Opere di

Giacomo Di Blasi

Con questo racconto è risultato 5° classificato – Sezione narrativa alla XIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2009


Questa la motivazione della Giuria: «Il racconto di Giacomo Di Blasi recupera il ricordo di uno schiaffo ricevuto ai tempi della scuola da una insegnante e quel gesto riesce ancora ad emozionare, a far tornare alla mente un oceano di emozioni che si miscelano al presente. La scrittura di Giacomo Di Blasi è suggestiva ed evocativa: riporta in vita la memoria d’un frammento esistenziale e lo innalza a paradigma di una stagione della vita». Massimo Barile


Lo schiaffo

Quando ripenso a quell’episodio mi chiedo sempre due cose: 
l’una è il motivo per il quale la mia mente torna così indietro nel tempo a rammentarmi un fatto che – considerato il periodo in cui è accaduto – rientra nella più assoluta normalità, è quasi banale. L’altra è che quando ripenso a quell’episodio sento ancora la guancia sinistra andare in fiamme e mi chiedo perché.
E allora tento di dare una risposta ad ambedue le domande, ma col passare del tempo le mie considerazioni sono sempre più influenzate dai numerosi e profondi mutamenti nel frattempo intervenuti nell’ambiente e nella mia stessa persona.
Sono portato a condividere i concetti di comprensione, dissuasione e persuasione amichevoli, dialogo, partecipazione e quant’altro, tuttavia se dovessi giudicare soltanto sulla base dei risultati, ne trarrei delle conclusioni assolutamente negative.
Poi rifletto e mi rendo conto che il problema non è di facile soluzione, anzi è oltremodo difficile ed è talmente lontano dalle mie capacità di analisi che preferisco abbandonare l’indagine e defilarmi.
È bene, quindi, che reprima la tentazione di dare su tale argomento risposte istintive. Potrebbero risultare avventate e irragionevoli, anche perché il fatto che a distanza di così tanto tempo la mia guancia bruci ancora, potrebbe giocare un ruolo del tutto contrario al mio istinto e addirittura indurmi a dare risposte altrettanto avventate e irragionevoli, ma opposte.
Di certo, che io provi ancora questa sensazione di intenso calore sta a significare che l’evento mi colpì – è proprio il caso di dirlo – in modo particolare e l’umiliazione che ne ricevetti fu talmente profonda e si è così fortemente radicata che ogni tanto si affaccia alla finestra dei ricordi con la nitidezza di un fatto accaduto appena il giorno avanti.
Ad eccezione di alcuni particolari.
Ad esempio non rammento per quale motivo la mia insegnante di lettere, frequentavo la prima classe delle scuole medie, un giorno mi mollò un tremendo schiaffo, di quelli che stampano sul viso tutte e cinque le dita della mano, di quelli che ti arrossano la pelle per alcune ore e ti bruciano poi per tutta la vita.
Il dolore a pensarci bene non fu granché perché batoste di ben altro livello ne avevo già prese e ne avrei prese anche più tardi, ma sono certo che non hanno avuto gli effetti desiderati, non mi hanno “forgiato” né “redento” né “convinto”. Qualche effetto, tuttavia, lo avranno avuto – anche di questo sono quasi certo – ma non saprei dire esattamente quale.
L’umiliazione che provai fu comunque talmente intensa che non ho mai avuto né la voglia né il coraggio di parlarne, con chiunque.
Questa è la prima volta che lo faccio.
Si chiamava Maria, era giovanissima, con un viso in cui spiccavano grandi occhi scuri e una massa disordinata di capelli tra il biondo e il castano, piccolina, esile e, nell’insieme, molto graziosa, quasi bella. L’unica cosa che non rammento di lei è la voce, ma il suono fa presto ad essere dimenticato. Suoni e odori, a differenza delle immagini che – se si possiede una discreta memoria – è possibile visualizzare in ogni momento, non hanno autonomia, dipendono dai loro omologhi.
Esile, ma il manrovescio che arrivò sulla mia guancia sembrò provenire da una persona dotata di grande forza fisica.
Non mi sarei mai aspettato uno schiaffo da lei, in primo luogo perché non rammento che abbia mai levato la mano su alcuno degli alunni e poi perché possedeva un carattere talmente autoritario da non avere necessità alcuna di passare alle vie di fatto. Era sempre stato sufficiente che elevasse appena il tono della voce per assumere il controllo di eventuali esuberanze.
Inoltre l’ambiente in cui per otto ore alunni e insegnanti convivevano, aveva spiccate connotazioni religiose, fatto che, da solo, incuteva un certo timore. Un ambiente in cui gestire una ventina di ragazzini risultava abbastanza agevole.
Mi stupì, quindi, che una persona così esile potesse esprimere una forza tanto notevole.
Il che ha due o tre possibili spiegazioni.
