L’uomo in nero e altre scorie

di

Gianni Darconza


Gianni Darconza - L’uomo in nero e altre scorie
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14X20,5 - pp. 174 - Euro 12,60
ISBN 978-88-6037-7395

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Opera segnalata nel concorso letterario Jacques Prévert 2006 sez. narrativa.


In copertina fotografia dell’Autore


Prefazione

Con “L’Uomo in nero e altre scorie”, Gianni Darconza propone una raccolta di racconti dal carattere ambivalente: da una parte, la condizione esistenziale dell’Uomo che deve fare i conti con le contraddizioni che porta con sé, come si riscontra nel racconto “L’Uomo in nero”, che vede un killer professionista prendere in ostaggio i dipendenti di una banca con l’incarico di uccidere uno di loro il cui nome gli sarà rivelato solo all’ultimo momento; dall’altra parte, una forte spinta creativa e fantastico-immaginifica come nell’ineffabile racconto sul potere della pubblicità.
Ne emerge una visione dai contenuti idealistici che graffia nell’animo umano fino a raggiungere le zone d’ombra, le pulsioni più profonde, le segrete paure così come le ataviche limitazioni dell’essere umano.
Nelle narrazioni di Gianni Darconza è costante la fedeltà alla lettura critica della realtà e tutto viene raccontato con freschezza e, al contempo, con estrema decisione, facendo emergere ciò che è sommerso, ciò che muta e sconvolge, il mare magnum d’inquietudini che possono assediare la mente dell’Uomo.
I racconti, seppur eterogenei, hanno comunque un filo conduttore comune: trascendono dalla limitata visione e percezione del tempo, quasi spaziando in una dimensione atemporale, in un “oltre” che supera ogni umana comprensione.
È netta la sensazione di assurgere ad una possibile verità del visibile, di estrapolare dalle evidenze anche ciò che risiede nel mondo dell’invisibile. La capacità di comprendere la vicenda umana è messa a dura prova dalle molteplici varianti e dalle oniriche visioni: un continuo gioco di sottili equilibri su una simbolica e affilata lama letteraria che taglia e seziona gli stati d’animo, le emozioni e le lacerazioni così come le genetiche pulsioni e mancanze.
Ecco allora che il racconto sulla Creazione con la figura di Adamo, Eva e la presenza del Serpente, che è sì tentatore ma è anche intelligente e ben conscio che Lui esisteva già, prima dell’Essere Umano, riconduce ad una visione ai limiti della ferocia nei confronti dell’Uomo e dei suoi limiti.
E poi, è mirabolante il racconto “Pubblicità” con una tagliente e ironica sequenza d’immagini che riportano ad una disamina critica sulla massificazione, sull’invadenza nonché sul soffocamento mentale prodotti dal potere della pubblicità. Ciò che conta è vendere il prodotto e comprare l’anima del consumatore che è “sempre” una semplice pedina del sistema: ecco allora un ragazzo che corre all’impazzata per sfuggire all’assedio pubblicitario di un fantasmagorico catalogo delle ultime invenzioni tecnologiche, proposto da coloro che, “a tutti i costi”, vogliono offrirgli un minidivorabriciole da tavola a batterie ricaricabili, un tritura prezzemolo portatile a energia solare, un backgammon tridimensionale elettronico, una micro slim bilancia da polso o addirittura una penna telescrivente a onde cerebrali. Quasi a partecipare ad un inseguimento da incubo, insieme al ragazzo, a fare i conti con individui senza scrupoli, con loschi figuri che vogliono comprargli tutto ciò che ha addosso, nonché ad essere allettato da proposte di fantastici contratti pubblicitari che gli permetteranno di vivere nella ricchezza.
Ma il ragazzo ha una missione da compiere… la mèta da raggiungere renderà palese che viviamo in un mondo dove “si conosce il prezzo di tutto ma non si conosce più il valore di nulla”.
Gianni Darconza sottolinea che è nelle fenditure della vita che si nascondono le verità: un simbolico Uomo in nero che porta con sé la morte eppure non sa ancora chi deve colpire; una bellissima donna, ammirata da tutti, che però è triste per l’amore perduto; un uomo che piange fino a precipitare nell’abisso per il dolore della perdita d’un amico; il Serpente messo da Dio a guardia dell’Albero i cui frutti erano proibiti all’Uomo eppure…
L’intenzione di Gianni Darconza è spingere a comprendere ciò che si nasconde tra le parole dei suoi racconti, ciò che risulta occulto ad una superficiale lettura: le soluzioni sono nei residui delle esperienze, nelle rimanenze di ciò che la vita propone, nelle vicende che ognuno porta con sé, negli avvenimenti reali o nelle visioni che nascono da un fertile immaginario.
Nei frammenti del vivere e nelle “scorie che devono essere eliminate per non intaccare il nostro organismo”, proprio come scrive Gianni Darconza, si ritrovano le immagini forti, le evidenze di racconti che penetrano nella sostanza, nell’intreccio di trame che si muovono tra reale e fantastico.
La capacità narrativa dell’Autore rende appieno tali intenzioni, le proietta su un piano che obbliga a pensare, a guardarsi allo specchio, a confrontarsi con ciò che “non si conosce”.

