Allegro moderato

di

Gianmario Lucini


Gianmario Lucini - Allegro moderato
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14x20,5 - pp. 48 - Euro 6,20
ISBN 88-8356-185-6

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Nota introduttiva

“Allegro moderato” di Gianmario Lucini è opera di straordinaria tensione etica. Il poeta emana dai suoi versi una volontà di riappropriazione delle responsabilità, o meglio del concetto stesso di responsabilità – il nostro ha molta dimestichezza con la materia filosofica – troppo spesso demandata ad altri e soprattutto ad altro. Vedi in primo luogo ai media, a quella televisione che fa tutto per noi, ci disimpegna: “a mostrarci, a spiare/ogni grandezza e dolore/che la mente scissa vedere non vuole/...”
È un Lucini lucido che ci dice nella prima sezione della raccolta, intitolata non a caso “Tivù”, che il tubo catodico esorcizza il nostro senso morale, lo attenua, lo edulcora a tal punto che: “Oh regista dopo questo /strazio /non mandare altre immagini /lasciaci nella sera navigare a occhi chiusi /dal nero di quegli occhi folgorati // lasciaci credere che svolino nell’aria /vive ancora nei colori di Rio/dopo il tuo documentario /- ch‘è solo un pugnale virtuale /e non ferisce cuore occidentale”.
Usando un ritmo incalzante che a volte s’innalza per necessità, per impossibilità del non dire ma che si avvale di una musicale “discorsività” asciutta e priva di fronzoli, Lucini affronta temi cruciali quali la scomparsa di Dio o la morte terrena col piglio di chi non ha paura dell’argomento ma anzi afferma a se stesso ed agli altri che è giunto il momento di uscire allo scoperto, di “sbilanciarsi” nel comunicare la propria visione del mondo. Dio e la morte, per quanto una certa “retorica” pubblicitario-comunicativa-di massa cerchi di mostrare il contrario affinché a nessuno di noi venga il dubbio, la perplessità non tanto sul singolo prodotto quanto sull’essenza tout court del sistema dei consumi, dicevo Dio e la morte non sono archiviabili alla stregua di una vecchia pratica, la loro impellenza non è procrastinabile. Ecco allora che: “Tutto il dolore sta oltre la pellicola, /quel velo azzurrino di polvere /del nostro oblìo, impalpabile e ridicola /mascherata d’un’atavica paura /di morte, armatura di noia /che ingoia le sue vittime ridendo; /tutto il dolore sprigiona e non vince quel muro // che l’immagine nostra riflette, /imbambolato sguardo acritico”.
Le altre sezioni della raccolta intitolate nell’ordine “Campeggio”, “Adolescenza”, “Ipocondrie scarlattiane”, “Fiori”, si prefiggono, almeno a me così pare, di spostare “il tiro”; attraverso un effetto di straniamento sapientemente controllato, eccoci a condividere la realtà di un pesce, la donna della reception del camping, i turbamenti e la beata spensieratezza dell’adolescente, la variegata famiglia floreale. E ad ognuno di questi momenti, di queste implacabilmente descritte situazioni corrisponde la ricerca del senso, quel senso dell’esistenza e delle cose che ci circondano che possono chiamarsi di volta in volta tempo, spazio, relazione, indagine, speculazione ecc. ma che sono accomunate da un unico comune denominatore: il desiderio di affermare, di non arrendersi alla totalità negativizzante del Nulla, che è lo spettro che aleggia su ogni parte del testo.
Per concludere, quasi a tornare circolarmente all’inizio di questa breve impressione di lettura, mi piace ribadire il richiamo alla tensione etica di cui parlavo in apertura: “Ma l’edera tenace sale e sale /formica vegetale /il suo inverno conquista né s’arresta /fino al sommo di un’aerea festa /- potere sommo, /mondo visto dall’alto /in alto vive pur se terra non gli è data /vive di gloria alla sua gloria abbarbicata”.

