Storie di uomini e di galere

di

Francesco Gambellini


Francesco Gambellini - Storie di uomini e di galere
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 240 - Euro 16,00
ISBN 978-88-6037-8750

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In copertina dipinto di Remo Petrucci


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è finalista nel concorso letterario J. Prévert 2008


Ed egli sentì la voglia di gridare, mentre il piccolo Marco corsogli incontro gli volava tra le braccia leggero come un passerotto.
“Marcolino.” Rise egli felice.
Lo tenne così stretto un poco scarruffandogli teneramente i capelli… e vide Rosina, pudica e irresoluta là in fondo.
Sentì di nuovo l’insistere del frate che gli era ancora a lato.
Allora, messo giù Marcolino e presolo per mano, mossero insieme verso la donna.
Appena un abbraccio, veloce e silenzioso.
“Ho preparato il pranzo.” Arrossendo disse infine Rosina per superare l’imbarazzo.
Ancora una volta l’emozione fu lì per travolgerlo al pensiero che qualcuno lo avesse aspettato, e se ne difese aggrappandosi a Marcolino.”
“Andremo a vedere le montagne. – Propose – Le hai mai viste?”
“No.” Rispose il bambino.
“Ci sono le aquile.” Disse lui.


Storie di uomini e di galere


A te che credi d’essere libero solo per il fatto di non avvertire le sbarre che dalla nascita ti serrano, con la speranza che possa infine prenderne coscienza e finalmente guardare agli uomini tutti, e più a quelli ristretti nelle galere, con occhi meno impietosi.


UN CASO SEMPLICE

La Maserati rossa si schiantò con un ruglio di ferraglie contro il platano centenario.
Era l’unico platano a far ombra nella piazzetta dello chalet dove di solito sostavano i clienti per quattro chiacchiere e una cosa da bere.
Non toccò nient’altro.
Dritta come una scheggia contro quell’unico ostacolo.
Erano le dodici e ventidue precise.
Il giorno chiaro.
Il traffico inesistente.
I testimoni dicono che non provò manco a frenare, e i verbali della polizia lo confermano.
Sull’asfalto nessuna traccia di gomma.
Dopo lo schianto tutto parve fermarsi a un tratto: c’era solo il sibilo del radiatore crepato e contorto a qualche metro di distanza.
Il platano aveva squarciato le lamiere fracassando il motore e l’abitacolo.
Gli avventori, dopo il primo sbalordimento, s’erano allontanati in allarme per l’odore acre di benzina.
Solo uno e poi un altro, a causa di giovinezza, si avvicinarono.
Il guidatore pareva sostanzialmente illeso, svenuto nell’abbraccio degli airbag; ma la donna a fianco aveva gli occhi sbarrati e il cranio sfondato; dalla bocca appena un rivolo di sangue, e tra i capelli bianchi.
“Venite via! Non fate gli stronzi!” Li chiamavano indietro gli amici.
Ed essi infine si allontanarono.
Proprio mentre dalla curva giù in fondo comparve l’auto della volante e dalla parte opposta veniva l’urlo lamentoso dell’ambulanza in avvicinamento.
I poliziotti spingevano lontano i curiosi, ma non s’attentarono ad avvicinarsi prima che l’auto fosse coperta dalla schiuma antincendio.
L’uomo fu relativamente facile liberarlo: s’agitò appena mentre lo sistemavano sulla lettiga; aveva un filo di schiuma biancastra che gli colava dalla bocca, gli occhi di vetro e un tremito infrenabile.
Uno dei poliziotti lo riconobbe e parlottò concitato col capopattuglia… poi fecero cordone attorno all’ambulanza.
“Pare che sia un funzionario importante.” Disse uno.
“Un alto grado della polizia.” Tradusse un altro.
“No. Un magistrato.”
“Macché giudice! È della politica invece!”
