Dalla parte di Dio

di

Gabriella Dell'Orto


Gabriella Dell'Orto - Dalla parte di Dio
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 376 - Euro 20,50
ISBN 88-6037-125-2

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In copertina Monastero di Maguzzano, Lonato (Bs)
fotografia di Gabriella Dell’Orto


Prefazione

Sta spesso nell’attacco la cifra sintetica di un libro.
Questo romanzo non fa eccezione; sorprende anzi per la sua ‘scaltrezza’ narrativa, che induce il lettore – fin dalle prime battute – ad una rivelazione attesa e nel contempo paradossalmente temuta:
“L’uomo guardò con orrore le sue mani sporche di sangue ancora tiepido”.
Un uomo, l’avvocato Piero de Simone, ancora immemore di sé, ma già sulle tracce di un’identità da ritrovare; uno sguardo insieme vivido e sfuocato, partecipe e distante, perché l’orrore – si sa – è simultanea attrazione e repulsione; il sangue, la vita che se ne va ancora tiepida, indice puntato a un presunto colpevole, ma anche grido muto che lacera il buio della notte, chiamando a testimone il Cielo e la terra.
Da qui, da un fatto di cronaca noir apparentemente banale, prende le mosse, agile e incalzante, la trama del racconto, nella quale vengono a comporsi ad incastro tre diversi piani di realtà: un passato che riaffiora doloroso alla memoria; un presente trattenuto sulla soglia della vita; un ‘altrove’, di tempo e di spazio, fatto di parabole in azione, nel quale il passato e il presente si specchiano, si ricompongono e, alla fine, si ritrovano purificati, sospinti verso un futuro ‘di resurrezione’.
Mi piace soffermarmi in modo riflessivo su ciascuno dei tre piani di realtà appena evocati, pur avendo lucida consapevolezza di forzare un poco le cose, ‘imbrigliando’ in concetti l’incanto narrativo di queste pagine.

- Le radici di un uomo sono custodite nel suo passato e la linfa vitale che dalla terra sale fino ai rami più alti del presente è la memoria.
Senza la memoria di sé (pensieri, emozioni e azioni), degli altri (casa, lavoro e società) e degli accadimenti piccoli e grandi della storia che sta alle proprie spalle, l’uomo è come un naufrago su spiaggia sconosciuta, smarrito, senza punti di riferimento e senza dignità.
Lo slancio vitale che è in lui, e che incessantemente prorompe dal presente verso il futuro, è come bloccato e ripiegato su di sé.
Quando viene a mancare la coscienza di ciò che siamo stati e l’anima è muta buia e opaca, diviene impossibile gustare davvero ‘il calore del sole e la sua promessa di felicità’.
È merito non da poco quello dell’autrice, che ci fa percepire, in modo quasi fisico, dapprima il disagio di un uomo dimentico della sua storia personale ed espropriato della parte più intima di sé; poi il suo trasalimento, la gioia quasi selvaggia per la progressiva ripresa di contatto con ciò che sembrava irrimediabilmente perduto.
Ma all’atto della memoria si accompagna spesso anche l’inquietudine, l’angoscia e il rimorso. Ciò che affiora alla coscienza è anche quella parte di noi che non vorremmo più riconoscere come nostra; è la tentazione sempre ricorrente dell’oblio volontario di sé per reggere all’urto di una verità scomoda, dura o amara.
Il percorso all’indietro di Piero è dunque necessariamente anche una specie di discesa agli inferi, uno sguardo onesto e spietato su di sé, e sugli altri intorno a sé, per arrivare ad una coraggiosa e liberante presa di distanza dalle molte auto-illusioni messe in campo per reggere alla fatica dell’esistenza.
I volti della moglie Vanna, della figlia Giulia, dell’amico e socio in affari Gianluca e della sorella Margherita riemergono come campanili nella nebbia, risvegliando – al rintocco delle ore – la coscienza smarrita dei fatti e il loro risvolto penoso, ma anche infondendo nuova consapevolezza e una rinnovata, decisa, volontà di azione.