Fabio Ciofi
Siena, febbraio 2001


Prefazione

L’eterogenità delle situazioni da cui Lucini trae spunto di poesia è sintomo di inesausta ricerca d’Assoluto, necessità di Consapevolezze negate, non vissute o non riconosciute come tali. “Allegro moderato” si articola in momenti sillogici e la tensione si stempera man mano che l’analisi tocca quanto è vicino e non temuto, per cui le contraddizioni si appianano, si raggiunge un accettabile equilibrio e il discorso si fa anche lirico. In “Tivù”, nell’occhio del nuovo conformismo oggettivante il poeta rileva incongruenze, mancanze, distorsioni di senso; epperò si fa irretire, partecipa e compartecipa al reale-costruito assimilandone ritmi e proposizioni. Un modo “altro” di essere nel mondo, da contestualizzare (ed accettare) senza demonizzazioni e preconcetti. “Campeggio” è ritorno all’ambiente naturale, su cui lo sguardo poggia senza allertamenti e meno indagativo. “Adolescenza” trasmette levità e un certo distacco divertito e partecipativo (mi riporta a Luciano Erba), privo di rimpianto. Il dettato appare complice e aperto alla vita.
“Ipocondrie scarlattiane” è un breve intermezzo di registro alto; il poeta si accosta al volubile discorso musicale riconoscendogli valore fondante d’esperienza. L’Arte si erge non tanto a medium tra Uomo e Dio, quanto a piena e massima espressione dell’Uomo in questa vita.
Chiude “Fiori”, a mio parere un molto ben riuscito omaggio a quanto il poeta ritiene bello (e utile, e appagante) nel mondo, una ricomposizione pacificata col suo Io nel segno dell’amore per la donna e la natura. Probabilmente, la sezione più densa di significati poetici.
In definitiva una raccolta da leggere con attenzione perché Lucini sa il fatto suo e nei suoi versi c‘è molto contenuto.

Giuseppe Cornacchia
Pisa, febbraio 2001


Allegro moderato

A Marina
Agli Amici


1. Tivù

“...pure la più ostinata
coscienza si dissolve
nel coro allucinante delle cicale”

D. M. Turoldo – da: Nel segno del Tau


Angelus dominae

Dà inizio alla serata di sciagure
la bella annunciatrice:
ti fa un saluto il tuo ruolo benedice,
il tuo status d’uditore
di mutilate notizie – rottami
già invalidati dell’ultima ora –
primizie del dramma dei lontani
che in fumo azzurrino vapora
– estasi di tabacco.


Metempsicosi

Tre minuti e il capo ciondola
le voci s’inglobano sfumano
in olismo di sensi che rammenta
quel primo sciabordìo nella placenta
voci ipnagogiche o quel sussurrare
del vento fra gli scuri
nei pomeriggi d’estate.
O forse il fiato di un dio che irrompe
e ti rapisce oltre lo spazio, oltre il tempo
(canone sciamanico
a prezzo politico).


Voce

Voce suadente: ricolma vallate,
pervade alture pur senza tuonare,
voce inumana di cento cascate,
apoteosi e prologo in prima serata
– ci desta e ci introduce
all’aroma dell’ultimo caffè,
viatico al giorno e proteso
ponte verso il domani.


Educational

Televisione che si apre sul mondo
illumina il fondo dei mari
e gli orizzonti chiari domina e spazia,
si fionda nell’azzurro
cupo del cielo e fruga
l’angusta povertà di una capanna,
a mostrarci, a spiare
ogni grandezza e dolore
che la mente scissa vedere non vuole,
a commentare a tratti, a spanne un’impotenza,
in appagata aseità
che di potenza s’alimenta;
visione accesa ed emozione spenta
– parla per lei l’evidenza iper-critica
del sapiente montaggio delle immagini –
in questo stellare viaggio senza requie,
tappa dopo tappa sempre più lontano
in tondo navigare, intorno all’uomo
fino ai porti del suo incubo,
come fosse il mondo lì, supplice, ad attendere
sua grazia o sentenza
che gli dia un po’ di fiato, un po’ di vero
che di là dal vero esista
– a volte lo senti forte pungolare
nello spasimo dei succhi gastrici,
ed è così che ti trangugi un antiacido…


Oculus Dominae

Nelle favelas i bambini aspirano colla
e dormono nell’incubo
della morte che li veglia.
Assalgono vecchie borghesi e le derubano,
ma con disperazione adulta
e senza odio la vita consumano
in questa guerra che li vede già cadaveri
ridere con denti bianchissimi.