In realtà si trattava dell’onorevole Salvatore Raffa da qualche giorno nella cittadina di provincia per un fondamentale convegno sull’utilizzazione della rapa a sostegno dei paesi del sesto mondo.
Aveva preso alloggio nell’unico albergo ad undici stelle da sempre rifugio di alti prelati, di alti magistrati e di alti funzionari e uomini di governo.
La Maserati era una delle cinque vetture di gran marca che la direzione dell’albergo soleva mettere graziosamente a disposizione dei suoi clienti più prestigiosi.
Sicuramente quindi un uomo di potere.
A conferma, la scorta di due motociclisti a precedere e a seguire l’ambulanza verso l’ospedale più vicino.
La donna, settanta-settantacinquenne, nessuno la conosceva.
Difficile guardarla, in quelle condizioni.
Uno tuttavia disse che forse…
Ma nessuno lo badò.
Si cercava piuttosto di tirarla fuori in qualche modo; e non era facile.
La fiamma ossidrica sfrigolava in affanno nell’intrico delle lamiere.
Qualcuno giurava di sentire puzzo di carne bruciata.
Proprio allora un’altra pattuglia giunse a sirene spiegate, e spingeva la gente ancora più lontano facendo muro intorno.
Venne allontanato perfino il fotografo del foglio locale che resisteva protestando la libertà di stampa e il diritto d’informazione.
“A suo tempo ci sarà un comunicato.” Lo spintonavano indietro i poliziotti.
Ci volle un’ora buona per districarla fuori dalle lamiere e caricarla sull’ambulanza che partì di gran carriera col suo urlo sinusoidale.
“Che ti corri? – Disse uno faceto – Ti chiudono l’obitorio?”
Perché non c’era dubbio che la donna era andata.
Qualcuno sosteneva addirittura che l’avevano tirata fuori a pezzi; anche se nessuno era in grado di giurarlo.
“È una di qui, comunque sia. – Raccontava il Tisico – L’ho vista comprare un giornale all’edicola di piazza Gervasi.”
Era sera oramai quando i vigili, liberata la strada dalla carcassa e dai rottami, raccolsero le loro cose e sgombrarono il campo.
Restarono alcuni operai a transennare il luogo… E accesero quattro fiaccole per segnalarlo.
Sei o sette avventori avevano ripreso posto ai tavoli lì presso e, attardandosi più del solito, commentavano il fatto tra una birra e un frullato: “Lui avrà più di settant’anni. Roba che se ti va grassa puoi guidare al più un’utilitaria.”
“L’hai mai visto un ministro su un’utilitaria? Viaggiano con autista e scorta appresso. Questo è per fare il fico. Uno che fa ginnastica e tre ore il giorno di sauna per restare asciutto.”
“Da giurarci che ci hanno amanti in ogni posto che girano.”
“Io l’ho visto. – Disse infine Pelliccia, uno dei due sconsiderati ch’erano accorsi accanto all’auto subito dopo il fatto – Era un sacchetto pieno di roba bianca.”
“Cocaina.” Giurò subito un altro.
Il sacchetto, se c’era, era sparito subito.
Tutti avevano notato, in effetti, un armeggiare strano… E poi era intervenuto a sirene spiegate il questore, e subito dopo il prefetto in persona.
Ma questo sembrò naturale considerata la notorietà del personaggio.
Della donna non si sapeva ancora niente.
“È di qui. – Insisteva il Tisico – L’ho vista proprio stamani all’edicola.”
Ma come e perché si trovasse a bordo della Maserati nessuno riusciva a spiegarselo.
D’altra parte non potevano sapere che i due avevano la stessa età e che si conoscevano assai bene.
Che anzi, per un paio d’anni, avevano frequentato insieme lo stesso Liceo della capitale.
Allora era egli un ragazzetto segaligno e becero pieno di soldi e di vento che non s’impaniava mai fra tangenti e coseni né fra Lucrezio ed Erodoto perché non gliene poteva fregare di meno.