- Sto forse descrivendo un processo di autodeterminazione? Sto forse facendo l’elogio di un’umana volontà di potenza capace da sola, con le proprie forze, di scardinare le potenti resistenze di una mente smemorata?
Al contrario, il mio indugiare sul processo di recupero della memoria del passato è premessa necessaria per prospettare il piano del presente, così come l’autrice ce lo rappresenta, in tutta la sua carica eversiva di ‘grazia’.
Lungo un percorso apparentemente intessuto di eventi casuali, Piero conosce una progressiva e straordinaria intensificazione della propria esperienza umana, attraverso la quale non solo sarà condotto a riappropriarsi della sua storia personale, ma imparerà ad aprirsi con fiducia al futuro che gli si dischiude all’orizzonte.
Senza esplicite dichiarazione d’intenti, la ‘grazia’ è all’opera in quello spazio ospitale che è l’abbazia di Maguzzano, nel servizio umile e arguto di suor Celeste, nel dialogo attento, cordiale e bonario di padre Elio, nella petulanza affettuosa di Giovanna e – last but not least – nella luminosa e attraente presenza di Claudia.
In una parola, davanti agli occhi stupefatti di Piero, si sprigiona la forza liberante dell’amore: condivisione, amicizia… innamoramento. Essa scalda, scioglie e rimuove i grumi di una durezza antica e riconsegna il protagonista, quasi dimentico di sé, a una vita degna di questo nome.

- Eppure tutto questo non basterebbe se, tra le pieghe nascoste di un presente già carico di promesse, non si insinuasse un dono misterioso e inquietante – quasi un monito che giunge da ‘altrove’ nella veste di ‘racconto’, o meglio di ‘parabole in azione’. Esse evocano la sapienza del Libro e quella delle Stelle.
Piero viene così coinvolto, quasi suo malgrado, in una sorta di percorso iniziatico, dapprima gioco piacevole, poi ripetizione ossessiva, infine umile esercizio di pazienza, per mezzo del quale l’autrice trascrive nel dispositivo dell’invenzione letteraria la certezza, tutta e solo cristiana, di un ammaestramento ‘dall’alto’, senza il quale invano l’uomo fatica sotto il sole.
Il suggeritore invisibile, lo Spirito, colui che – secondo l’evangelista Giovanni – è la ‘memoria’ di ogni uomo, ‘soffia’ la primavera nel cuore di Piero e lo conduce alla Pasqua, resurrezione di fede e stupore d’amore. L’umano e il divino si riconciliano e si riconoscono nuovamente alleati, mentre cadono timori e pregiudizi.
Uno sguardo carico d’orrore aveva aperto il libro; lo chiude un volto bello e disteso, dal quale “affiorano… i segreti del cuore”.
In mezzo il piacere e la necessità di una narrazione nella quale il lettore si specchia, perché questa è anche la sua storia, la storia della sua caduta e di una sempre possibile rinascita.

don Claudio Magnoli


PRESENTAZIONE

“Alì attendeva con timore le parole del vecchio saggio.(...)
Appena ebbe terminate le sue preghiere, riudì la voce del patriarca: – Ci sono persone che bestemmiano la vera fede, Alì. Costoro pensano di fare la volontà di Dio distruggendo case e uccidendo donne e bambini, gente inerme e innocente che non ha fatto a loro alcun male. Si mascherano, non solo coprendosi il volto di nero, ma anche celando la loro anima nella notte dietro una parola che è solo violenza e terrore, tortura e inutile sopraffazione. Il sangue delle vittime innocenti grida vendetta e i gemiti delle loro vite spezzate sono giunte fino a qui, fino a questo luogo di beatitudine e di pace. Hanno colmato la misura e non possiamo più non intervenire contro chi in verità copre col nome di Allah la sua sete smodata di potere e l’odio spinto sino al vile assassinio. –

Claudia aveva terminato la lettura con un senso di sgomento: chi aveva scritto quella storia non poteva essere la stessa persona del precedente racconto.
L’autore, o l’autrice di quei racconti non era facilmente definibile, tuttavia nel pomeriggio lei avrebbe saputo. E forse le sarebbe capitato in sorte di avere più fortuna dell’avvocato nel risolvere quel mistero.
La musica della ‘Quinta’ di Beethoven bussò alla porta dei suoi pensieri: il cellulare stava squillando con un’insistenza che non poteva essere ignorata.


Dalla parte di Dio

Dedica, con preghiera

“A Te, che mi hai concesso
di scorrere e di contemplare
il misterioso libro della Vita
e il grande libro della natura,
per leggervi la tua Parola.”

E come il fiore sboccia d’improvviso
a un raggio di sole che l’accarezza,
così sempre sia il mio amore per Te,
Amico mio, Signore e mio Dio.


