
«Quando andava alle feste importanti, specialmente a Venezia» mi raccontava la zia «il bagliore che emettevano, sotto il riflesso dei lampadari di cristallo, affascinava uomini e donne». Insomma, come si dice, erano proprio letteralmente tutti ai suoi piedi.
Allorché cominciò ad invecchiare, intorno agli ottanta, i due sandali scomparvero. Il giorno prima – era stata la zia, la mia cronista d’epoca a notare la cosa e a raccontarmela – si verificò un lungo colloquio, segreto, fra la nonna e il parroco. Pasqua era vicina e si pensò ad una confessione più dettagliata del solito. In realtà, avendo per buona parte dell’incontro potuto origliare dalla finestra, lasciata colpevolmente socchiusa, la zia, con la sagacia e la malizia che la distingueva, aveva capito qualcosa di molto importante e stravagante allo stesso tempo era scaturito da quel colloquio.
Pare che la nonna avesse deciso di affidare i due preziosi oggetti al prete avendogli costui promesso che, per come l’avevano resa felice in vita, così l’avrebbero allietata anche in morte. Il marpione le avrebbe assicurato che, se fosse riuscito a nascondere i due sandali sotto il cuscino del feretro, questi le avrebbero agevolato il viaggio anche verso le sale celesti.
Probabilmente la signora Fortunata, a cui la nonna confidò più di un segreto, era stata messa a parte delle intenzioni della vecchia, ma non si capacitava perché nessuno nemmeno il notaio ne avesse parlato.
Il suo effetto l’ottenne, più di quanto avesse sperato. Infatti, tutti si scossero dallo sbigottimento iniziale e fingendo ognuno di voler andare a fondo del mistero, si erano dati appuntamento per il giorno dopo, di primo mattino, per mettersi alla ricerca nell’immensa casa, dei due sandali d’oro.
Tutti si dettero a rovistare, mettendo a soqquadro ogni più riposto angolo, rovesciando mobili, cassetti e masserizie, il tutto naturalmente alla presenza del notaio, e dopo aver accertato che, anche dietro la parete mobile, il ripostiglio era desolatamente vuoto.
Ci ritrovammo, – sì, perché a quest’improbabile caccia al tesoro partecipai anch’io – sudati delusi e stremati, che era quasi mezzogiorno, nell’ampia sala da pranzo. Dei sandali nemmeno l’ombra. Attendemmo, perciò, che il monumentale orologio a pendolo battesse le dodici. Allora mia madre, con generale sollievo, s’affacciò per dire: «Giacché ci siete, potete fermarvi a mangiare un boccone. Quello che c’è.»
Solo il notaio, garbatamente, rifiutò per impegni inderogabili.
Tutti gli altri si accomodarono in attesa della profumatissima zuppa che mamma stava servendo.
Io, per caso, finii seduta proprio vicino al parroco che, prodigo di inusitati complimenti, m’assicurò l’ammissione alla prima comunione per l’anno dopo. Dei sandali d’oro nessuno parlò più. Ma erano una brace viva sotto la cenere. Bastava passarci sopra e se ne sentiva il calore. Così quando, alcuni anni dopo, si vide sorgere la nuova chiesa e, insieme, al suo fianco, la canonica e uno splendido oratorio con annessi i campi da gioco e gli spogliatoi, pochi credettero ad un ignoto donatore come s’affrettò a dichiarare la Curia.
Sarebbero passati altri anni e io sarei diventata vecchia, quasi come la nonna, quando sui giornali comparve una clamorosa notizia. Da “Sothebys” la famosissima casa d’aste, a Londra, il 12 novembre 2008 furono venduti a 500.000 sterline, due sandali d’oro, di provenienza ignota, “sicuramente di un casato nobile veneto”, si scrisse.
Solo allora si seppe che, forse, la salita della nonna alle vie celesti non doveva essere stata proprio così agevole come lei aveva impunemente sperato.

Gino Zanette



Torna alla homepage dell'autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
Le Antologie
dei Concorsi
Tutti i nostri
Autori
La tua
Homepage
su Club.it