Opere di

Gino De Guglielmo

Addio, Gesualdo

Da te venni, o Gesualdo, ancora in fasce,
dall’avita mia Santa Paolina.
E alla mia mente te sospirando spesso richiamo
anche se dalla tua gente accolto fui in modo difforme.

Adulto, verso altri lidi emigrai: un’isola selvaggia
mi adottò, terra dal mare cristallino, piena di bellezze e incanto,
ove spiagge conosciuto ho dalla sabbia dorata,
ove ho ammirato molti antichissimi nuraghi.

Qui non esule, ma tale un po’ mi sento.
Per troppi anni, troppi, lontano da te, eppure sembra ieri!
Tre decenni son passati che non ti rivedo
e sembrano eterni!

Non odi, o Gesualdo, i miei sospiri
e i miei palpiti? Come t’ama
e di questa nostalgia
l’anima mia quanto geme!

Oh l’ardore di gioventù! e i sereni sogni d’un tempo
che più non c’è. Se pur circondato da piccole cose,
anzi misere assai ricompensato fui
con l’esuberanza, il vigore e la freschezza di gioventù.

Se pure umile il mio verso,
a te giunga gradito.
E dico: Va, va in quei luoghi,
e quelle strade rimira,

e quelle case abbarbicate simile
a una nave che sembra sfidare
mari battuti da tempeste, e che nel cuore
di chi s’allontana sempre dolce torna il ricordo.

Va, mio pensiero, e ripercorri
le tante viuzze che s’inerpicano
ai piedi dell’antico Castello,
ove precluso erano al volgo le sue stanze,

e solo accedere si poteva
al cortile interno. Il cancello sempre chiuso,
di un giardino, muto e solitario,
che nessuno mai ha varcato.


Aritzo

Un’aria pulita t’avvolge
e dei boschi il silenzio.
Pensili colline riposano
in mezzo a frange di castagni,

e nella tua pace profonda
ancora vedo la vecchia madre,
anelante, salire
su su in cima al “Fungo.

Di calcare il picco libero si slancia
e la vallata domina
immersa nella fitta ombra.
Vorrei averti sereno

al mio sguardo – come la prima volta – quando l’ormai ottantenne madre,
che più non c’è,
agile a te tendeva.

E nella tua quiete il senso coglieva
chi sa se della vita che scorre
o l’eco del Pensiero eterno?

Ora questo ricordo a me
torna insistente, e l’anima mia
dolce tristezza invade.


Il mio Noel

Noel così lo chiamammo.
Ci fu dato in dono il giorno di Natale.
Un ciuffetto era di piume gialle
e ali di grigio screziate.

Sin dal primo mattino
un canto diffonde nell’aria, e note
spande dintorno melodiose.
Noel!... Noel!... a questo richiamo
risponde con il suo reiterato cip… cip…

Arditi e repentini passaggi si odono
con scoppi di gorgheggi e capricci
fino a raggiungere altezze sublimi.
Una pausa!.. ed ecco il cantore
che riprende il suo repertorio.

Con nuovi accordi di fughe e ghirigori
il canto si eleva,
per scemare dolcemente fino a toccare
note basse e grevi tonalità.
Poi è silenzio… silenzio di breve durata.
E subito ricomincia.

Dita agilissime su tastiera d’organo
o su strumento a corda non eseguirebbero
in così breve tempo simili concenti.

Non ha la compagna,
e il maschio è indotto
a cantare con più veemenza.
Chissà se poi è un accorato richiamo d’amore
o invece una sfida al suo rivale?

Il piccolo cantore si esalta, e fino a sera, ebro,
questo angolo di cielo riempie del suo canto.
La melodia i nostri cuori
allieta, e tenerezza nell’anima risveglia.


Il mio settembre

Fuggita per sempre la mia giovinezza
e con essa i vaghi
e bei sogni. Le primavere volate via
e l’età matura è già un ricordo.

Con alti e bassi la vecchiaia a volte grava
come una cappa di piombo.
A discendere la parabola della mia vita
sereno mi accingo

come una nave che, tra bonaccia e marosi,
entra in porto per gettare l’ancora.
L’uomo più buono diventa
da vecchio come i frutti maturi.