PARTE PRIMA

Capitolo primo

L’omicidio di un barbone

L’uomo guardò con orrore le sue mani sporche di sangue ancora tiepido.
Aveva cercato invano di fermare i rivoli che scendevano dalle ferite di quel volto sfigurato, dopo averlo scosso e riscosso quasi in un disperato tentativo di richiamarlo in vita.
Ora il cadavere stava di fronte a lui, addossato al muro come un mucchio di stracci vecchi, in una pozza di sangue. Sangue sulle sue mani, sangue sulla spranga di ferro abbandonata un metro più in là.
Intanto il rosso s’allargava sul marciapiede, ma l’uomo non fuggiva.
Restava a guardare impietrito le mani sporche e il rivolo di sangue che si spandeva intorno a quei resti umani.
“L’aveva ucciso lui quell’uomo?”
Il pensiero non ebbe nemmeno il tempo di formularsi con chiarezza nella sua mente, perché un grido risuonò imperioso nel vicolo deserto: – Madonna mia, aiuto! Presto, chiamate la polizia! – Era solo lo strillo di una donna di servizio al ristorante-pizzeria ’4 stagioni’, uscita sul retro a portare l’immondizia.
Ma bastò.
Quasi fosse animato da una molla segreta, l’uomo sobbalzò e fuggì nella direzione opposta a quella della voce.
Quanto aveva corso, stringendo i pugni nelle tasche del cappotto?
Cercò d’orientarsi e alla fine si diresse verso la macchia ancora informe del parco del Castello Sforzesco.
L’alito umido dei primi giorni di novembre stava spogliando ad uno ad uno i rami scuri dei tigli e degli ippocastani, lasciando tutt’intorno un tappeto fradicio di foglie, che la luce soffocata dei lampioni raggiungeva a mala pena.
Anche le ombre della notte sembravano confondersi nell’attesa estenuante del mattino.
Il cancello del parco a quell’ora era ancora chiuso, ma c’era comunque vicino all’entrata una fontanella di ghisa.
L’acqua sprizzò gelida alla spinta del bottone d’ottone e l’uomo si lavò prima l’una e poi l’altra mano, asciugandosele sul viso e realizzando d’un tratto l’ispido incolto di una barba lunga di giorni.
Trattenne a fior di labbra un’imprecazione e si cacciò la testa sotto il getto, rinnovato più volte, nel tentativo di dissolvere i fumi dell’alcool.
Puzzava da far schifo persino a se stesso.
Scrollò l’acqua dai capelli e ripassò le mani sul suo volto. – Mio Dio, chi sono? – Neanche ascoltando con stupore il mormorio roco della sua voce riusciva a recuperare l’identità del proprio essere: forse perché la parte più importante di lui era rimasta là, e stava ancora guardando quel barbone che si dissanguava a poco a poco per la strada, o forse perché anche lui era semplicemente un barbone, senza un volto e senza un nome.
Un uomo di stracci.
Rimise la testa sotto l’acqua gelata e si sforzò di ricordare.
Niente.
Non riusciva a recuperare altre immagini se non quella del vicolo e quelle della sua successiva fuga, e nessun altro suono gli vagava nella mente oltre al grido stridulo e spaventato della donna a ore del ristorante.
Per il resto il suo mondo interiore era simile ad un grigio pomeriggio d’inverno della Bassa milanese, in cui le cose i campi gli alberi i paesi le voci della gente sembrano perdersi inevitabilmente sotto la densa coperta della nebbia. Là dove non si vede a un passo e le persone spariscono come fantasmi, appena uscite da casa.
Ma lui non era ancora scomparso nel nulla, era ancora caldo, era ancora vivo.
‘Essere vivi, – considerò – significa avere un volto e forse anche un nome.’