Pronto a discutere di calcio e a menare le mani all’occorrenza, aveva tuttavia un certo seguito tra le ragazze per i suoi modi spicci e quel parlare trucido che lo faceva apparire fico e spregiudicato.
Arrivava quasi sempre in ritardo con una inchiodata precisa della sua Benelli che ne aumentava il prestigio ruggendo potenza.
All’uscita rimorchiava ogni giorno quella delle sue compagne che più s’era data da fare per spantanarlo da una di quelle lagne del De senectute o del De rerum natura ch’egli giudicava da vomito.
Mai lei. Anche se di tutte era senza dubbio la più bella.
“Studia!” Gli diceva negandosi.
E questo lo inferociva.
Per quel rifiuto altezzoso; per quella sicurezza irritante.
“Chi crede di essere?!” Diceva con rabbia.
Ma intanto curiosamente le s’incaponiva attorno non digerendo quella resistenza.
Questo per due anni; quando bocciato senza appello fracassò i quadri del verdetto e abbandonò per sempre gli studi.
Lei invece continuò fino alla laurea, e chiamata in ruolo nella cittadina di provincia vi si stabilì definitivamente.
Lui prese altre strade: cambiò due moto e ne sfasciò una proprio contro il cancello della scuola; provò a lavorare nell’officina del padre, ma non gli piaceva la rigidità degli orari; fu pony-expres, scaricatore ai mercati generali, batterista nel gruppo dei Desperados chiamati nei festivi a ramingare per le sagre di paese.
Furono appunto questi spostamenti e i costi ch’essi comportavano a scaturire il machiavello della vendita di bibite euforizzanti che sommovessero mani e piedi alla festa e impinguassero i guadagni.
Da lì alle pasticche, più comode ed efficaci, il passaggio fu quasi naturale.
L’idea fu sua; e siccome era lui a procurarle s’ebbe un quindici per cento in più nella divisione degli utili.
Faceva le cose tanto a modo che non lo beccarono mai.
Arrestarono invece il chitarrista, e il gruppo si disperse.
Proprio in quei giorni un infarto lo lasciò erede dell’officina paterna ed egli vi investì tutti i suoi guadagni: macchinari nuovi e nuove assunzioni… auto che entravano da ogni dove e ne uscivano fiammanti, targa e matricole nuove di zecca, colori splendidi.
Riuscì a disfarsene appena in tempo prima che i carabinieri intervenissero mettendo tutto sotto sequestro.
Evitò i guai peggiori d’un soffio; e benché fosse stato assai abile a stornare da sé ogni sospetto, il pericolo corso gli fece sentire il bisogno d’una protezione.
Fu per quello che s’improvvisò galoppino d’un candidato prestigioso alle elezioni politiche; manifesti in ogni angolo, volantinaggio porta a porta, gadget, promesse… Nella sua zona insomma fu un plebiscito tanto che nel corso dei festeggiamenti l’onorevole volle conoscerlo di persona, lo abbracciò e lo volle organizzatore e responsabile primo dei gruppi d’assalto che durante le campagne elettorali dovevano occuparsi dei votanti come egli aveva dato prova di saper fare assai bene.
Cominciò così la sua carriera politica, con quell’incarico che gli permise di mettere finalmente in mostra le notevoli capacità organizzative che negli anni della scuola non erano state apprezzate, quando le usava per scansare la fatica d’una versione o per fregare l’occhiuta vigilanza d’una prof. zitella.
Dai gruppi d’assalto alla sezione giovani per infine alla segreteria del partito.
Due v’erano i vertici: l’ideologo dottor Finingegno, e lui, il pragmatico, l’uomo d’azione che non si tirava mai indietro e che organizzava manifestazioni, fomentava scioperi e guidava gruppi d’ordine pronti all’occorrenza a menare le mani.