Velleità e desideri
si spengono, svaniscono aspirazioni e sogni.
Proprio come l’onda irata
che, palpitando, a riva giunge stremata,
e infine muore.

Questi miei giorni, sempre più brevi,
ai tramonti paragono di settembre
privi di quell’ardore estivo
ma non così gelidi come d’inverno.

Fra ansie e timori di incombenti
malattie al sole mite e fra queste carte
il tempo veloce scorre.
E come le foglie non si staccano dai rami,

pur investite da folate di vento,
io a questo settembre assomiglio,
e il termine della mia vita anche rinvio
con il sole che inesorabile declina dietro i monti.


Immoto è il tempo

Immoto il tempo fra pendii di silenzi
pieni e di castagni
dirupanti in cupe valli.

Aritzo, luogo ameno e di sorgenti
ricco d’acque vive
che rocce rompono e rupi pervie.

Case, orti e giardini immersi
in un verde perenne, e nella torrida stagione
freschi effluvi spirano dai colli dintorno.

Qui t’ho sepolta mia solitudine, e già dolci
amicizie nascono, e il giorno a un altro è mai uguale,
e l’essere bene accetto il mio cuore rende felice.

Altra vita in me si desta. Io a questi suoni
e sotto limpidi cieli mi sveglio, adolescente,
e a voci amiche finora ignote, m’apro sereno.

Sentieri e tetti rossi col cannocchiale osservo al tremolare
di rami e foglie. E quando me ne stacco
visione imprimo su foto che ora rimiro con stupore.

Seduti in cerchio al fresco della sera
e, parlando in gran pace, la luna
alta nel cielo osservo col suo chiarore color di perla.

Che dolcezza riandare col pensiero
gli anni di gioventù
e di un soggiorno così stupendo!


Laconi

Per digradanti vigneti l’Oasi
domina rossiccia pianura
chiusa a mezzogiorno da ondulati colli.

Nel suo bel mezzo su alto
cono ruderi si elevano
del castello di Las Plassas.

E a settentrione tra il verde
cupo scorre a cascate il verde
con fiori ed erbe contro serrati tetti rossi.

E’ Laconi che s’adagia
con le sue casette linde
in dolce pendio, e nel solenne

silenzio pare che dorma.
In basso svettanti cipressi
a indicare l’estrema dimora.

Allo sguardo il Parco sfugge
col suo verde intenso
tra mormoranti limpide acque fresche.

Quivi in rovina il castello degli Aymerich
testimone di antichi intrighi e torbidi amori,
tra cruenti e liete vicende l’oblio avvolge.

Un cancello esclude il passo dal giardino,
e fra un tripudio di piante esotiche
e varietà di fiori, un angolo di paradiso qui si scopre.

Coi suoi giganteschi rami
un albero di cedro si china
ad arco fino a baciare la terra.

Per solitarie vie in declivio fra Ignazio
camminò nell’estasi della fede,
e da allora la santità aleggia dell’umile fraticello.


La Controra

Parola da molti ignorata,
qualcosa più del pisolino o della siesta.
Usanza antica che al sud
si perpetua tra ozi e silenzi
di assolati pomeriggi interminabili…

Persiane e scuri chiusi,
e gente in casa al buio,
ad attendere che passi il caldo intenso.
Deserte le vie e l’aria soffocante
per un sole che abbacina.

Furtivi scivolano i monelli tra orti e sentieri,
a far man bassa di fioroni e moscatella,
per allentata vigilanza. Solo giovani
a quest’ora a chiacchierare
sulla vecchia scalinata al riparo d’ombra.

Lieve un venticello e balconi
che si aprono e signore coi ventagli,
sedute nella sopraggiunta ombra.
In strada le prime sedie, e mamme accaldate
e bimbi che giocano festosi.

Sui sedili di pietra, ancora caldi,
gli stessi vecchietti,
e noi giovani muti e assorti, in piedi,
a udire raccontar le stesse cose.


La morte del canarino

Uno squittio udimmo, uno sbatter d’ali,
là intorno alla gabbia in terrazza.
Alto un grido si levò fra noi, e d’improvviso
sinistra un’ombra scomparve su per i tetti.