Si tastò stringendosi le braccia intorno al corpo, come per ripararsi dal freddo, quindi passò le mani sotto il cappotto grigio-sporco, che gli aveva fatto per giorni da coperta e pensò che il suo aspetto non dovesse differire molto da quello del cadavere che aveva abbandonato per strada.
Chiuse gli occhi e lo rivide: – L’uomo aveva la faccia sfigurata e la testa spaccata dai colpi. Quindi era stato ucciso. – Ora ascoltava le sue parole dette ad alta voce quasi le stesse pronunciando un altro. – La via era deserta e non c’era nessuno vicino a me. – Faticava a raccogliere le idee, ma con uno sforzo continuò: – Quella donna probabilmente mi ha visto mentre scuotevo il corpo di lui e poi mi guardavo le mani sporche di sangue. La cosa da ritenere più ovvia per lei è che l’abbia ucciso io. E questo testimonierà contro di me, ma è questa la verità? – Si sforzava di esaminare i fatti oggettivamente, di accendere un lume in quel grigio-perso che si andava allargando dentro di sé.
Tuttavia alla fine si arrese e sbottò: – Dunque chi sono io? Un assassino? – Riscosse automaticamente con scarsa convinzione i capelli umidi, era meglio rinunciare per il momento ad ogni logica.
Non era proprio nella condizione di ragionare con chiarezza.
Intanto la mano aveva incontrato una tasca e da lì aveva estratto a fatica un portafoglio. Lo strofinò con i pollici: era nuovo, di pelle nera e lucida, aveva delle iniziali impresse sul cuoio. Le guardò un attimo con stupore.
Poi con decisione l’aprì: era pieno di soldi e di carte di credito. – È per questo che ho ucciso? – Ascoltò nuovamente la sua voce roca, ancora incerta, quasi incredula, e decise che era meglio sedersi su una panchina del viale, prima di continuare l’ispezione.
Seduto si sentiva già un po’ meglio.
Estrasse una delle carte e cercò di mettere a fuoco le lettere impresse sulla ‘Visa’.
In basso sul fondo azzurro c’era un nome: de Simone Pietro.
Quel nome non gli diceva niente. Non ricordava di averlo mai sentito.
Vide uno scomparto laterale e vi scovò la carta d’identità, la tirò fuori con mano tremante e lesse: – de Simone Pietro, nato il 07/10/1970, a Piacenza, cittadinanza: italiana, residenza: Milano, Corso XXII Marzo… Coniugato. Professione: avvocato. mt. 1,78, capelli castani, occhi castani… – Dall’altra parte c’era la foto a mezzo busto: viso serio, capelli corti a spazzola, giacca e cravatta, camicia bianca. Un aspetto distinto ma giovanile e sportivo insieme.
Istintivamente si passò la mano sul suo volto: sopra la barba ispida percepì la pelle flaccida e due profonde occhiaie, i capelli erano lunghi fino a coprire parte del collo le orecchie la fronte, e adesso formavano una massa bagnata e incolta. Si slacciò il cappotto e avvertì il freddo pungente dell’aria della notte che ormai cedeva il passo al primo mattino. Indossava un paio di vecchi jeans, un giubbetto da lavoro, sopra una maglietta di cotone ormai logora e dal colore indefinibile.
Sospirò, e di nuovo la mano passò all’altra tasca interna anch’essa rigonfia.
Ne uscì un portachiavi di pelle nera, identica a quella di cui era fatto il portafoglio.
Anche qui le stesse lettere impresse: P.dS.
Doveva sapere.
Allora si alzò e barcollando ritornò sui suoi passi. Stranamente non aveva più paura.
A piazza Cadorna il bar della stazione era già aperto. Entrò, mise una banconota da venti euro sul piano del bancone e ordinò un caffè dietro l’altro, finché non fu assalito dai primi conati di vomito.
La toeletta era a pochi passi e, dopo un lungo penare, fu lì che finalmente prese coscienza di essere lui quell’uomo.

