Basta un soffio

di

Gianluca Battistel


Gianluca Battistel - Basta un soffio
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 98 - Euro 10,00
ISBN 978-88-6587-1348

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In copertina: fotografia di Markus Zadra


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto la silloge è finalista nel concorso letterario J. Prévert 2011


Prefazione

Gianluca Battistel presenta una raccolta di racconti che nascono dalle varie manifestazioni dell’animo umano e si alimentano della visione, ad ampio spettro, della sua scrittura che riesce a rendere simboliche alcune vicende narrate.
I racconti pongono a fondamento la figura dell’Uomo che viene scandagliata nelle sue contraddizioni, nelle sue paure, con i vizi e le virtù dell’essere umano, con il tragico della vita, con la dolorosa perdita dell’identità e delle proprie radici, fino a sperimentare quanto il sentimento dell’odio possa attanagliare l’animo umano.
Ecco allora dipanarsi il mare magnum narrativo di Gianluca Battistel, che sorprende già con il primo racconto dal sapore tragico-grottesco: l’immensa “onda anomala”, diventa uno tsunami umano, materia composta da milioni di persone in carne ed ossa, esseri umani distrutti dalla fatica, che soffrono la fame, che vivono atroci sofferenze e avanzano sulla sponda del Mediterraneo come “onda umana” che può travolgere tutto.
Si ricollegano alla sofferenza dell’uomo anche i racconti che riconducono alla speranza, unico ed ultimo barlume di luce vitale, che accompagna coloro che fuggono dal loro paese: ma le loro speranze verranno deluse perché si ritroveranno a subire lo stesso dramma. E, poi, ancora, in un racconto crudo e straziante, vengono ricordate le atrocità che comporta la guerra, con il tentativo di un uomo che cerca disperatamente di eliminare il ricordo delle fosse comuni.
In altre narrazioni, lo sguardo di Gianluca Battistel si sposta sul senso della perdita dell’identità e delle proprie radici, riportando il dolore di un ragazzo che non può più vivere nella sua casa, nel luogo dove è cresciuto, a causa di una diga che ha invaso la vallata e, a differenza degli altri, lui non riesce ad accettare la nuova dimensione di vita che sente estranea.
Si scorgono poi, alcuni riferimenti al disagio esistenziale dell’essere umano, come nel caso del racconto in cui viene messo a nudo il sentimento di odio che può assalire un uomo quando si trova a fare i conti con i continui soprusi e le cocenti umiliazioni da parte del superiore: una vita di sopportazione, ma l’odio rimarrà solo odio.
La visione scende poi nel mondo interiore, nel profondo dell’Essere, con un racconto onirico, che vede l’uomo come un labirinto, soffocante e sconcertante, disperso nei meandri del proprio esistere: l’unica via d’uscita si rivelerà sorprendente perché il percorso salvifico condurrà ai suoi “occhi” con l’amara constatazione che una fuga non ci sarebbe mai stata.
Nell’eterogenea raccolta di Gianluca Battistel, sono presenti anche alcuni racconti che riconducono a diverse esperienze della lotta armata, riportando la memoria ad alcuni decenni fa, quando il terrorismo incideva profonde ferite al nostro Paese: ecco allora che il sequestro di un segretario regionale e la latitanza di due terroristi che, dopo la stagione della lotta armata, “vivono solo la paura della fine”, riportano alla mente vicende realmente accadute, tragici fatti che hanno segnato la vita di molte persone.
Gianluca Battistel, con la sua scrittura decisa e precisa, fissa situazioni e condizioni esistenziali, muovendosi sulla linea di confine tra realtà e visione: le crude verità e le inevitabili contraddizioni dell’esistenza viaggiano all’unisono.
Nella sua narrativa emergono imprevedibili rivelazioni legate agli stati d’animo dell’essere umano, alle sue lacerazioni che creano inevitabili dissidi, in un alternarsi di condizioni sofferte e speranze deluse che possono condurre al delirio.