Massimo Barile


L’uomo in nero e altre scorie


A Leila


Introduzione

Proprio così. Nessun errore di lettura da parte vostra. Nessuna svista da parte dell’editore né dell’autore. Il titolo suona proprio così: L’uomo in nero e altre scorie. Vi aspettavate un’altra parola, non è vero? Certo, basta cambiare una consonante affinché il titolo acquisti un senso compiuto. Mio compito in questa introduzione sarà cercare di illustrare che anche così il titolo ha un senso, perché è precisamente di scorie che è composto questo libercolo che avete tra le mani. Scorie della mente, rifiuti del pensiero che mi permettono di vivere in salute e che nella mente di qualche lettore riusciranno forse a trovare terreno fertile e condizioni favorevoli per trasformarsi da puri escrementi spirituali in sostanza utile e vitale. In qualcosa di nuovo e originale.
Scorie, come quelle che si originano nel nostro organismo dalla digestione degli alimenti, dalla loro riduzione graduale a componenti fondamentali, siano essi zuccheri, amminoacidi o lipidi, per darci, in seguito alla loro combustione, energia vitale o i mattoni necessari a costruire e rigenerare. Ma se la loro assimilazione è tanto importante per la nostra sopravvivenza, altrettanto importante è l’eliminazione dei residui che, se persistessero troppo a lungo nell’organismo, finirebbero per avvelenare il sangue e condurci a morte certa.
Scorie, come quelle azotate che vengono eliminate attraverso i reni in un liquido giallognolo dall’odore nauseabondo oppure quelle, di consistenza più solida, che, attraverso un altro condotto che si raggomitola in una complicata matassa, terminano con un ultimo salto da uno sfintere verso un vaso di ceramica bianca. Prodotti di rifiuto dall’aspetto e dall’odore sgradevole di sostanze che pure avevamo gustato e trovato appetitose al palato o profumate all’olfatto e che dopo aver fornito energia alle cellule, ai tessuti, agli organi, agli apparati e all’organismo intero, non vediamo l’ora di espellere, come dimostra il senso di profonda soddisfazione che proviamo dopo tale operazione. Ma ciò che per noi è di rifiuto può diventare fonte di nutrimento per altri organismi viventi, e il ciclo vitale ricomincia.
Scorie, come quelle che troverete qui dentro fra le pagine (anch’esse residui di alberi un tempo vigorosi e poi abbattuti), residui di esperienze di vita, di vicende, di fatti accaduti veramente ed altri prodotti dalla mia mente, che alla fin fine è poi la stessa cosa. The brain is wider than the sky, scrisse una famosa poetessa. E con ragione, poiché la mente è onnivora e ingurgita le esperienze attraverso i sensi, cibandosi di parole, suoni, gesti, immagini, odori. E dopo averli trangugiati, li riduce gradualmente a componenti fondamentali, siano essi singoli microeventi, idee semplici, frammenti di idee o briciole minime di pensiero, per poi ricomporle secondo una propria sequenza o bruciarle per dare vita alle nostre cellule spirituali, costruire la nostra mente o rigenerarla laddove ha subito danni. Da questa combustione mentale derivano pure dei residui, delle scorie appunto, che devono essere eliminate affinché a lungo andare non avvelenino i nostri centri nervosi compromettendo seriamente la nostra salute mentale.
Da questa necessità, che alcuni in modo impreciso hanno indicato come terapeutica, ma che è molto di più, è processo vitale, come il respirare, il nutrirsi, il defecare; da questa necessità, dicevo, nasce la scrittura, vera e propria scoria delle mente che ha il pregio di fertilizzare un foglio di carta con i residui derivati dalla digestione dell’esistenza. Scorie che, benché prodotti di rifiuto, non sono necessariamente inutili per altri organismi viventi. Nulla si crea e nulla si distrugge; tutto si trasforma, ci hanno insegnato fin da bambini durante le lezioni di scienze. Quello che hanno dimenticato di dirci è che tale principio non vale solo per i processi fisiologici o biologici, ma anche per quelli mentali. Voi in questo momento siete gli alberi (o le mosche) che si nutrono dei rifiuti della mia mente. Quanto di ciò che mangerete sarà di vostro gradimento dipende, credo, esclusivamente dai vostri gusti e dal vostro appetito.
Incontrerete, lungo il vostro pasto scandito dalle pagine, uomini a voi totalmente sconosciuti e altri che forse avete conosciuto in sogno. Le trame intessute di reale e immaginario vi condurranno attraverso personaggi vestiti di nero, uomini di banca con i loro segreti, giovani inesperti e impulsivi alle prese con problemi di vita quotidiana (questa, sì, un vero e proprio incubo) e altri che molto probabilmente avrete già incontrato in uno dei grandi best-sellers di ogni tempo, ma con qualche minuscola differenza. Faccio anche notare che questa è forse la prima raccolta di racconti interrotta da una “Pubblicità”, e non lo dico certo con orgoglio, poiché temo che questa mia idea possa generare desideri di emulazione che potrebbero in futuro degenerare come è accaduto in televisione.
Era mia intenzione includere in questo libro anche le avventure, sospese tra sogno e realtà, di un giovane insegnante che viene a trovarsi invischiato in torbide vicende di plagio psicologico e abusi sessuali all’interno di una scuola cattolica sotto la direzione di un vescovo. Ma questa, mi rendo conto, è un’altra scoria…