Un falco era. Il solito falco che ad altri pennuti
nel vicinato stroncò la vita. Tramortito, dal fondo
della gabbia, il mio canarino raccolsi trepidante,
e un forellino scorsi all’angolo dell’occhio.

La ferita strizzai, e il fiocco di cotone
si macchiò di sangue rosso.
Anche un po’ di pellicina raccolsi
con piume macchiate di sangue.

Un silenzio scese in tutta la casa,
un silenzio carico di tristezza e rabbia.
Immobile restò il canarino per due giorni e due notti,
col becco poggiato sopra un pezzo di stoffa.

Che pena!.. ma quando il capino vedemmo eretto
tutte le speranze si accesero. Si mosse, saltellò,
volò da un posatoio all’altro, bevve finanche
e alle gretole si aggrappò della gabbia, in alto.

A sera ahimè lo trovammo disteso
con le zampine in aria supino
come nella culla il cucciolo
dell’uomo prima di addormentarsi.

Non più a questo cielo
manderà i suoi trilli e le sue agili note,
né il suo canto riecheggerà
tra questi chiusi giardini e queste terrazze assolate.


La siepe

Al raggio del mattino
m’apro con le corolle,
e tutto è un ricamo di rugiada.

Non più questi alti pini
che me videro infermo
prediligo, ma questa siepe,

che questo cielo a me nasconde
e il frusciar suo lieve,
e questa panchina dove
con me più spesso siedi.

Qui nati sono i primi turbamenti,
ed ora in solitudine
a ricordare m’attardo
timori e speranze del dolce tempo.

Silenzi più non temo,
voce umana hanno e di quiete
e cari sono i volti della gente,

e il ridere e il parlare quanto a me soavi.
E mi sorprendo d’esser
rimasto così a lungo indifferente.


Non storia appresi di te, o Gesualdo

Non storia appresi di te, o Gesualdo,
solo episodi di oscuri amori,
di tristi e funeste vicende, spesso
di favola ammantate e di leggenda.

Ora scopro la tua grandezza
e i tuoi splendori, e turbato al pensiero
che di quel tempo poco o nulla rimane.

Da famiglia discendi nobilissima,
da un leggendario avo, e dal gran Tommaso d’Aquino,
e superbo vai dell’antichità della tua stirpe.1)

E cardinali2) annoveri tra la tua gente
e il papa Pio IV e persino san Carlo Borromeo, tuo zio materno,
e suo cugino Federico di manzoniana memoria.

Ospiti illustri avesti come Stravinski e molti altri,
e rapporti con il Tasso sul piano artistico,
che scrisse per te madrigali da musicare,

e nei suoi sonetti ti esaltò,
e le tue origini cantò nelle armoniose ottave
della Gerusalemme Conquistata.

Nell’arte musicale rifulgesti, o Gesualdo,
grazie al principe Carlo tuo signore e mecenate
che, emulando i fasti musicali di Ferrara,

si circondò di musici eccellenti,
ed egli stesso compose e suonò su corde
e pentagrammi madrigali divini.

  1. Stirpe:dai d’Avalos / agli Estensi / dai d’Aragona / ai Medici /dai Gonzaga /ai Borgia.
  1. Cardinali: Alfonso Gesualdo / Alessandro d’Este / Alessandro d’Aragona.


Per le vie di Quartu

A malincuore queste carte lascio e questa veranda,
oasi alla mia fantasia. M’aggiro indolente e senza meta
per la città, oggi silenziosa. Negozi, strade e cortili
malinconia dolce pervade.
Ritorna il passato e la nostalgia mi prende.

Davanti alla mia scuola mi fermo,
e dal cancello il cortile osservo. Mi sento un estraneo.
Guardo i lecci che frondosi sopravanzano il muro di cinta.
Là in fondo l’aiuola che curavo e i suoi fiori
dove solo una pianta è rimasta a cespuglio.

Il portoncino è chiuso ( altrove è l’ingresso).
Rivedo i miei alunni entrare,
chi tranquillo e chi vociante,
mentre alle aule si accedeva per le ampie
scale del primo piano.