Massimo Barile


Basta un soffio


Il Gran Kan dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. –
E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;
se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. –

Italo Calvino, «Le città invisibili»


L’onda

L’allarme tsunami era stato lanciato di primo mattino da tutti i telegiornali. Le notizie erano apparse subito confuse e contraddittorie, tant’è che Franco aveva pure fatto una battuta: “Ma cos’è, la sagra degli imbecilli? Cosa vuol dire «tutte le coste dell’Europa meridionale»? Un’onda anomala che va da Gibilterra all’Egeo? Ma non diciamo stronzate per favore!” Sì, in effetti detta così sembrava una sciocchezza, però c’era poco da stare allegri. “Sarà anche una stronzata”, aveva ribattuto Giorgia, “però qui siamo nel bel mezzo del Mediterraneo. Se parte un’onda dalla Libia o dalla Tunisia, qui ce la prendiamo in pieno.” Franco non disse niente, sapeva che aveva ragione. Eppure i dubbi rimanevano. Da quando in qua le coste italiane erano a rischio tsunami? C’era stato il maremoto di Messina del 1908, d’accordo, ma quello mica era partito dall’Africa. E la distruzione di Creta nell’antichità era stata causata dall’eruzione di Santorini. Insomma, non si era proprio mai sentito che un terremoto in Africa avrebbe potuto provocare un cataclisma sulle coste italiane o francesi o spagnole o greche. Che fosse una bufala? “Avranno preso la notizia da uno di quei deficienti che si scoprono scienziati dalla sera alla mattina e che si inventano qualche teoria balorda per finire sulle riviste.” aveva aggiunto Franco, ma il tono della sua voce non sembrava tanto convinto. Dicevano così anche di quel tizio che aveva previsto il terremoto all’Aquila, pensò, e gli inglesi della camera accanto avevano confermato che la notizia era stata data anche dalla BBC.
Fatto sta che alla fine erano saliti tutti sulle colline. Qualcuno imprecando, altri cercando di rassicurare i propri bambini, altri ancora in silenzio, con i volti tirati. Ormai erano lì da almeno tre ore, e il mare sembrava più calmo che mai. La tensione lentamente era scemata e ora la gente cominciava a buttarla sul ridere. “Se l’onda arriva fin quassù faccio causa a quelli della protezione civile. Se proprio mi dovevo beccare uno tsunami, almeno potevo stare in prima fila sulla spiaggia.” scherzava un signore con l’accento toscano. Sua moglie non sembrava particolarmente divertita. “Bella battuta!” gli disse, “Se arriva fin quassù sai dove te la metti la denuncia?” “Dai Marta, si fa per scherzare! Tanto qui non arriva proprio niente, a quest’ora uno tsunami dall’Africa sarebbe già arrivato da un pezzo. Tra mezz’ora ci fanno tutti scendere all’albergo, scommettiamo?” Franco, che si era seduto poco distante, annuì. “Io l’avevo detto subito che era una stupidaggine, le versioni dei telegiornali erano una diversa dall’altra. E poi nessuno ha fatto vedere immagini, nessuno ha parlato di vittime. Era tutto un «pare che, sembra che», sembrava una gara a chi la spara più grossa.” “È vero!” rispose il signore toscano sorridendo. “E poi quelli non ne azzeccano una. Si ricorda l’anno scorso quando diedero la notizia della bomba sotto la diga? Gettarono nel panico una valle intera, per poi scoprire che la diga era in Francia e che la bomba era un residuato bellico della seconda guerra mondiale!” Franco scoppiò a ridere. “Sì sì, me lo ricordo eccome! Che coglioni! Tremila persone in fuga e i direttori dei TG a chiedere scusa in prima serata!” Adesso rideva anche la signora, e pure Giorgia, che fino a quel momento era rimasta in silenzio, si lasciò andare a una battuta: “Stasera diranno che l’ondata in arrivo dall’Africa è solo di caldo, giusto per lanciare il servizio in cui ti spiegano che bisogna bere molta acqua!” “Con tanto di interviste!” aggiunse Franco. “«Scusi, signora, come si sta in città con 45 gradi all’ombra?» «Eh, insomma, fa proprio caldo!»”