Tre anni di militanza e finalmente il successo.
Da onorevole, tra i suoi scagnozzi si scelse i più prestanti come guardia del corpo e viaggiò in lungo e in largo il suo collegio prendendo nota dei bisogni e dei problemi di ognuno; e se non si poteva venirne a capo prontamente, non lesinava assicurazioni e promesse.
Era abile nel dirottare contributi statali che spacciava per suoi personali costruendosi così fama immeritata di liberalità e di efficienza.
Le sue entrate erano misteriose ma considerevoli tanto che in poco tempo mise insieme una fortuna: tre ville, una tenuta di mille ettari, barca di trenta metri, jet personale, parco macchine fornitissimo e un gruppo agguerrito di promotori finanziari a gestire i suoi capitali.
Un uomo potente insomma.
Tuttavia una sera, mentre cenava sul ponte della sua barca sotto le stelle d’un cielo con luna, al tutto protetto da guardaspalle poderosi,senza una ragione apparente, gli si districò dal viluppo disordinato della memoria quel volto che pareva dimenticato… i capelli sciolti lungo le spalle, la vita sottile e quel ridere strano, appena accennato.
Se ne liberò con fatica, quasi con fastidio.
A dispetto tuttavia gli tornò a tradimento qualche giorno dopo mentre accanto al vescovo e al prefetto presiedeva all’inaugurazione dell’ospedale.
E poi ancora durante una riunione di gabinetto. (Di cesso, come diceva lui suscitando l’ilarità servile di tutti.)
E poi ancora…
E ancora…
Fino a che si decise a farla chiamare.
“Qui la segreteria dell’onorevole Raffa. Resti in linea, prego!”
“Sono qui.” La voce di lei di là dal filo.
Tranquilla.
“Salve! Sono Raffa. Ti ricordi?… Salvatore. Tora-Tora mi chiamavate, ti ricordi?”
“Certo.”
Senza meraviglia.
“Come stai?… Sempre la più brava?”
“E tu così intelligente… Peccato davvero!”
“Peccato?!… Che credi? Di strada ne ho fatta pur io! Ho girato il mondo in lungo e in largo… Sai? La politica… un’attività senza soste.
Eppure all’improvviso tra rogne e beghe d’ogni specie mi sei saltata fuori tu. E perché no? Mi son detto. Perché non incontrarla?
A giorni parto per una vacanza con la mia barca. Perché non invitarla?… Ci conto?”
“Sei davvero gentile, ma i miei viaggi mi piace farli a piedi. Delle barche ho paura.”
Di nuovo!
A distanza di trent’anni lo stesso rifiuto!
E allora, diversione.
“Raccontami! Raccontami! Come ti trovi in provincia? Se vuoi… Un trasferimento per me è roba da niente.”
“Ti ringrazio molto ma questa è una cittadina tranquilla… Il verde intorno… A misura per me.”
Merda!
Eppure doveva farle vedere che di strada ne aveva fatta molta… che studiare è una fisima, una cattiva abitudine buona per chi non è capace di farsi avanti con l’astuzia che ci vuole per districarsi.
Voleva che davanti alle sue fuoriserie, al suo jet, alle sue scorte ella facesse infine un confronto e confessasse il bilancio.
Per questo prese l’abitudine di telefonarle almeno un paio di volte l’anno; domandava come stesse e se avesse bisogno di qualsiasi cosa.
Ella rispondeva quietamente e ringraziava senza mai infastidirsi.
Così per anni.
Una volta venne perfino sulla berlina di rappresentanza e le si fermò sotto casa con la scorta dei motociclisti e il corteo delle macchine al seguito.
Si negò ancora fingendosi assente.
Li vide infine ripartire nascosta dalle persiane.
Questa la storia che univa in qualche modo l’uomo e la donna.
Ma nessuno la conosceva né poteva immaginarla.
Per questo si era ancora alle illazioni sull’identità della vittima.
