Opere di

Gilbert Cerbara

Con questo racconto ha vinto il nono premio all’edizione 2007 del Premio Il Club dei Poeti.


«Adesso ricordo»

Massimo Neri non amava ricordare, il suo tempo era il presente e lo guidava da padrone.
Massimo era lucidità, mente sgombra, continuità; e questo provocava decisione in pensieri veloci, schiettezza, rapidità ed efficacia, mente proiettata agli obiettivi, ma salda nel presente ad organizzare, fare, impostare.
Aveva una sua teoria: la vita era un filo dove scorrevano due coni cavi uniti per la punta. Davanti stava la base cava del cono che risucchiava ad imbuto il futuro, dietro il passato usciva fumoso come da una marmitta; e nell’unione delle due punte c’era il presente; l’unico momento possibile.
Il presente emetteva un rumore leggero, in verità anche fastidioso; si sentiva nel silenzio, nella solitudine, all’inizio era un sibilo lontano e intermittente, poi aumentava, forse era lo scorrimento delle punte dei coni nel filo, ma poteva sembrare anche quello di una sega elettrica che tagliava un tronco lunghissimo o il precipitare di un liquido in un bicchiere.
Erano già le sette di sera, chiuse a chiave gli uffici e inserì l’allarme, sarebbe stato a casa alle otto circa da sua moglie, accese lo stereo, sapete, quel silenzio…
Lei era molto diligente, a volte chiudeva il negozio con ritardo per riordinare perfettamente ogni cosa, in quel caso lui cucinava, fece un rapido inventario mentale del frigorifero di casa e stabilì cosa avrebbe preparato e come.
Emerson Lake & Palmer: “From the Beginning” cantavano le casse.
Al terzo semaforo la macchina era ben calda, guardando nel retrovisore notò nell’auto alle sue spalle una ragazza che attirò la sua attenzione, sedeva al fianco di qualcuno che sbadigliava dentro al cosmo utilitaria, dal cruscotto impolverato e i vetri appannati.
«L’ho già vista?».
Il visino ora serio era intrappolato nel ricordo di un silenzioso sorriso tranquillo:
«Ah sì! Si girava verso di me, diceva qualcosa…».
«......diceva…...».
Un sorriso appena accennato di persona in forse, un sorriso timido su occhi tristi, seri com’erano a guardare la strada, come fanno i passeggeri, distrattamente. La perse quando svoltò verso la tangenziale, mentre accelerava il motore potente della sua duemilequattro turbodiesel.
Le sue aspirazioni non erano state straordinarie, ma le aveva raggiunte tutte, le aveva masticate e digerite con facilità imbarazzante, non era condizionato dal dolore dei ricordi né dalle ansie del raggiunto, era sempre stato esattamente dove il tempo scorre.
Si sentiva in quel momento un treno in corsa sui binari, nessuna distrazione, nessuna deviazione, nessuna trasfusione, il telefono squillava senza sosta, ora un agente, ora un altro che gli chiedeva dei prezzi, ora il capo che dava direttive sul tal cliente che Massimo confermava o controbatteva con pacata fermezza, entrò in autostrada e l’asfalto vibrò sotto i suoi pneumatici.
Un cliente gli parlò dei suoi problemi personali: «Sono instancabile, sento la stima che provoco». Pensò.
Procedeva a marce forzate quando in terza corsia, ai centottanta all’ora, la grossa berlina d’argento di un dio coi baffi invase di colpo la sua rotta cozzando nel suo anteriore e spingendolo contro il New Jersey.
Mentre sentiva che i capelli della nuca si rizzavano, mentre taceva perdendo il telefono, mentre stringeva il volante che tirava a sinistra di una forza inarrestabile, mentre i piedi puntavano sui pedali e le spalle spingevano sullo schienale del sedile, mentre malediceva, malediceva quel figlio di serpente che l’aveva speronato, mentre pensava:
«Mio Dio!» tutte le cellule del suo corpo urlavano: «È finita!» Adesso! Ora! Era finita. L’auto s’impennò di lato, ma lentamente.
«Che cacchio, no!... non è possibile, potrei morire».
Tornavano indietro in un lampo i pensieri, non abbastanza veloci da abbracciare ogni momento del passato, ma tali da riportargli a quel presente alcuni stati impressi come a fuoco nella coscienza e nella memoria delle cellule del corpo.