Rimasero su quel promontorio a chiacchierare per un’altra mezz’oretta, poi videro che la gente cominciava a scendere di nuovo verso la spiaggia. “Che dite, torniamo giù anche noi? Qui non succede niente, e poi mi sono rotto di stare sotto il sole.” Franco si era rivolto anche alla coppia di toscani, che gli erano parsi subito molto simpatici e a cui magari più tardi avrebbe chiesto di cenare insieme. “Ma sì, dai, torniamo giù. Io poi avrei pure un languorino.” rispose lui. “E ti pareva!” aggiunse lei sorridendo. “Se arrivava lo tsunami tu all’una eri comunque pronto a tavola.” A Giorgia scappò da ridere e indicò Franco con il pollice. “Ah beh, ne abbiamo un altro qui. Questo si fa torturare piuttosto che saltare un pranzo!” Lui la guardò con un’espressione ironica. Poi le diede un buffetto sulla guancia e si incamminò.
Quando arrivarono in albergo, Giorgia entrò subito in camera per accendere la TV. I telegiornali avrebbero pur detto qualche cosa, se non altro per confermare il cessato allarme. Ma i telegiornali non dissero niente, nemmeno una parola. Spense il televisore e disse a Franco: “Roba da non credere, neanche una smentita. Va beh, cosa facciamo, andiamo in spiaggia?” “Molto volentieri. Ti va se ci mettiamo di nuovo vicino al baracchino? Sai, quando stai sotto il sole per tanto tempo avere la birretta a portata di mano è assolutamente fondamentale.” “Ah certo, come no!” “Guarda che non sto scherzando! L’altro giorno lo hanno detto pure al telegiornale: con temperature così elevate è importante assumere molti liquidi e integrare i sali minerali…” “Ma non dire cretinate!” lo interruppe Giorgia, sogghignando. “Come cretinate! Guarda che il luppolo è un integratore naturale prodigioso! Pare che dei ricercatori bavaresi…” Giorgia scoppiò a ridere. “Ma la finisci di dire stronzate? Dai, prendi l’asciugamano e andiamo al tuo baracchino!” Franco le stampò un bacio sulla bocca, prese la borsa e uscì.
Arrivati in spiaggia notarono che c’era meno gente del solito, evidentemente qualcuno doveva essere rimasto in albergo per via di quella notizia. Tanto meglio, pensarono, la spiaggia così tranquilla era ancora più bella. Franco entrò in acqua quasi subito, e dopo qualche minuto Giorgia lo seguì. Nuotarono per una cinquantina di metri lungo la scogliera che si allungava sul lato sinistro della baia, poi si piazzarono su uno scoglio a prendere il sole. Quando tornarono a riva erano già le cinque e mezza. “Cosa ne dici se stasera torniamo a mangiare il pesce da Lino?” Giorgia sul momento non disse niente, ma Franco vide che stava trattenendo un sorriso. “È inutile che fai quella faccia, sai? L’altra sera ancora un po’ e ti facevi fuori una cernia intera!” “Eh sì, ha parlato il dietetico. Comunque va bene, pesce da Lino approvato!” “Ooh, lo vedi che ci capiamo. Magari dopo cena si potrebbe…” Ma Franco si bloccò. Di colpo, a pochi passi da loro, un signore si era messo a gridare. Franco si voltò verso di lui per vedere cosa stesse succedendo, ma proprio non capiva cosa avesse quell’ometto, dalle evidenti origini asiatiche, da urlare in quel modo. Giapponese, pensò. Sta urlando in giapponese. Cosa starà dicendo? “Franco!” Giorgia, che si era alzata in piedi, aveva il dito della mano destra puntato verso il mare. “Guarda!” E allora Franco capì. L’acqua del mare si stava ritirando. Una trentina di metri di fondale che costeggiavano la spiaggia erano emersi in superficie. I banchi di sabbia e di alghe che fino a pochi secondi prima erano sott’acqua, ora si potevano vedere a occhio nudo. Decine di pesci battevano la coda sulla sabbia bagnata, e lo scoglio dove Franco e Giorgia avevano preso il sole ora appariva come una piccola torre di roccia di almeno cinque metri. E il mare continuava a retrocedere.