L’uomo in nero

Le sirene della polizia giunsero ululando tutte insieme alcuni minuti dopo che era scattato l’allarme. Dario Giani, vicedirettore in carica, seduto in un angolo contro il muro dell’ufficio come tutti i suoi colleghi, cercava di capire dal suono assordante proveniente dalla strada sottostante quante potessero essere le macchine che erano sopraggiunte. Molte, a giudicare dall’incredibile confusione che pareva essersi scatenata al di fuori dell’edificio. Dalla sua posizione non poteva vedere all’esterno, però sapeva che non ci sarebbe voluto più troppo tempo.
Dario abbozzò un timido sorriso di sollievo. Sapeva che tutto quanto stava per concludersi. Lo avrebbero tirato fuori da lì sano e salvo. Tutta la paura avuta negli ultimi minuti era stata infondata. Se la sarebbe cavata solo con uno spavento e un’avventura in più da raccontare agli amici quella sera al bar. Forse sarebbe persino apparso in televisione o sui giornali. Ha avuto paura signor Giani? Che cosa ha provato in quei drammatici momenti?, gli avrebbero chiesto i reporter. E lui, spavaldo, gli avrebbe mentito con la migliore delle sue facce toste. Avrebbe detto che era sicuro che ce l’avrebbe fatta fin dal primo istante, che non aveva mai temuto veramente per la sua vita. E invece di paura ne aveva avuta tanta, prima che arrivasse la polizia. Si sentiva finalmente sollevato dal suono dolce e confortante della cavalleria che arrivava all’ultimo minuto, ma pur sempre in tempo per salvare i buoni della situazione. Si sentiva sollevato per la prima volta da quando l’uomo in nero era entrato all’improvviso nel suo ufficio, poco meno di mezz’ora prima, armato di pistola e mitragliatore.
L’uomo in nero si era avvicinato alla finestra che dava sulla via principale. Senza esporsi e tenendosi lontano dal vetro, su un lato della finestra, diede un’occhiata alla situazione circostante. Riusciva a contare sette macchine della polizia e un’ambulanza asserragliate davanti all’entrata principale della banca. Ma intuiva che vi erano altre macchine appostate attorno all’edificio per controllare anche le uscite secondarie. I poliziotti avevano cominciato a transennare la zona attorno all’edificio, sforzandosi di tenere lontano la folla di curiosi che si erano già accalcati numerosi come spettatori davanti ad un cinema in cui viene proiettato un film in prima visione. E la celebrità in quel momento era proprio lui, il fantomatico uomo in nero, con il suo impermeabile nero, i suoi stivali da motociclista neri e quegli occhiali scuri che celavano un viso imperscrutabile. L’uomo in nero sapeva che a quel punto non si poteva più tornare indietro. Doveva portare a termine il suo lavoro. Non che avesse mai avuto intenzione di ritornare sui suoi passi. Solo che ormai aveva oltrepassato il limite di non ritorno, oltre il quale sarebbe stato più arduo tornare indietro che proseguire.
Sonja Lehmann, la nuova segretaria dell’ufficio, era forse la più terrorizzata del gruppo. Si guardò attorno e vide i suoi colleghi tirare un sospiro di sollievo dopo aver sentito le sirene amiche della polizia. Si sentivano rinfrancati al solo pensiero che laggiù qualcuno si stava dando da fare per salvare il loro culo. Ma Sonja non era altrettanto fiduciosa. C’era qualcosa di strano nel modo di fare di quell’uomo vestito di nero. Dietro a quegli occhiali impenetrabili non era riuscita a scorgere il minimo segno di agitazione né di nervosismo all’arrivo delle forze dell’ordine, come se anche quel momento facesse parte di un piano minuziosamente congegnato. Sonja non si era mai ritenuta una ragazza particolarmente coraggiosa, ma in quell’istante sentiva che la fiducia degli altri nelle forze dell’ordine era mal riposta. Non ne sapeva il motivo, però le era parso che l’uomo in nero stesse giusto aspettando l’arrivo della polizia e che presto sarebbe accaduto qualcosa di inatteso. Qualcosa che avrebbe demolito la fragile speranza che era nata nel cuore dei suoi colleghi di lavoro.