Lo sguardo corre ai finestroni
e la mia aula stento a ravvisare.
I visi rivedo dei miei alunni dietro i vetri
protesi verso un mondo
vario, più vivo e più attraente.

Calano le prime ombre
e io faccio ritorno carico di ricordi,
e con in cuore la nostalgia del passato.
A quei sogni e speranze vo mescolando
acciacchi e tedio e un vuoto di cuore e di cervello.


Piccoli giardini

Profumo di rose e fiori d’arancio
alle stanze mie solitarie
sale
dai piccoli giardini,
chiusi da alti muri.

Muri scrostati del color della terra
e chiome di aranci e di limoni,
che al lieve soffio del vento sporgendo
tremolano
e i segni rivelano del tempo.

Melodia di silenzi in questa parte
di cielo e tenui effluvi di fiori, e una coppia di tortore che
plana
verso la mia veranda e l’anima mia, inebriata,
si accende di fremiti e nuovi palpiti.

Non più miasmi manda
lo stagno del Molentargius
all’alitare
della brezza, ma un freschissimo
odore di ninfee e alghe.

Giunchi, stiance e canne in fiore
da un lato corrono della strada
da Quartu a Cagliari, e allo sguardo le acque
nascondono,
e la vita che quivi ferve.

Dall’alto o in corriera
numerosi uccelli galleggiare
si vedono
sullo specchio dolce e salmastro,
e l’acqua increspandosi si dilata in lievi cerchi.

Avocette, folaghe e germani reali
lo stagno a frotte
sorvolano,
e con larghi giri, starnazzando,
in picchiata si abbassano su ogni nuova preda.


Poesia

Viali di bossi e sempreverdi
ove a rapirmi viene la quiete
con i suoi lunghi silenzi.

Come splendente quel tuo
primo sorriso!
e come dolce il ricordo
che ancora m’inonda

di gioia! e parole dico
senza senso, mentre lento
il tempo queste ore scandisce.

E quando tu non ci sei
tutto è un riaffluir di visioni
e ricordi del nostro primo incontro.

Dolce il canto d’uccelli
e più mio lo stormire
di questa siepe.

Il chioccolio della fonte a voci assomiglia
umane. E i rintocchi lievi del vespro
a riso paragono di soavi fanciulle.

Poesia, quanto ti trascurai!
Ogni cosa, mio cuore,
ora dolce rimesto.


Rintocchi a sera

Lievi i rintocchi la campana
reca dell’Oasi. E’ l’ora
della vespertina preghiera.

Incendia sole d’agosto quella parte
di cielo che ci sta davanti…
Bassi i raggi ci accecano.

Corrono gioiosi i bimbi
per l’erta, e tu…
al mio braccio pensi?

Fresco un venticello
smuove i tuoi capelli di rame
che ravvii con grazia.

Poi ansante ti fermi
sotto la frusciante siepe.
Ti guardo… sei bella!

Hai mutato vestito ma rossa
ancora in viso; nella chiesetta
entri… ed io dietro in silenzio.

L’ultimo chiarore si diffonde
dalle basse vetrate, furtivo il tuo sguardo
nella penombra ancora serbo in seno.


Ti vedo, o Gesualdo

Ti vedo, o Gesualdo, adolescente, dalla Fiera
venir giù, in forte pendìo, fino a piazza Neviera.
Ora salire verso il Castello, ora scendere giù giù
fino al Canale, mia cara dolce contrada.

Qui crebbi fra gente fiera e selvatica,
e qui battagliero mi formai affrontando
le tante avversità della vita. Dalle finestre
della vetusta casa, avido di libertà,

protendevo verso la piazzetta
dei nostri giochi, e verso quei tramonti d’oro,
ove, pensoso, il sole vedevo sparire lentamente
dietro la montagna di Chiusano.

Dall’alto della piazza Umberto I vedo,
commosso e pur dolente, la casa paterna
e, dietro, le ultime propaggini
di nuove case e linde villette.

E la tua campagna ancora vedo
cosparsa di casolari e varietà di piante
che dolcemente va scomparendo come
inghiottita dalla valle del Fredane


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