Pochi istanti e scoppiò il panico, tutti si misero a urlare. E a correre. Il bagnino prese a fischiare come un forsennato, ma dopo qualche secondo lasciò perdere e cominciò a correre anche lui. Correvano quasi tutti, senza sapere bene dove ma comunque via, via da quello che stava per arrivare. Quasi tutti. Franco e Giorgia, infatti, erano ancora lì. Immobili. Avevano entrambi lo sguardo fisso verso il mare. O verso quello che fino a un attimo prima era il mare. L’acqua si era ritratta quasi del tutto, solo in lontananza si vedeva ancora una sottile linea blu. E dopo un po’ scomparve pure quella. Il mare, semplicemente, non c’era più. Franco era come ipnotizzato, quello a cui stava assistendo non aveva alcun senso. È un fatto noto che quando arriva uno tsunami il mare si ritira per qualche metro, ma che vuol dire per qualche metro? Qui non si vedeva più acqua a perdita d’occhio. Anche Giorgia era rimasta impietrita. Lo scenario era assurdo. Nessuno dei due si era messo a correre, lo sbigottimento li aveva completamente sopraffatti. Nemmeno dopo un minuto, quando si guardarono negli occhi per alcuni interminabili istanti, pensarono a scappare. E il motivo era evidente a entrambi. Se davvero fosse arrivato uno tsunami proporzionato alla scomparsa del mare per chilometri e chilometri, correre non sarebbe servito a nulla. E non solo a loro due. Un’onda del genere sarebbe stata un’apocalisse.
Rivolsero di nuovo lo sguardo verso il largo. Per un po’ non accadde nulla, assolutamente nulla. Poi all’orizzonte comparve qualcosa. Ma non sembrava acqua. La linea orizzontale che si stagliava in lontananza non era blu, ma marrone. E cresceva, cresceva, anche se molto lentamente. Troppo lentamente per essere acqua. “Che cazzo è quella roba?” mormorò Franco. Ma non ebbe risposta. Quella roba marrone si stava avvicinando, lenta e inesorabile. E più si avvicinava, più sembrava assumere la forma di un’onda. Ma un’onda di che cosa? Ora si riuscivano a intravedere dei puntini, delle macchie, quella cosa non aveva una superficie uniforme. Quella massa indefinita si avvicinava sempre più, e avvicinandosi a riva la sua altezza aumentava. Non era soltanto l’effetto ottico di un oggetto in avvicinamento, quella cosa si stava alzando, proprio come fanno le onde avvicinandosi a riva. E la riva ormai non era più tanto lontana. Poco più di un chilometro, forse. E quel muro cresceva, cresceva. Poi Franco sembrò riconoscere… ma no, non poteva essere. Eppure, a ben guardare, sembrava proprio così. No, non era acqua. Il muro che lentamente si stava avvicinando era fatto di persone. Persone in carne ed ossa. Una accanto all’altra. Una sopra all’altra. Migliaia e migliaia di persone. Milioni di persone. Una massa sterminata di persone che rotolava sul fondale di un mare che non c’era più. A un centinaio di metri dalla spiaggia l’onda umana raggiunse l’altezza di diverse decine di metri. Rallentò ancora. Ora si potevano perfino riconoscere i visi. Visi di uomini e donne disfatti dalla fatica, dalla fame, dagli stenti. Visi scolpiti dalla sofferenza e dal dolore. E dalla rabbia. Feroce. Incontenibile. Quell’onda spazzò l’intera costa dell’Europa meridionale. E invase il vecchio continente come nessuno tsunami al mondo avrebbe mai potuto fare.