Squillò un telefono. Era quello sulla scrivania di Sonja. L’uomo in nero si voltò verso gli altri e domandò di chi fosse il telefono. Sonja, in preda al panico, non osò rispondere. Le occhiate dei colleghi si diressero verso di lei. Erano occhiate di accusa, come se fosse stata colpa sua se il telefono si fosse messo a squillare proprio in quel momento, disturbando il loro rapitore. Sonja divenne rossa in viso. I suoi splendidi capelli dorati parvero luccicare per un attimo, illuminati dalla luce artificiale al neon dell’ufficio.
L’uomo in nero si avvicinò lentamente al gruppo di ostaggi. Fissò Sonja per un istante che parve interminabile, come se avesse dovuto decidere se ucciderla subito o lasciarle ancora qualche prezioso attimo di vita. O forse quella era l’impressione che ne ebbe Sonja, poiché nulla traspariva dal viso duro e impenetrabile dell’uomo in nero, non la minima emozione, non il minimo indizio di umanità. Pareva un essere soprannaturale, quasi inumano, un essere uscito da un film cinematografico, dietro quegli occhiali da Terminator e quel suo modo di fare alla Clint Eastwood.
“Rispondi al telefono!”, disse l’uomo in nero. “È la polizia. Ci parlerai tu ed eseguirai alla lettera le mie direttive ripetendo esattamente quello che ti dirò.”
Sonja annuì terrorizzata. Si alzò con il cuore che le martellava in gola. Avvertiva su di sé le occhiate degli altri. Udiva le parole appena percettibili dei suoi colleghi che le ripetevano. “Fai tutto quello che ti dice. Non contrariarlo. Non lo irritare.” E ancora. “Siamo nelle tue mani. Non ci deludere.”
Il telefono continuava a squillare senza tregua. Aveva ragione il rapitore. Doveva essere per forza la polizia. Un altro a quel punto si sarebbe rassegnato e avrebbe riattaccato. Sonja prese il ricevitore e lo accostò all’orecchio trattenendo il respiro. Per un attimo desiderò che fosse un messaggio del tipo Sorridete! Siete su Candid Camera! Allora avrebbe sfogato tutta la tensione e tutta la paura che aveva accumulato nell’ultima mezz’ora. Li avrebbe insultati come non aveva mai fatto in vita sua. L’uomo in nero si avvicinò a lei in modo da poter sentire meglio quel che veniva detto all’altro capo del telefono. Si era fatto un silenzio assoluto nell’ufficio, come se anche gli altri avessero voluto ascoltare il messaggio che sarebbe giunto dal ricevitore del telefono.
“Sono il comandante di polizia Lo Russo.” Disse la voce all’altro capo del filo. “Si identifichi per favore!”
“Lehmann, segretaria dell’ufficio dirigenziale della Banca Nazionale.”
“Bene, signorina Lehmann. Mi faccia parlare con uno dei vostri rapitori…” L’uomo in nero coprì con una mano il ricevitore del telefono e bisbigliò qualcosa all’orecchio di Sonja. Gli altri tesero l’orecchio per cercare di capire che cosa le avesse detto, ma invano. Sonja ripeté al telefono.
“L’uomo che ci tiene in ostaggio mi ha riferito di dirle che è solo e vuole che sia io a parlare con lei. Le ripeterò quello che mi dice di volta in volta. Per ora mi ha comunicato che se cercherete di passare all’azione, verrà ucciso immediatamente uno degli ostaggi.”
“D’accordo, signorina Lehmann. Dica al nostro uomo di non agitarsi. Nessuno sta cercando di fare il furbo, per il momento. Non finché sarà lui a tenere il coltello dalla parte del manico.”