Pareva strano che non avesse una borsetta e che per nessun altro verso fosse possibile riconoscerla.
Ma si diceva che i parenti della donna messi oramai in allarme dal suo silenzio la stessero cercando invano telefonando in ogni direzione.
Solo a notte si seppe infine che erano stati chiamati all’obitorio e vi avevano riconosciuto la zia che finalmente ebbe un nome.
Insegnante per quarant’anni nel locale Liceo, era da dieci in pensione.
Generazioni e generazioni di ragazzi, uomini fatti oramai ai posti di comando, le dovevano molto e la ricordavano con affetto; anche quelli che nella pratica di ogni giorno ne avevano dimenticato la lezione di umanità e di mitezza che era stata sempre alla base del suo insegnamento.
L’ispettore capo Pepe era venuto di persona a frugare il luogo dell’incidente e benché tutto fosse stato di già portato via insisteva a cercare attorno, ogni tanto chinandosi a raccogliere dei sassolini, pareva, o terra, o polvere.
Manco uno sguardo alla macchia di sangue ancora ben evidente.
L’agente che l’accompagnava si limitava a riporre con cura quel che gli era consegnato dal suo capo.
Così per una buona mezz’ora… Poi se n’andarono né ai né bai.
Non stese neppure il rapporto regolamentare l’ispettore Pepe.
Aveva deciso il sopralluogo di sua iniziativa e non gli pareva necessario né prudente un rapporto scritto.
Sollecitò invece un colloquio col questore.
La storia della farina trovata nella carcassa dell’auto decisamente gli puzzava.
“Dov’è?” Aveva subito chiesto; ma nessuno gliel’aveva mostrata.
Tutti giuravano che c’era; nessuno sapeva dove.
E poi che ci faceva l’onorevole con un chilo di farina su una macchina che per giunta non era sua?
Della donna, allora!
Era stata al cimitero a trovare i suoi morti come testimoniavano il custode e un lumino avanzato trovatole addosso.
Con un chilo di farina?!
“L’avrà comprata sulla via del ritorno.”
E lui caparbio se l’era fatta tutta: dal platano al cimitero e dal cimitero al platano, di qua e di là.
Solo un alimentari aveva trovato.
Chiuso per ferie da cinque giorni e per altri quindici.
Più che fondato dunque il sospetto che farina non fosse.
Tenendo conto poi delle voci di certe frequentazioni dell’onorevole Raffa, si giungeva logicamente a ipotizzare quello che da più parti si voleva che non si ipotizzasse.
Ma lui aveva fiutato la pista buona ed era un mastino che difficilmente lasciava la presa.
Fu ricevuto dal vicario, un ometto segaligno autorizzato ad ascoltare per rimettere poi ogni decisione al questore, impegnato, disse, in un inderogabile colloquio di lavoro.
Nella sua villa al mare con l’amante di turno.
Pepe lo sapeva bene, perché sapeva tutto di tutti.
Dei suoi superiori in particolare; certo com’era che gli poteva tornar utile.
Al vicario raccontò l’indispensabile: della farina che non si sapeva dove fosse finita, della donna che certo non era andata al cimitero a impastar torte, della possibilità invece che si trattasse di coca.
Il vice questore si aggiustava insistentemente gli occhiali.
“La donna faceva dunque uso di cocaina?!” Esalò con un filo di voce suggerendo.
“Da escludersi nel modo più assoluto. La città è piccola. Li conosciamo tutti uno per uno.”
“C’è allora qualche cosa che si possa affermare con certezza assoluta?” Domandò provocandolo e calcando la voce sull’affermare. “Insomma – Concluse aggredendolo apertamente – lei che ne pensa?”
“Niente ancora.” Rispose evitandolo.
Capita l’antifona colui sfoderò quarantadue denti di sorriso e lo invitò a mettere nero su bianco le sue conclusioni che egli stesso si sarebbe premurato di far pervenire con urgenza al signor questore.