La piazza

Sahid e Amir arrivarono in piazza nel tardo pomeriggio. Le prime voci di una manifestazione spontanea erano cominciate a circolare verso l’ora di pranzo e avevano deciso che appena finito il turno in fabbrica sarebbero andati insieme a vedere cosa stava succedendo. Una delle più grandi piazze della città era già stata teatro di duri scontri tra opposte fazioni la settimana precedente, e c’erano tutte le premesse affinché la cosa si ripetesse. “Vedrai che la prossima volta ci mandano i carri armati!” aveva detto Sahid. Aveva sempre la tendenza a drammatizzare le questioni e Amir spesso lo prendeva in giro. “Ma va là, i carri armati, piantala con ’sta storia! Te vedi i carri armati in piazza appena il ministro della difesa starnutisce!” aveva ribattuto Amir ridendo. “Sì sì, ridi pure, quelli se ne stanno buoni e zitti ma intanto si preparano. Dicono che nelle caserme ci sia lo stato di allerta, e se quelli si muovono i fan del presidente gli stendono pure il tappeto rosso!” “Ma chi è che te le dice queste cose? Non ti bere sempre tutto quello che senti in giro! Per gli scontri di piazza mandano la polizia, l’esercito in questo paese non conta niente. E poi se prendessero il potere loro si dovrebbe fare da parte anche lui, ma te lo immagini il presidente che leva le tende e lascia tutto in mano ai generali?” Sahid lo aveva guardato con aria perplessa, nient’affatto convinto. Pochi minuti dopo sarebbe iniziata la prima sassaiola, e un cubetto di porfido lo sfiorò per un pelo.
Questa volta però la situazione apparve subito diversa. Innanzitutto c’erano due elicotteri della polizia che continuavano a sorvolare la piazza a quota molto bassa, così bassa che si poteva sentire lo spostamento d’aria provocato dalle pale. Inoltre, la presenza delle forze dell’ordine era molto più massiccia. Al centro della piazza un centinaio di poliziotti in tenuta antisommossa teneva a distanza di sicurezza i due gruppi di manifestanti, mentre gli accessi dalle vie laterali erano presidiati da numerose camionette blindate. L’impressione era che questa volta in caso di scontri non si sarebbero fatti trovare impreparati e che ai primi accenni di disordini non avrebbero esitato a intervenire duramente. Da un certo punto di vista la loro presenza poteva perfino apparire rassicurante, perché il contatto diretto tra i due schieramenti sarebbe stato molto più difficile. Ma Sahid non si sentiva rassicurato per niente, e pure Amir sembrava preoccupato. “Beh, che te ne pare? Non saremo ai carri armati ma poco ci manca, o no?” Amir non disse nulla. Si diressero verso l’assembramento più numeroso, dove gli oppositori del presidente si erano radunati a centinaia, e si unirono a loro.
In mezzo alla folla Amir riconobbe Tareq, un ragazzo di vent’anni che durante la manifestazione precedente era stato malmenato dai filo-governativi e che avevano accompagnato all’ospedale con la macchina di Sahid. Gli andarono incontro, e quando Tareq li vide sorrise e li abbracciò. “Guarda che stavolta non ti tiriamo fuori dai casini, non è che siamo qui a farti da barellieri ogni due giorni.” gli disse Amir sghignazzando. Anche Tareq si mise a ridere: “Tranquillo fratello, oggi abbiamo le guardie del corpo.” Col braccio indicò il cordone di poliziotti che tagliava la piazza in due. “Ho visto, ho visto.” rispose Amir. “Almeno speriamo che non siano qui solo per noi.” “Ah probabile, a loro non li toccano di sicuro. Da quando siamo qui ci hanno già tirato qualche sasso e la polizia non ha mosso un dito. Se gli tiro un sasso io mi arrestano in due secondi, scommetti?” “Prima ti menano e poi ti arrestano.” ribatté Sahid, e risero tutti e tre.
Nel giro di mezz’ora la piazza si riempì completamente. La tensione era palpabile, gli slogan, da una parte e dall’altra, si fecero sempre più duri. E infatti, ben presto cominciarono a volare pietre e bottiglie. La sassaiola andò avanti per qualche minuto, sempre più fitta, ma a un certo punto accadde qualcosa di inaspettato. Gli agenti della polizia, che fino a quel momento avevano tenuto a distanza governativi e oppositori, cominciarono a ritirarsi. E non sembrava una ritirata improvvisata, perché i poliziotti indietreggiarono tutti insieme, in modo ordinato. “Ma che fanno, se ne vanno?” esclamò Sahid, sbalordito. Si voltò verso Amir, che sembrava non credere ai suoi occhi ed era rimasto letteralmente a bocca aperta. “Amir, andiamo via, qui adesso si scatena il finimondo!” Ma non fece quasi in tempo a terminare la frase che i sostenitori del presidente partirono all’assalto. La carica fu violentissima. Oltre