L’uomo in nero bisbigliò ancora qualcosa all’orecchio di Sonja. Lei si volse nuovamente verso il ricevitore.
“Comandante! Il nostro rapitore dice che se non vedrà scendere i tiratori muniti di fucile che sono stati mandati sul palazzo di fronte entro i prossimi cinque minuti, ci sarà una prima vittima tra gli ostaggi. La prego signore! Faccia quello che chiede.”
Vi fu una lunga pausa. Il battito cardiaco di Sonja si fece più assordante. Credette di essere sul punto di perdere i sensi, ma riuscì a restare in piedi. Le gambe le tremavano, e così anche le mani. Poi la voce all’altro capo del filo si fece sentire ancora.
“D’accordo, signorina. Dica al vostro rapitore che ho già dato l’ordine ai nostri tiratori di abbandonare il palazzo di fronte. Li vedrà uscire da un momento all’altro. Gli dica di non commettere azioni avventate, di riflettere… Quante persone sono tenute in ostaggio là dentro?”
Sonja guardò con occhi spaventati l’uomo in nero per ottenere da lui il permesso di rispondere o meno alla domanda. L’uomo in nero la guardò freddamente e rispose con un cenno del capo.
“Siamo in sette qui dentro, me compresa.”
“C’è anche il direttore?”
“Sì!”
“Si sta comportando molto bene, signorina.” Disse il comandante. “So che è difficile, ma cerchi di mantenere il sangue freddo. Ora chieda al nostro uomo che cosa vuole esattamente.”
L’uomo in nero, che era andato verso la finestra a sincerarsi del fatto che i tiratori si fossero davvero allontanati dal palazzo attiguo, ritornò accanto a Sonja, coprì nuovamente il ricevitore con una mano e le parlò a voce bassa. A lungo… Dall’altro capo giungeva la voce impaziente del comandante. Signorina! Mi parli, signorina! Che cosa sta succedendo?
Tiziano Colombi, il direttore della banca, li osservava con ansia, tendendo l’orecchio per cercare di afferrare qualcosa prima degli altri. Del resto quello era sempre stato il suo atteggiamento nella vita, anche nel lavoro. L’avere informazioni prima degli altri, fosse stato anche una manciata di secondi prima, poteva costituire un vantaggio enorme in una banca e fonte di guadagni incalcolabili. In quel frangente Tiziano sapeva che era comunque solo questione di tempo. L’uomo in nero era lì per una banale rapina. Ma, nonostante le apparenze e il suo fare da uomo duro, doveva essere un povero dilettante. Altrimenti non si sarebbe fatto incastrare dentro un ufficio con sette ostaggi come un misero ladruncolo da quattro soldi. Un professionista avrebbe ideato un piano migliore. Li avrebbe derubati in un batter d’occhio e avrebbe avuto la prontezza di riflessi necessaria a dileguarsi in tempo prima dell’arrivo della polizia. I suoi soldi non correvano pericolo alcuno, lo sentiva. La polizia sarebbe riuscita a riacciuffarlo immediatamente, sempre che fosse riuscito a scappare da quell’ufficio. Tuttavia la vista di quelle armi lo terrorizzava. Perché se qualcosa fosse andato storto, quel ladro avrebbe riversato la sua collera sull’ostaggio più importante: sul direttore. In quel momento Tiziano Colombi avrebbe rinunciato a tutti i suoi privilegi di direttore di banca, persino alla sua paga astronomica, pur di essere un semplice impiegato.
“Il nostro rapitore chiede che venga condotto un elicottero con il pieno di carburante entro mezz’ora.” Si fece sentire nuovamente la voce di Sonja. “Vuole che sull’elicottero ci sia un pilota civile. Se si accorgesse che è un poliziotto, aprirà il fuoco su di noi. Se ci saranno tentativi di liberare gli ostaggi nel frattempo, farà fuoco. Nel momento in cui giungerà l’elicottero verranno rilasciati tutti gli ostaggi all’infuori di uno.”