- Ciao, Piero, ti sei alzato presto questa mattina… – - Buongiorno, padre Elio, anche tu qui? – - Marzo ci ha regalato questa splendida giornata. Come poter rinunciare ad una passeggiata tra gli ulivi? Caro Piero, credimi, anche questa è preghiera! – - Allora possiamo continuare a pregare insieme fino al piccolo cimitero, così ti racconto una strana storia che mi è capitata ieri sera.
Naturalmente se ti fa piacere. – - Certo che mi fa piacere! Non vedo l’ora di sentirla. Ti confesso che mi piacciono le storie degli altri, soprattutto quelle strane. Che ci vuoi fare, sono solo un vecchio frate curioso e un po’ impiccione, che Dio mi perdoni! – L’uomo che gli camminava a fianco si fermò. Trasse un lungo sospiro, quindi disse: – Prima però devo farti una domanda che riguarda le persone che attualmente frequentano l’abbazia. Penso di poter contare nella risposta sulla tua piena sincerità e collaborazione… – - Io non ne sarei così sicuro, Piero, molti mi affidano dei segreti che non posso comunicare, neanche a te. Anche tu del resto… – - Va bene, va bene, come non detto! Te lo chiedo lo stesso e mi rispondi se lo puoi. Tu sai se qui tra noi c‘è qualcuno che si diletta a scrivere racconti? – - Sinceramente l’unico che vedo sempre con una penna ed un diario in mano sei tu. E ti assicuro che su questo argomento non ho nulla da nascondere. Conosco solo una persona che in quest’eremo avrebbe tutti i titoli per scrivere il racconto di un caso fuori dall’ordinario, e ce l’ho qui di fianco. – Il frate ridacchiò di gusto e l’altro si unì a lui. – Se mi ritieni così bravo, potrei anche provarci e non per scherzo. Tuttavia, a quanto mi risulta, di mestiere faccio ancora l’avvocato. – - A proposito, dimmi, hai risolto i problemi col tuo studio legale? – - Non ho risolto un bel niente. Mi sono preso un altro mese di ferie, nella speranza che la cortina di nebbia stesa su questa parte del mio cervello si apra e la mia mente cominci a ricordare di nuovo il passato. Non posso continuare a imparare dagli altri chi sono.
Gianluca dovrà cavarsela ancora per un po’ senza di me.
Gli ho consigliato di trovarsi qualcuno che mi sostituisca a tempo pieno. – - Allora? – - Allora cosa? – - La strana storia che mi volevi raccontare… – Piero si era fermato.
Per un attimo il frate vide il suo sguardo assente e gli occhi vagare tra le fronde degli ulivi senza veder niente. Ormai si era abituato a quei momenti e aspettò con pazienza che il suo interlocutore riprendesse a parlare. – Scusami, pensavo al mio lavoro. Nonostante gli sforzi, non riesco ancora a sentirmi a mio agio nei panni di un avvocato penalista. Ma torniamo a noi. Ieri sera sul tavolo della mia stanza ho trovato alcuni fogli scritti a computer. – - Ebbene? Sei sicuro che non sia qualcosa di tuo? – Di nuovo ridacchiò. Ma l’altro questa volta rimase serio. – Più che sicuro. Non li avevo mai visti e non erano tra le mie carte, ma facevano bella mostra di sé in mezzo allo scrittoio, come se qualcuno li avesse messi lì in attesa di essere letti. – - E tu? – - Li ho letti! – Erano ormai arrivati in vista del cimitero, quando un improvviso ed insistente suono di campanella li raggiunse, e il frate si voltò, guardando oltre gli ulivi verso il convento. – Senti Piero, mi hai davvero incuriosito, ma