Oh regista dopo questo
strazio
non mandare altre immagini
lasciaci nella sera navigare a occhi chiusi
dal nero di quegli occhi folgorati
lasciaci credere che svolino nell’aria
vive ancora nei colori di Rio
dopo il tuo documentario – ch‘è solo un pugnale virtuale
e non ferisce cuore occidentale.


Quasi mistica

Illanguidita bagna la luce
fosforescente il cielo della notte
nella via fuorimano
ed esso sopra ad essa impallidisce,
vivido sogno, fantasma generato
dalle lucide pietre del selciato,
dagli scrostati androni che rimbombano
musiche e voci:
se levi il capo lo puoi intravvedere
l’occhio ceruleo del sogno che ti parla
e ti cattura da finestre spalancate.

Un fumo un leggero profumo
di lecito vizio l’avvolge,
e gli vai incontro nel chiarore di luna
volando come sciamano.
I fortunati in quel paradiso invidiato
vengono e vanno per una buon’ora
dalla dispensa al soggiorno
poi cadono in sonno di piombo
– effetto abatjour.


Se avesse un’anima

Ora è lei che parla, la muta
scultura che scruta la casa noi assenti.
Cupa maestà d’eremita, luce
immanenza e trascendenza in un sol quadro,
occhio sul mondo, sua essenza e modello
in essere e in divenire
– non cessa di frinire
se la risvegli
la sfidi…


Interno

Gli oggetti intorno stanno tutti muti
quand’essa si risveglia e quasi intimoriti
si raggrinzano, le cedono l’aria,
impalliditi a una luce d’ectoplasma

– fuoco di gelo che li brucia, lento,
d’occhio che osserva anche quando è spento –.
Quel pulsare di cuore, cuore che spia
rovente da orbita nera… (pazzia?)


Teosofica

Da quando Dio è defunto, qualcuno
dovrà pur assumersi la briga
di curarsi dei nostri malanni,
tessere fila di sogni e paure
e farne ordigni, difenderci
dalla natura delle cose, protenderci
a un luogo di salvezza e prospettiva
d’altro orizzonte, con la refurtiva
dei giorni riposta in cantina,
le vecchie ossa in solaio ad asciugare.

Qualcuno dall’immenso cuore, che comprenda
i nostri cuori in una formula sola
– garrulo canto di cicala che risale
un filo d’erba a esplorare il mondo…
Prove per l’ultima partita

Giocare è quel perdersi nel tempo
per gioco, appunto, sereno ammiccare
a una morte quasi bambina,
veloce e ossuta nelle nostre fantasie,
gioco di luce che aleggia
nella tenebra del grande palcoscenico,
già prima dell’inizio, fra gli spenti
riflettori dell’origine,
prima d’ogni pubblico
giunto dal nulla a tentare il suo brivido
– spasmo dell’effimero
amabilmente suo –
in un darsi e ritrarsi fra salvezza e perdizione,
protrarsi lì a sbalzo sul baratro e spiare
l’eternità per un attimo, tirarla
imploranti per la manica:
– memento di me
non mi finire,
tempo…


Mezza verità

Di non morire mai, l’unico affanno
televisivo: fa sorridere l’ingenuo
scongiuro a Lei, per discrete
sequenze di pene altrui – ah l’edonismo
immemore nostro,
come volo di passero
all’orizzonte del nibbio…

Ma io La voglio evocare
come volo sereno di deltaplano,
sorella nostra morte corporale
che nel silenzio infrange onde elettriche
ed empie benigna di colori
il muto rigore dell’assenza.
Soltanto potessi
come Lei volare…