Sorrise allora anch’egli.
Ci voleva altro che mezz’etto di vicario per fottere Pepe!
Disse che non c’era fretta: avrebbe aspettato quanto occorreva.
La mattina dopo era lì, convocato da un questore fresco e cordiale come di raro.
Evidentemente il vice lo aveva informato, perché seguiva il racconto di Pepe e le sue deduzioni senza un’ombra di sorpresa.
“Un buon lavoro – Diceva ogni tanto come se valutasse con attenzione – Davvero un buon lavoro!… Conclusioni logiche! Ma…”
“Ma?”
“Le prove, mio caro ispettore. O vogliamo farci ridere dietro dalla stampa?
Non ci sono riscontri… Anzi c’è un pacco di farina che farebbe il gioco della difesa. E poi?… Qui ci vogliono piedi di piombo. L’onorevole Raffa è ai vertici del partito e ci fotte come e quando vuole, se non siamo più che prudenti.
Il suo lavoro è certamente lodevole; ma le prove, perdio! Quelle ci occorrono!
Ho inteso la scientifica: farina 00. Come la mettiamo?…”
Pepe era furioso. Sentiva che il questore lo scaricava; e più lo indispettiva quel suo sorriso sfottente.
“Vedremo – Disse asciutto – se anche quel che ho raccolto sul luogo dell’incidente risulterà 00.”
Questo non glielo aveva ancora detto, ed ebbe l’effetto di spegnergli il sorriso.
“Come sarebbe?… Lei?…”
“Sì. Ho raccolto una polvere bianca che sarà sicuramente farina… ma…”
Ora il questore torturava nervosamente una penna.
“Bene – Disse solo – Ma… tatto, delicatezza, e soprattutto calma. Lei è un ispettore valente, e saprà di certo quel che è meglio per tutti.
Lei ha figli, ispettore?”
Fu allora che Pepe si alzò e chiese congedo.

Tornò a casa di malumore; si lagnò del pranzo e del chiasso che facevano i bambini. Per la prima volta gli pesavano; gli pesava la sottile minaccia del questore: Lei ha figli, ispettore?
‘Fanculo!
Eppure gli aveva messo dentro un’inquietudine irritante.
Non che pensasse a una ritorsione aperta contro i suoi figli; sentiva però che qualche cosa di subdolo c’era in quelle parole: una minaccia oscura da cui era praticamente impossibile difendersi.
“A scuola li accompagno io. M’è di strada. Ma all’uscita devi andare tu!” Disse a Patrizia Maria versandosi una birra.
“E perché?! Sono grandi oramai e la scuola è a due passi. E poi a quell’ora ho il pranzo da preparare.”
“Me ne frego del pranzo!”
Un tono che non c’era altro da dire.
“Che succede Pepe?” Domandò allora la donna non affatto tranquilla.
“Niente. – S’affrettò lui – Solo un sogno strano.”
Ma la donna lo conosceva troppo bene e sapeva che non era uomo da dar peso ai sogni.
Perciò fece come lui voleva senza più chiedere spiegazioni.
E si guardava attorno con sospetto, i primi giorni; ma non riuscendo a notare niente di strano si mise presto tranquilla.
Per lui fu più difficile.
“Lei ha figli, ispettore?”
Come si fa a dimenticarselo?
E cercava di valutare il peso dei rischi ai quali esponeva i suoi famigliari, se…
Perché senza dire niente il questore era stato fin troppo chiaro.
E Pepe non riusciva a dormire.
In fondo poteva passare per una storia assai semplice: l’onorevole Raffa aveva dato un passaggio a una vecchia compagna di liceo ignorando che colei, insospettabile signora senza trascorsi penali di nessun genere, rincasava con mezzo chilo di cocaina pura ritirata chissà da chi al cimitero e da smistare chissà dove. Grazie alla vecchia amicizia aveva creduto di potersi confidare con l’onorevole… oppure, ancora più semplice, un movimento maldestro ed eccolo lì sul pianale, il sacchetto; meraviglia e sconcerto del Raffa che s’abbassa a raccoglierlo e perde il controllo.