purtroppo mi stanno chiamando e devo andare. Che ne dici se ti vengo a trovare in camera questa sera dopo compieta? Vorrei continuare la nostra chiacchierata prima di cena. E magari, se lo credi, darò un’occhiata a quei fogli. – - D’accordo. Ma farai di più. Promettimi che li leggerai anche tu. – - Ci puoi contare. Ci puoi proprio contare! – Disse, mentre le sue gambe ancora leste stavano già correndo nella direzione opposta, come se qualcuno continuasse a chiamarlo per nome e lui rispondesse: ‘Vengo, vengo’.
Piero invece proseguì la sua passeggiata avanzando lentamente e girando per un viottolo a sinistra. Ed ecco, dopo una leggera salita, il cancello di ferro del piccolo cimitero. Come al solito era appena accostato, bastava spingerlo per entrare.
La pace e il silenzio dei morti lo accolsero, consueto ospite gradito alle loro estreme dimore.
Le tombe erano per lo più semplici croci e lapidi di marmo bianco, nomi e numeri scritti in nero, ultime tracce che gli agenti atmosferici, stagione dopo stagione in modo implacabile, contribuivano a cancellare definitivamente dal mondo dei vivi.
Ma le riflessioni di Piero erano altrove, lontano da quei poveri resti di vite consumate per gli altri.
Infatti passò distratto tra i tumuli, andando a sedersi su tre gradini addossati al muro che cingeva insieme ai cipressi le aiuole di quelle umili sepolture.
L’uomo era impegnato nell’esercizio estremo di forzare i cancelli della memoria per accedere al suo passato, cercando di ricordare gli avvenimenti di quella lontana notte di novembre e ancor di più quelli dei mesi che l’avevano preceduta, dei quali nessuno era in grado di fargli un resoconto.
Tuttavia anche questa volta il tentativo risultò vano: come sempre, l’ultima immagine che riusciva a richiamare era il cadavere di quell’uomo dal volto sfigurato e dal cranio fracassato, nei panni di un anonimo barbone.
‘Perché lo aveva ucciso?’
A volte dubitava anche di averlo fatto, altre volte riteneva che tutta la storia fosse uno scherzo della sua mente. Ma non doveva cedere le armi al dubbio, perché quella era la prima realtà veramente sua che in sé possedeva e che in sé occultava, conservandola gelosamente.
Solo Padre Elio, depositario della sua confessione, conosceva quel segreto.
In vero su quella vicenda non riusciva ancora a mettersi l’animo in pace, tuttavia, per non tormentarsi ulteriormente, si era data una ricostruzione di comodo, dicendosi che molto probabilmente quel tizio l’aveva aggredito per prendergli il portafoglio e, in un alterco tra ubriachi, lui si era difeso, avendo la meglio sull’aggressore.
Del resto il medico da cui era stato condotto la sera dello stesso giorno aveva ravvisato un ematoma nella parte laterale sinistra del capo e, dopo un’accurata visita, aveva consigliato a Gianluca di ricoverarlo per accertamenti, in quanto quella botta poteva essere la probabile causa della perdita della memoria. Comunque secondo lo specialista avrebbe dovuto trattarsi di un trauma temporaneo, destinato a risolversi col tempo. – E invece sono già passati più di quattro mesi. – Tirò un lungo respiro, poi si rassegnò a chiudere gli occhi e a rivivere per l’ennesima volta quella lunga indimenticabile giornata dell’8 novembre 2004, la prima della sua vita che gli riuscisse di ricordare.