Tiziano Colombi non riuscì a trattenere una espressione di panico. I suoi sospetti erano dunque fondati. Sapeva benissimo chi sarebbe stato l’ostaggio trattenuto.
“Qual è lo scopo di tutto questo, signorina Lehmann?” Chiese il comandante Lo Russo.
“Non l’avete ancora capito? È una rapina.” Urlò Sonja, e in quell’istante l’uomo in nero le tolse il ricevitore dalla mano e interruppe la comunicazione.
“Molto bene, signorina.” Disse. “Ora torni a sedere al suo posto. Se avrò ancora bisogno di lei, la chiamerò.”
Volse lo sguardo verso gli altri ostaggi che sbiancarono in viso di colpo.
“Lei, laggiù!” indicò con un dito l’uomo in nero. “Come si chiama?”
“Christian Müller.” Rispose atterrito il contabile dell’ufficio, laureatosi in economia all’università di San Gallo. Lui che cosa c’entrava? Era uno degli ultimi arrivati in quell’ufficio. Non era una persona importante. Perché ora l’uomo in nero voleva lui? Che cosa aveva fatto di male? Se ne era stato zitto zitto, come aveva detto lui, senza creare problemi. Tranquillo. Almeno tanto tranquillo quanto si potesse rimanere in una situazione del genere. Anzi era risaputo in ufficio che Christian era una persona timida e molto schiva, una persona che parlava poco con gli altri dei suoi affari privati. Un uomo serio, dedito unicamente al suo lavoro. Non usciva mai con i colleghi la sera per andare a bere qualcosa. Partecipava solo alle cene organizzate dalla banca in occasione delle feste natalizie o alla fine di luglio, prima che iniziassero le vacanze estive. E anche quelle le aveva sempre considerate come cene di lavoro e mai di divertimento. Era così solitario che nessuno in ufficio poteva dire di conoscerlo bene.
“Non si spaventi signor Müller.” Disse l’uomo in nero con tono freddo e distaccato, come fa chi allontana con il dorso della mano un moscerino perché è così insignificante da non valer neppure la fatica di essere schiacciato. “Non ancora, almeno… Venga qui ed esegua esattamente quello che le dirò.”
Dopo aver parlato per alcuni istanti con l’uomo in nero, una maschera di incredulità si dipinse sul volto giovane ed ingenuo di Christian, come se gli fosse stato chiesto di uscire la sera a bere qualcosa in compagnia dei suoi colleghi.
“E allora? Che cosa aspetta ad eseguire l’ordine, signor Müller? Non sono stato abbastanza chiaro?”
Christian, scosso dal tono di voce glaciale dell’uomo in nero, balbettò un sì! poco convinto e, sotto lo sguardo attonito degli altri, si avvicinò ad uno dei telefoni dell’ufficio, situato nell’angolo più lontano della finestra, afferrò il ricevitore e ripeté il numero di telefono impresso.
“Il numero di questo telefono è 922 4980!”
“Bene!” Disse l’uomo in nero soddisfatto, come se avesse avuto semplice conferma di qualcosa che già sapeva. “Ora stacchi tutti i telefoni dell’ufficio all’infuori di quello. Non abbiamo alcun bisogno degli altri apparecchi… Sì! Stacchi anche quello della signorina Lehmann, che ormai è controllato dalla polizia.”
“Come farà la polizia a contattarci?” Mormorò in uno slancio di coraggio improvviso la voce di Aicha Zitouni, la bella segretaria algerina che sedeva in quel momento accanto al direttore.
“Non ci sarà più alcun bisogno di parlare con la polizia.” Disse l’uomo in nero. “Sanno già quello che voglio. O almeno credono di saperlo…”
E fu il sorriso ironico che seguì a quelle parole a gelare il sangue nelle vene di tutti quanti. O forse il fatto che dopo averle pronunciate l’uomo in nero avesse gettato un’occhiata al quadrante del suo orologio come se fosse in attesa di qualcosa. Sì! Ma di che cosa?