ai pugni e ai calci che volavano in ogni direzione, comparvero anche spranghe e bastoni. E mentre un centinaio di manifestanti dell’opposizione reagì con altrettanta violenza, tutti gli altri iniziarono a scappare. Il caos fu totale, ognuno correva in ordine sparso e già si vedevano per terra i primi malcapitati calpestati dalla folla in fuga. Anche Sahid inciampò, fu Amir a tirarlo su di peso e a spingerlo verso un vicoletto da cui anche Tareq e altri stavano scappando. “Di là Sahid, e stai attento a non cadere!” urlò Amir. Sahid era nel panico più completo e non riuscì nemmeno a rispondere. Ma almeno riuscì, anche se a fatica, a rimanere in piedi e a seguirlo verso la via di fuga.
Arrivati nel vicoletto la massa di gente si diluì. Corsero ancora per alcune centinaia di metri fino ad arrivare davanti al palazzo dell’ambasciata francese, e per un istante Amir pensò di entrarci per cercare un riparo sicuro. Ma ormai il peggio sembrava passato, lì intorno la situazione era relativamente tranquilla. Proprio di fronte all’ambasciata si era formato un piccolo capannello di manifestanti che erano scappati dalla piazza come loro, ma nei paraggi non si vedevano né gli ultrà del presidente, né forze dell’ordine. Sahid e Amir si guardarono intorno con diffidenza e si sedettero su una panchina. Avevano ancora il fiatone. “Ma li hai visti quei bastardi?” disse Sahid dopo essersi ripreso. “Quelli se ne sono andati senza battere ciglio e ci hanno lasciati lì a farci prendere a mazzate da quei maiali! Roba da non credere, ma si è mai vista una cosa del genere?” Amir rimase in silenzio, assorto nei suoi pensieri. “Amir, cosa pensi? Perché non dici niente?” “Non lo so, non mi piace.” “Cosa non ti piace?” “Quelli non sono scappati per la pressione della piazza, hai visto come si muovevano in modo compatto? Lì qualcuno ha dato l’ordine di ritirarsi, e questo potrebbe voler dire che… Non lo so, è proprio strano.” Ora Sahid era davvero impaurito. Dei due era sempre stato lui quello più ansioso, quello che si allarmava per un nonnulla. Vedere quell’espressione grave sul volto di Amir lo spaventò tantissimo. “Dimmi Sahid, cosa?! Cosa vuol dire che se ne sono andati via così?” Ma Amir non rispose. E mentre se ne stavano seduti su quella panchina, da dietro l’angolo, in lontananza, cominciarono a sentire un rumore.
Inizialmente sembrava il rumore di un camion, poi, man mano che si avvicinava, quello di un trattore. Ma era troppo forte per provenire da un trattore, e poi i trattori non giravano mica in pieno centro. Inoltre, non si trattava di un rumore sconosciuto. Quel rumore lo avevano già sentito nelle strade di Tripoli, alcuni anni prima. Amir guardò Sahid fisso negli occhi. E allora anche Sahid capì. “Oh merda! Oh porca merda! Lo avevo detto io che finiva così, lo avevo detto sì o no?!” Si alzò dalla panchina con le mani nei capelli, e non la smetteva più di gridare. “Lo avevo detto io, cazzo, e te non mi volevi credere! E adesso cosa facciamo, eh? Qui ci fanno fuori tutti, lo sai vero? Qui va a finire come in Libia, tanto valeva che ce ne stessimo lì!” “Piantala Sahid, adesso chiudi quella bocca!” gli urlò in faccia Amir. “La devi smettere, hai capito?! Dobbiamo andare via da qui!” Ma Sahid quasi non lo sentì, perché il rumore ormai era diventato un frastuono. E dopo alcuni, interminabili secondi, da dietro l’angolo spuntò il primo carro armato. “Corri Amir, corriiiiii…” Ma Amir rimase fermo. Rimase fermo immobile a fissare il carro armato che avanzava, seguito da un altro e un altro ancora. Nel giro di pochi minuti comparve un’intera colonna di cingolati che avanzavano a passo d’uomo, uno dietro all’altro. Amir li guardò sfilare senza dire una parola. “Amir, ti scongiuro, andiamo via da qui.” sussurrò Sahid con un filo di voce. Ma Amir non si muoveva. Rimase lì così finché anche l’ultimo carro imboccò la via principale che portava alla piazza, dove gli scontri, presumibilmente, stavano proseguendo. Poi si voltò verso il suo amico e lo abbracciò. Sahid scoppiò a piangere, un lungo pianto che sembrava non finire mai. Quando infine si calmò, prese il viso di Amir tra le sue mani e disse: “Avresti mai pensato che anche qui sarebbe finita così?” “No Sahid”, rispose Amir, con lo sguardo più triste e amaro del mondo. “Non lo avrei mai pensato.” E mentre pronunciava quelle parole, pensò al giorno in cui si era imbarcato a pochi chilometri da Misurata con un centinaio di suoi connazionali per attraversare, pieno di speranza, il Mediterraneo.

[continua]


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