Una versione così sarebbe di certo piaciuta a molti.
O anche se avesse riconosciuto per farina la polvere da lui raccolta rinunciando ad analisi quanto meno inopportune.
Più pulita ancora.
Con buona pace di tutti.
Hai voglia i parenti ad insistere che non poteva essere! Le analisi ufficiali e un congruo indennizzo li avrebbero senza dubbio tranquillati.
Questo si voleva da lui.
E gli si sarebbero spalancate le porte d’una carriera rapida e brillante; la riconoscenza del Raffa era notoriamente generosa oltre ogni misura.
Avrebbe potuto finalmente permettersi una casa meno angusta, una macchina con tutte le diavolerie moderne, perfino il condizionatore, lui che l’estate sudava come una bestia; e sua moglie introdotta negli ambienti bene; e i suoi figli…
Sputato addosso, gli avrebbero.
Lui a suo padre avrebbe fatto così.
Perciò a farsi fottere il questore.
Era finalmente l’occasione che aveva sempre aspettato, il colpo della vita; e nessuno glielo avrebbe tolto di mano.
E poi c’era un’altra ragione: lo mandava in bestia il fatto che il Raffa dovesse sempre cavarsela e che ogni volta ci fosse gente disposta a giurarne il disinteresse e la generosità.
Il fatto è che lui lo conosceva assai bene.
Non direttamente, ma da sempre, si può dire.
Era appena un ragazzo e già ne sentiva parlare in famiglia.
Campavano allora coi proventi di un’autorimessa aperta da suo padre coi sacrifici di tre generazioni: una trentina di autovetture che custodiva scrupolosamente di giorno e di notte, visto che abitavano proprio sopra il garage.
Per questo non s’era mai deciso per una copertura assicurativa. Ci aveva pensato, questo sì; ma gli era parsa del tutto inutile visto che c’era lui di persona. E poi allora l’assicurazione non era ancora di moda; e si mangiava un buon 20% delle entrate.
Così aveva preferito affidarsi a una pistola che deteneva con regolare porto d’armi; ma che non gli servì a molto, quella notte maledetta.
Erano in sette armati di mitra e ben organizzati: passamontagna, giubbetto antiproiettile, chiavi chissà come procurate e perfino una bisarca.
Lavoravano da professionisti: veloci e silenziosi.
Ma suo padre aveva il sonno leggero, e, pistola alla mano, scese giù a vedere.
Niente vide.
Un colpo ben assestato alla testa e si risvegliò legato e imbavagliato a regola d’arte; perfino una benda sugli occhi.
Sentiva soltanto un andare e venire continuo, non i passi, (Scarpe di gomma evidentemente) ma un muoversi ordinato, quasi tranquillo… e cigolii, messe in moto, la piattaforma della bisarca.
Solo una voce, un’imprecazione improvvisa… e poi, dopo un tempo interminabile, il silenzio.
Quando fu sicuro d’essere solo, cominciò ad agitarsi cercando di richiamare l’attenzione almeno di sua moglie che dormiva al piano di sopra.
A giudicare dal rumore del traffico sulla provinciale là fuori, dovevano aver lasciata aperta la porta del garage.
“Qualcuno dovrà pur notarla.” Pensava.
Non aveva mai voluto il metronotte; ma un conoscente, un passante…
Fu invece l’ingegnere venuto sul far dell’alba per la sua Alfa a scoprirlo legato così.
Cominciava già ad allentargli i nodi quando fu preso dal dubbio che anche la sua…
Sparita perdio!
Lo realizzò in un attimo e pestò con rabbia sul cellulare. Non c’era campo e allora corse via in furia mollandolo ancora col bavaglio alla bocca.