“Ora signor Müller si avvicini!” Disse l’uomo in nero non appena Christian ebbe terminato il proprio compito. “Prenda questo e vada a sedersi laggiù, di fronte al telefono della signorina Lehmann, vicino alla finestra.” E così dicendo l’uomo in nero porse il mitragliatore a Christian che ammutolì per la sorpresa.
“Non si monti la testa, signor Müller”, disse con un sorriso l’uomo in nero. “È scarico. Lo è sempre stato, a differenza della pistola che ho in mano. Mi servirà solo da esca, in modo tale che se ci fosse ancora qualche tiratore appostato sul palazzo di fronte, crederà che sia lei l’attentatore.”
“Ma il poliziotto al telefono ha detto di aver dato l’ordine ai tiratori di allontanarsi…” disse Christian balbettando e con gli occhi lucidi.
“È sempre meglio non fidarsi della polizia, mi creda. Se lei avesse ragione e non ci fosse nessuno a tenerci d’occhio dal palazzo di fronte, allora mi sarò sbagliato e saremo tutti felici e contenti. Ma se io avessi ragione allora lei non avrebbe più alcun motivo per sentirsi felice.”
“Perché proprio io?” disse Christian spinto dalla disperazione e dal terrore. “Perché non uno di loro? Il direttore ad esempio?” Aggiunse indicando con l’indice Tiziano Colombi. Il viso di Tiziano si fece rosso per la collera e per la paura. Maledetto codardo, pensò, aspetta solo di uscire da questa faccenda integro e ti butto fuori dalla mia banca a calci in culo!
“No!” Disse l’uomo in nero, “il direttore è una persona importante. Perché credete che abbiano mobilitato tutti quei poliziotti? Non certo per le vostre facce da allibratori falliti e depressi. Di impiegati di banca è pieno il mondo. Non posso mettere vicino alla finestra il direttore, perché lo riconoscerebbero subito e comincerebbero a insospettirsi. E questa è una cosa che non voglio. Ho scelto lei, signor Müller, perché di lei non avranno mostrato alcuna fotografia ai poliziotti. Lei è il classico esempio di nullità che non interessa a nessuno. Ora vada a sedersi dove le ho indicato se non vuole che sia io a piantarle una pallottola in mezzo agli occhi.”
Scosso e abbattuto da quelle dure parole, con le lacrime che cominciavano a bagnargli gli occhi e sotto la minaccia dell’automatica dell’uomo in nero, Christian dovette suo malgrado eseguire gli ordini e sedersi dove gli era stato ordinato, consapevole del fatto che dalle finestre circostanti sarebbe potuto partire da un istante all’altro il proiettile che avrebbe messo fine alla sua giovane, misera vita di contabile di banca.
L’uomo in nero si voltò e si avvicinò alla sedia situata vicino all’unico telefono ancora in funzione dell’ufficio. Con fare sicuro di sé, pose gli stivali sopra la scrivania di noce massicio, in attesa della prossima mossa.
“Vi starete chiedendo, signori, qual è lo scopo della mia visita.” Cominciò l’uomo in nero scandendo bene le parole, come se avesse voluto che i suoi ostaggi le memorizzassero per il futuro. “Alcuni di voi hanno subito pensato ad una rapina. E così vi ho lasciato credere fino a questo istante. Ora però è giunto il momento di dirvi il mio vero obiettivo. Mi dispiace deludere le vostre aspettative, signori, ma non sono un ladro. Mi sta bene che la polizia, laggiù, mi creda un ladruncolo da strapazzo che in preda al panico si è rinchiuso in questo ufficio con sette ostaggi. Mi sta bene perché in tal modo saranno sicuri che finché mi assecondano io non farò del male a nessuno di voi. Purtroppo però io sono qui per uccidere proprio uno di voi. Sì, avete capito bene. Sono un killer professionista. E senza peccare di presunzione, credo di poter affermare di essere uno dei migliori nel mio campo, altrimenti il mio mandante non avrebbe mai escogitato un’azione così complessa.”