Dedicata a

Passa lo strazio d’una storia
di povera gente in quello specchio lucido
passano i giorni dei politici, la noia
di anni che si ripetono
e dal profondo si richiamano
in un vivere nevrotico, scontento:
passato che ritorna, vecchi lupi
del nostro occaso a ululare
tutto il suo gelo, lo sgomento.
Oh tempo che mai si dà per vinto
e greve si trascina
nostra nicciana catena…


Talk show

Hai fra le mani uno spicchio di mondo,
lo giri e lo rigiri,
sospiri, bofonchi,
affondi
in certe piaghe, a caso.
In lui, che t’offre il collo adagio
studiando l’etichetta di palazzo,
immergi e ritrai la mano,
che palpita rossa d’un sangue
di vite stroncate
e come un trofeo l’esibisci
all’idiozia dell’ospite di turno
teneramente intrappolato fra i tuoi denti.
Ovunque il pretesto per un brivido,
stridula voce di fagotto che motteggi,
ovunque una nota da glissare
o flautato da sottacere,
stilando e ristilando quegli appunti,
quella scaletta che tutto armonizza
nel disarmonico:
– esibita mai
riserva a una frivola orchestra
nella serata cultural-edonistica.

Tutto s’amalgama, urla sottovoce
prima che esploda l’applauso.


Stadio

Sugli spalti inchiavardate le bestie
umane urlano all’arena.
Nello specchio della rete non trema
il portiere corrucciato. Lesto
uno ha sforato fra le strette
maglie della difesa. In quell’attimo
il tempo si gela. Tenaglie,
strette fauci chiudono un brivido
che elettrizza la marmaglia e tosto
dalle seggiole sincrona la scaglia.
Come petalo di pianta carnivora,
l’abbraccio del portiere attanaglia
l’oggetto sferico – simbolica
metessi d’una catarsi
che in gola ha rivoli di sangue
ed esplode in incredula ovazione –.
Ma c‘è sempre un’altra occasione,
prima che inauguri il tempo delle visioni
e delle revisioni il fischio dell’arbitro:
commenti amari, lamenti, scansioni
di un tempo ciclico, liturgico,
di scongiuri a un dio sferico
da prendere a pedate…


In terza serata

E l’improbabile non apparirà
nel suo lucore d’aria liquida,
dove danzano superstiti falene
nel profondo di certe estive brume

ma una saggia religio di scena,
serena vita e spalancata bocca
a trangugiare l’aria della notte
– credere sazio di amore e di pena –;

l’incredibile non è sulla scena
di quel mondo perfetto e già accaduto
che godiamo, in mutande e canottiera,
pallido il volto madido di luna:

piuttosto il suo non essere mai stato
o l’improbabile suo venire,
o il professare una presenza
che non presenzia mai…


Concerto in diretta

Invece di fare l’artista
il cameraman
indugi sulle dita del pianista
e ci trasmetta quel tremito
che parla finalmente
e non glissare sempre
sui controluce i riflessi
la moretta in prima fila,
lo stucco che ribrilla
sul soffitto barocco.
Tossicchia il pubblico e in quel tossicchiare
dorme una rabbia repressa
che il medianico pianista
consunto dal sudore
invia a Johan Sebastian.


Delirium tremens

... Tutto levitando arte cultura
la natura della morte e della vita
in tanta leggerezza sgraziata
politica murata nel suo cielo
parole senza vero e fiato e fiato
e tutto il concordato e il preveduto
deferente cenno del cronista la vista
suadente l’abilità della risposta
che tutto il mondo tutto esploda
straziandosi a brani seppellendosi
in una nuova tomba metafisica…


Necrofila

Televisione che scava il dolore
come un barbone scava spazzatura,
strumento di tortura e di espiazione,
processo, assoluzione,
coscienze sciorinate sulla piazza,
corazza di morale collettiva
per supplire a un’assenza di morale…

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