Un ricordo che si materializzò subito fu un fugace abbraccio della madre prima che l’autobus si fermasse per portarlo a scuola prima delle lezioni di quarta o quinta elementare.
Era un giorno assolato e caldo, la mamma indossava la sua bella camicia bianca ed il dolce sorriso di donna bellissima era incorniciato dai folti capelli ondulati dai quali sgorgava un boccolo ribelle che le accarezzava la fronte ed il bel viso di marmo.
Mai labbra sarebbero state più così dolci per lui, mai lo sguardo più intenso ed amorevole, il suo bacio profumato e dolciastro fermò il tempo nel silenzio, poteva tornarci fisicamente a quel momento.
Le ruote di sinistra si staccavano da terra, in quel non contatto la spinta in alto ed in avanti non poteva essere fermata, in contrasto col suolo che si stava perdendo, davanti al parabrezza solo il grande tramonto.
La discesa in moto, quel giorno della pesca con Luigi che seduto dietro alla vespa con le gomme che stridevano teneva in mano i pesci dentro un sacchetto di plastica che gocciolava poco prima che si spaccasse e cadessero a terra; tre erano vivi e tre ne morirono. L’estate a Napoli dagli zii, e quella morettina che quando le toccava i seni rideva.
Tutte giornate felici.
Poi di colpo pensò a sua moglie ed al suo viso felice ed a come sicuramente stava apparecchiando la tavola e pensava ad altro, ignara e di come avrebbe acceso la tv se fosse riuscito a tornare a casa.
«Ecco, se potesse sapere che muoio adesso».
Nel volo in alto tutto si fece silenzioso, il fianco della macchina si mise perpendicolare alla strada e procedette avanti.
Massimo Neri aveva vissuto senza nessuna resistenza, aveva fatto parte del movimento delle cose, era sempre stato in vibrazione con le cose, aveva fatto i conti subito appena nato con quel vuoto contro il quale prima o poi tutti dobbiamo fare i conti e aveva vinto.
La mattina si era sempre alzava per primo, aveva adorato la sua bella moglie quando questa si illuminava trovando pronta la colazione che lui le preparava dopo la doccia e la barba, e si era sempre vestito con cura, succo d’arancia e un toast caldo nella luminosa cucina grande che avevano scelto assieme.
In ogni giornata soleggiata o fredda, era uscito di casa come sempre alle sette esatte per infilarsi nella pasticceria dove tutti lo conoscevano.
Sovrastava tutti i clienti di tutta la testa, i suoi capelli neri striati di fili argentei brillavano sul suo bel viso dove un perenne sorriso aperto rivelava denti bianchissimi e curati come curata era tutta la sua persona.
Monica, la giovane barista, si contorceva ogni giorno flessuosa come al frustino degli occhi di Massimo che era sempre stato un mostro di grazia, aveva bevuto lentamente il suo decaffeinato e si era diretto verso la macchina per recarsi verso il lavoro immergendosi in un alone esotico di fumo di camion.
Chiedetevi: «Che cosa ha fatto di quell’uomo quell’uomo?».
Rispondetevi: «Non l’ambiente è il solo responsabile dell’uomo adulto, ma un grosso nucleo innato che si svilupperà sicuramente».
«Un nocciolo che è l’essere vero e proprio, un istinto naturale, bestiale o animale se vogliamo che spinge a sopraffare o ad essere sopraffatti. Un centro, un’anima».
Le sue azioni erano guidate dalla convinzione che sentirsi in colpa per il proprio passato non avrebbe potuto cambiarlo né l’avrebbe reso migliore, meglio decidere, magari sbagliare serenamente perché tutto si può rimediare.
Massimo aveva saputo bene quanto poteva ferire il suo atteggiamento duro e sprezzante a volte, Carlo ad esempio si zittiva e diveniva introverso, Andrea si contorceva e tendeva al mellifluo, Alessandra rispondeva per le rime, ma non indietreggiava, ognuno reagiva a suo modo, lui aveva sempre agito invece.
Sapeva di aver lasciato unghiate nel cuore dei più sensibili, ma l’obiettivo era lavorare per ottenere dei risultati non fare assistenza sociale.