Il sottile bagliore di fiducia e sicurezza che aveva brillato sul volto dei più nel sentire le sirene della polizia svanì di colpo. Sonja lo sentiva. Sentiva che sarebbe successo qualcosa di terribile. Sapeva che il mondo sarebbe crollato su di loro all’improvviso. Lo aveva capito dalla sicurezza e dalla freddezza con cui l’uomo in nero aveva condotto tutte le sue mosse fino a quell’istante. Un piano diabolico, complesso magari, però in grado di distruggere psicologicamente lei e i suoi colleghi.
Anche Tiziano Colombi si era fatto pallido in viso, quasi esangue. Fino a quel momento aveva creduto di avere a che fare con un povero inetto, con un dilettante. Ora si rendeva conto di averlo sottovalutato. E quello di sottovalutare un avversario era sempre stato uno degli errori che considerava più gravi nella sua vita di manager. Aveva cominciato a sudare freddo, come del resto tutti gli altri attorno a lui. Quell’uomo era lì per uccidere e non per derubare. Che importava se poi la polizia lo avrebbe catturato. Nessuno aveva il potere di fermarlo in quell’istante.
Francesco Dini, impiegato, non riusciva ancora a credere alle sue orecchie. Ma come poteva un killer professionista creare tutto quel casino solo per uccidere un uomo? Perché aveva dovuto trattenerli tutti in ufficio invece di isolare il suo bersaglio e farlo fuori lontano da scomodi testimoni? E perché non aveva ancora portato a termine il suo lavoro? Perché si era attardato tanto, al punto da lasciare il tempo alla polizia di arrivare sul luogo del delitto prima di commetterlo? Ma più di ogni altra cosa una domanda nasceva spontanea nella mente di Francesco e in quella dei suoi colleghi: chi era la vittima designata?
“Per quale motivo allora ci tiene tutti in ostaggio se il suo scopo è quello di uccidere solo uno di noi?” Osò domandare Manuel Rossi, il settimo ostaggio, esprimendo finalmente a voce un pensiero che era balenato ormai nella mente di tutti quanti.
Tiziano Colombi e Dario Giani, il suo vice, avevano cominciato a temere seriamente per la propria vita, pensando probabilmente che la vittima designata di quell’assurda azione omicida dovesse per forza essere uno dei dirigenti. Perché qualcuno avrebbe voluto vederli morti? Che cosa avevano fatto di male?
L’uomo in nero abbassò i piedi dalla scrivania, impugnò la pistola e si rivolse verso il gruppo di ostaggi.
“Posso immaginare quello che vi sta passando per la mente. Vi starete chiedendo chi è la persona che dovrò uccidere a sangue freddo e perché non l’ho ancora fatto.” Gli ostaggi ammutolirono in attesa di quella risposta tanto importante che avrebbe decretato la fine prematura di uno di loro e la salvezza degli altri.
“Vedete signori,” continuò l’uomo in nero, “il motivo per cui non ho ancora portato a termine il mio lavoro è che non so ancora chi di voi sarà la mia vittima. So bene che potrà sembrarvi assurdo, ma quando ho accettato questo incarico, mi è stato imposto di non chiedere troppi dettagli prima del tempo. Sappiate solo che uno di voi si è creato un nemico tale da essere in grado di pagare una somma non indifferente per farlo fuori. Riconosco che il piano escogitato dal mio mandante potrà sembrarvi folle. Perché organizzare un piano così pericoloso quando sarebbe bastato sparare sulla vittima da lontano senza esporsi minimamente? E volete sapere l’aspetto più divertente di tutto ciò? Ho accettato l’incarico perché l’ho ritenuto insolito ed emozionante, una sfida che un killer del mio calibro deve tentare prima o poi nella sua carriera.

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