Con la certezza di essere lui Pietro de Simone, aveva raccattato dal banco il resto dei venti euro ed era uscito dal bar della stazione per scendere in metropolitana.
All’edicola aveva comperato una mappa stradale del centro di Milano. Trovata la via indicata sulla carta d’identità, aveva preso il metrò fino alla fermata di porta Venezia e poi il tram fino a piazza Cinque Giornate.
A piedi per Corso XXII Marzo aveva trovato il numero civico che cercava. Corrispondeva ad un austero palazzo dei primi del Novecento.
Il portone in legno massiccio era aperto su di un arioso androne sbarrato a metà da una bella cancellata in ferro battuto coi puntali dorati, dietro si poteva vedere una parte dell’ampio cortile a colonne, con al centro una fontana e le aiole di un piccolo giardino tenuto con cura.
L’uomo fece scorrere le poche targhette d’ottone infisse nel muro.
Tra esse la seconda riportava Av. Pietro de Simone e quella di sotto Studio legale e notarile P.dS. & G.G.
Un’intensa sensazione di gioia lo stava spingendo a togliere di tasca le chiavi, ma si accorse che la portineria si apriva proprio all’interno del vano dell’androne e una donna stava già sbirciando da dietro le mezze tende verso di lui con ostentata curiosità. – Ci manca pure che quella befana di portiera mi chiami la polizia. – Mormorò, e subito si ritrasse sul marciapiede e si affrettò ad andare oltre.
Era stato uno sciocco ad arrivare fin lì con quell’aspetto e con quegli abiti logori e sporchi! Certamente non sarebbe passato inosservato e qualcuno avrebbe potuto collegarlo alla morte violenta di quel barbone.
Così, dopo aver passato in rassegna il suo stato attuale, aveva attraversato la strada, tornando sui suoi passi.
Si era ricordato, infatti, di un grande magazzino verso l’inizio del corso, perciò vi si diresse.
Qui, nonostante il freddo, si tolse il vecchio cappotto e lo appoggiò al cassonetto dei rifiuti, infilando di nuovo portafoglio e chiavi nelle tasche interne del giubbetto di jeans dove li aveva trovati. Si sistemò dietro le orecchie i capelli ancora umidi ed entrò dirigendosi al reparto di abbigliamento maschile.
Avrebbe dovuto pagare in contanti e quindi non poteva al momento concedersi capi di lusso.
Scelse un giubbotto imbottito, un pullover, una camicia azzurra, una cravatta in tinta e un paio di pantaloni di panno di lana blu notte. In extremis si ricordò delle scarpe e dei calzini. Poi decise di prendere anche un borsone per mettervi tutta la roba che aveva acquistato. Pagò, raccolse il cappotto con le tasche macchiate di sangue ed entrò in un bar cento metri più avanti sull’altro lato della strada.
Bevve un succo di frutta, poi andò alla toeletta a cambiarsi.
Con indosso i nuovi vestiti puliti il suo aspetto era notevolmente migliorato.
Purtroppo dopo tutti quegli acquisti non gli rimaneva molto denaro. Tuttavia prima di tentare con le carte di credito aveva bisogno di darsi una ripulita.
Riprese il tram in direzione della periferia e scese solo dopo aver visto l’insegna di un alberghetto a due stelle. – Avete una stanza con bagno? – Chiese e presentò senza esitazione la sua carta d’identità. – Per quanti giorni? – - Solo per oggi, ho bisogno di smaltire una solenne sbornia prima di ritornare a casa. – L’albergatore ridacchiò con lui, ammiccando in segno di complicità. – Numero 14, primo piano, pagamento anticipato. Se non cela fa a salire a piedi, può prendere l’ascensore. – Aveva finto di ridere alla battuta e pagato il conto.
Una volta in camera, aveva riempito la vasca da bagno con acqua bollente, versando tutto il sapone liquido e il bagno schiuma che era riuscito a trovare.
Alla fine, dopo aver dormito un paio d’ore, si era rivestito e aveva cercato un barbiere.
Era quasi mezzogiorno quando uscì sbarbato e con i capelli tagliati corti a spazzola, ora presentava un aspetto simile a quello ritratto sulla carta d’identità ed abbastanza rassicurante da poter utilizzare le carte di credito. Non ricordava i ‘pin’ del Bancomat e della carta Moneta, così si sedette su di una panchina per potersi esercitare con calma ad imitare la firma più chiara, quella sul retro della Master-card.
Non gli fu difficile, al terzo tentativo era già perfetta.
Allora decise di ritornare in centro e di tentare prima con un buon ristorante. Nel caso la carta non fosse più attiva, aveva con sé ancora abbastanza contanti per pagare il conto.
Gli parve per un momento che il locale scelto avesse un’aria familiare, ma niente di più. Il cibo comunque risultò ottimo e a lui bastò mettere una firma.
La cosa gli pareva quasi incredibile.
Col passare delle ore si sentiva dentro un altro uomo, come se, su quello stretto marciapiede, insieme al barbone fosse morto qualcosa di vecchio che c’era in lui.
Con rinnovato ottimismo continuò per parte del pomeriggio a migliorare se stesso: abiti di ottima sartoria, scarpe firmate, una valigia in pelle…
Quindi ritornò all’alberghetto di periferia, raccolse tutte le sue cose e sorrise dentro di sé alla faccia stupita del gestore.
Poi nell’uscire, quasi per scusarsi, buttò lì: – Le sbornie sono davvero una brutta cosa. Giuro che non toccherò più un goccio d’alcool. – - Dicono tutti così. Ma poi si sa che non dura. – Fu il commento dell’uomo dietro il bancone della hall, che gli ammiccò di nuovo come se entrambi facessero parte di uno stesso circolo degli appassionati della bottiglia.
Il taxi era già arrivato, lui salutò frettolosamente e ne uscì disgustato.
Per tutto il tragitto in auto continuò a rivolgere contro se stesso quella sensazione di nausea e di disgusto.
D’accordo era uno smemorato e di sé non ricordava ancora niente, ma di sicuro non era un ubriacone. E per darsi un po’ di pace, rinnovò il fermo proposito che per nessun motivo in futuro avrebbe bevuto oltre misura.
Si sentì subito meglio, e a quel punto capì che ormai era pronto per tornare a casa.
Il vento di marzo aveva iniziato a scuotere le chiome degli ulivi, larghe nuvole bianche stavano passando sul sole, e Piero incominciava ad avvertire l’umido del cimitero e la stanchezza della fatica che sempre lo assaliva dopo lo sforzo estenuante di ricordare.
Per quel giorno era inutile tormentarsi ancora.
Inoltre si faceva sempre più forte il bisogno del suo piccolo e caldo rifugio, della pace di quella modesta cameretta, affacciata verso la valle, dove gli ordinati filari delle viti degradavano fino al lago, aprendo al cuore rassicuranti orizzonti.
Quindi scese dal muretto e s’incamminò lento verso l’eremo sospeso sul ciglio della collina per la stessa strada già percorsa da frate Elio.

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