La gravità del mio comportamento può aver scatenato una reazione violenta, una forza di cui nemmeno lei era consapevole, ma – come ho già detto – conservo memoria dell’effetto non della causa scatenante, oppure, per qualche meccanismo che ignoro, l’ho semplicemente rimossa dalla mia mente, malgrado ogni tanto mi sforzi di ricordare, anche se non sono così sicuro di desiderarlo veramente.
Ne potrebbe venir fuori che si è trattato di un fatto molto grave o, viceversa, che sia stata un’infrazione lieve; ma in ambedue i casi ne potrei trarre spiacevoli conclusioni. Se il fatto fu grave, la mia umiliazione si rinnoverebbe accrescendosi in maniera insostenibile e con conseguenze che non riesco ad immaginare. Se invece fu di lieve entità, potrei essere indotto a giudicare troppo severa la punizione.
Ne sarei in tal modo più sollevato, ma probabilmente questa seconda eventualità mi farebbe sentire vittima di un ingiusto castigo, condizione che desidero evitare. Ad ogni costo.
Uno stato temporaneo d’ira, lo sfogo di un’arrabbiatura che si era trascinata da casa, un litigio amoroso, una profonda delusione, la notizia che il suo rapporto di lavoro non sarebbe stato rinnovato.
Chissà.
Una collera che, comunque, si era accumulata e che doveva essere scaricata in un modo o nell’altro. Era accaduto l’altro, ma è un’ipotesi che non potrò mai verificare.
Non ne parlai ad alcuno anche perché c’erano altre due cosette che riguardavano quell’episodio.
La seconda delle due era la consapevolezza che riferendo l’accaduto a casa – confesso che ci pensai, ma soltanto per un attimo – non avrei ottenuto alcuna comprensione e probabilmente avrei persino rimediato un aggiuntivo paio di ceffoni e rischiato inoltre, magari a causa di un pianto liberatorio, di dire qualcosa che avrebbe potuto ingenerare sospetti o, peggio ancora, fare scoprire il mio segreto più segreto.
Cioè la prima e più importante delle due: il fatto che fossi profondamente innamorato della mia insegnante, fatto che – per comprensibili motivi – tenevo esclusivamente per me.
Il che, se prima mi aveva reso più dolci le ore trascorse in istituto e più sopportabile la severità con cui veniva diretto (accettavo volentieri persino l’ispezione del venerdì per verificare che il cestino della colazione non contenesse carne), adesso rendeva ancora più cocente la mia umiliazione.
Io ne ero innamorato e credo che lei lo avesse intuito. Le donne possiedono una particolare sensibilità per queste cose e riescono a percepire anche i più piccoli segnali, anche quelli, maldestri e ingenui, lanciati da un ragazzino.
Ed ecco l’ultima ipotesi.
Magari sulle prime sarà rimasta compiaciuta dei segnali, per quanto fossero infantili, timidi, quasi impercettibili, maldestri e quindi passibili di ogni sorta di interpretazione, poi, per motivi che ignoro, aveva deciso di spezzare quell’esile filo di bava che mi legava a lei. (Mi piacerebbe dire “ci legava”, ma so che non è così).
E l’occasione era arrivata.
Nonostante tutto, il mio innamoramento non cessò e quella donna, inconsapevolmente, lasciò di sé uno straordinario ricordo che resiste ancora oggi.
Molto più di altre donne, con le quali ho intrattenuto rapporti di ben altro genere e che, tuttavia, oggi mi appaiono lontane e sbiadite e qualcuna forse è già stata dimenticata.
Se nel corso di un violento attacco di narcisismo dovessi fare l’elenco delle donne che ho conosciuto sono quasi certo, infatti, che non riuscirei a farlo compiutamente.
Forse fu il mio primo amore ed è per questo che, come comunemente si afferma, non lo posso dimenticare.
La guancia, quindi, mi brucia presumibilmente per un motivo del tutto diverso.
La rividi una ventina d’anni dopo, di notte, sul finire della festa patronale, in una piazza affollata di gente intontita da fuochi d’artificio tanto rumorosi da far tremare l’antico pavimento di quel luogo.
Stava proprio davanti a me, con un bambino in braccio; due ragazzine e un uomo alto ed elegantemente vestito le stavano a fianco. Di sicuro quell’uomo era più alto di me, ma il fatto che indossasse un ampio cappello lo faceva sembrare ancora più alto.
Al termine dei fuochi, si era chinata per mettere a terra il bambino e in quell’istante la riconobbi. E lei riconobbe me.
Nel sollevarsi aveva girato lentamente il capo come se avesse avvertito il mio sguardo. Pronunciò il mio nome a voce alta, superando il brusio della folla e richiamando l’attenzione dell’uomo e delle due ragazze che a loro volta si girarono verso di me.
A scuola il contatto più ravvicinato che avessi mai avuto era stato un buffetto, una carezza appena accennata, un leggero scompigliare di capelli. Tutti gesti formali, anche se avevo preferito darne una diversa e più compiacente interpretazione.
Adesso per la prima volta si era spinta tra le mie braccia.
Prima ed unica volta, perché non ho mai più avuto notizie di lei.
Fortunatamente, ogni tanto, avverto bruciore sulla guancia.


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