Aveva saputo di essere a volte detestato, criticato sempre, amato poco, rispettato quanto basta, ma era sempre andato avanti, il suo era stato un automatismo.
Lui era sempre stato così, forte duro e continuo, pignolo, trascinatore e dotato; non fumava, non beveva ed era padrone di ogni situazione, nelle sue mani salde ogni cosa si era realizzata naturalmente nel miglior modo possibile, aveva accettato il suo essere ed accettato di conseguenza che questo potesse non piacere agli altri.
Non si era quasi mai sentito in colpa, egli era stato, egli aveva potuto essere se stesso fino in fondo solo in quel modo.
Avere compassione, pietà snaturarsi, capire, abbracciare, amare o semplicemente tacere se non si sentiva di farlo, l’avrebbero castrato, cambiato in peggio.
Aveva saputo questo da sempre, aveva seguito il suo istinto, dover combattere per ogni cosa che aveva voluto, difendersi dall’attacco di tutte le persone che feriva e quindi prepararsi al meglio ogni volta, studiare attentamente ogni dettaglio ogni volta, essere sempre forte, essere duro, convinto, tranquillo, fiducioso.
Non aveva mai avuto bisogno dell’accettazione altrui, non era mai andato in crisi se aveva sentito la disapprovazione di chiunque; se non della madre. «Devo chiamarla quell’ubriacona…».
La sicurezza traspariva sempre dal suo volto soddisfatto, troppa soddisfazione malcelata sul suo ingegno, sulla solidità della sua memoria e su come ogni frase che usciva veloce dalla sua bocca impressionasse a tal punto l’interlocutore facendolo sentire sempre un po’ inferiore.
La mamma in quella casa buia, che viveva tra i suoi ricordi ed il suo silenzio, «Massimo può fare quel che vuole, con mistero e sapienza gli vengono naturali tutte le cose» le sentì dire una volta ad una sua amica.
Lui faceva e basta “perché il fare non si impara dai libri”.
Intratteneva Massimo rapporti cordiali con il capo che ne apprezzava lo spirito aziendale e collaborativo, quasi tutte le sere si fermavano nel suo ufficio per i resoconti e Massimo, sempre professionale ma simpaticissimo, impostava qualche battutina salace detta di prima se il capo era sulle sue o di risposta se era di buon umore.
«Quel cretino non è capace neanche di fare una “O” con un bicchiere e io devo morire in questo momento».
Una sera aveva letto per un’oretta “Il Processo” di Kafka sbuffando e con le palpebre pesanti, poi aveva pensato: «Questo libro mi è inutile» ed invece ora avrebbe voluto averlo letto quel libro. Poi qualcosa lo strappò dal sedile, un rumore sordo gli esplose in faccia, vide il parabrezza in frantumi ed in un attimo l’interno dell’auto cambiò forma mordendolo alle gambe e spingendo sul petto.
Una carambola e tutto finì finalmente. «Sto bene» Pensò. «Sono vivo!», ma non riusciva a muovere un muscolo, poi il dolore se lo portò via da qualche parte nel maledetto silenzio.
Massimo era proprio impressionante, era sempre presente a se stesso, ricordava con esattezza il prodotto che il tal dei tali aveva usato quella volta e come fosse stato consegnato ed applicato.
Non diceva mai, Carlo ad esempio l’aveva notato subito, “se ricordo bene” ma “se non ricordo male”; è diverso, inoltre sosteneva che loro due che erano come la lepre e la tartaruga della famosa favola, e Massimo era la lepre naturalmente, ma a differenza della storia non si fermava a riposare e quindi vinceva sempre.
Rumore confuso di sirene e tempo che passava, un uomo giovane parlava di un certo medico: «Non conosco nessun medico…». tentava di dire Massimo con una voce che non era che sussurro.
Qualcuno lo chiamava, era sempre quello di prima, quello del medico, mentre Massimo ricordò finalmente chi fosse la ragazza della macchina dietro di lui al semaforo e sussurrò con un filo di voce.
«È quella del bar dove siamo andati quella mattina con Carlo».
«Parla, sussurra qualcosa» disse il medico.
«Sì..., si è girata e…, ma non parlava… e lontana… come mamma…».
Fece pace col silenzio.
«Adesso ricordo».
Detto questo morì.

Gilbert Cerbara


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