I nodi delle mani erano però già lenti tanto che alla fine riuscì a liberarsi.
La testa gli sanguinava, ma egli, senza curarsene, andava avanti e indietro per l’autorimessa parendogli incredibile che fossero riusciti in così poco tempo a portar via quasi tutto.
S’abbandonò infine su una cassa sventrata, allucinato e muto, alla curiosità di quanti alla notizia del fatto venivano a ficcare il naso.
E lì lo trovò la polizia.
Manco allora rispose alle domande; finché il capo pattuglia, colta la fissità dello sguardo, chiamò per un’ambulanza.
La cosa fece scalpore.
Per fortuna la ferita al capo era seria, e zittiva i sospetti dei maligni.
Come s’erano procurate le chiavi coloro?
E perché s’erano limitati a tramortirlo rischiando d’esserne identificati? Di solito è gente che va per le spicce.
La polizia stessa girava torno torno fiutando il machiavello.
Aveva egli un bel dichiarare che col tempo avrebbe risarcito ogni danno; ma uno aveva bisogno dell’auto per ragioni di lavoro; un altro si sarebbe trasferito a breve oltre Atlantico; e tutti trovavano almeno rischioso doversi fidare di chi aveva subito un furto senza scasso e una carezza appena di striscio sul capo da parte di una banda di professionisti che di solito non hanno attitudine alla gentilezza.
Non gli restò dunque che svendere un podere di venti ettari e due appartamenti avuti in eredità.
Ebbe addosso così tutti quelli che le sue proprietà non erano bastate a soddisfare.
Ci furono accuse esplicite e chiassate.
Fino a che da parte della polizia si giunse alle perquisizioni.
Fu allora che non resse più e mollò tutto.
Un colpo solo.
Alla tempia.
Così egli, tredicenne appena, fu travolto dal succedersi rapido di tanti fatti che stentava a capire.
E poi quel colpo di pistola… e la disperazione quieta di sua madre… e la gente infinita che veniva a spiarli.
Solo durante il funerale, mentre il corteo avanzava nel silenzio delle strade e l’orazione del prete lo accompagnava col suo lagno di morte, egli cominciò a metabolizzare quegli stravolgimenti e capì all’improvviso quel che doveva.
La sua carriera di investigatore cominciò lì, tra un de profundis e un requiem.
Decise infatti a quel punto che avrebbe trovato i responsabili; e intese che questo lo riattaccava alla vita.
Con rabbiosa determinazione aveva organizzato un gruppo investigativo di coetanei che nel giro di due settimane arrivarono all’officina della carogna.
Delle autovetture nessuna traccia; ma il Rosso giurava d’aver sentito da suo padre, che vi lavorava come meccanico specializzato, del gran lavoro fatto e della velocità d’esecuzione: venticinque vetture smontate e riciclate in una notte; un record.
I carabinieri lo ascoltarono con pazienza, scrissero perfino su certe carte e poi gli risero di tornare a scuola ché per le indagini doveva crescere ancora almeno mezzo metro.
Si sentì sbeffato; ma la rabbia finì per indicargli la via.
Neppure quando sei mesi dopo ci fu l’irruzione e l’officina fu messa sotto sequestro egli fu soddisfatto.
Anche perché la carogna, o che fosse stato avvertito o che avesse fiutato puzza di bruciato aveva venduto tutto migrando in sud America.
Tornò per affrontare il processo e chiarire la sua posizione. Una decina di quelli che avevano lavorato per lui furono condannati ad anni e mesi di carcere. Lui invece, grazie a un collegio di difesa di prim’ordine, ne uscì netto come alla nascita.
Una rabbia sorda.
Avessero almeno parlato di insufficienza di prove!
E invece, spudoratamente pulito.
Tanto che aveva infine trovato conveniente rimpatriare confortato dalle connivenze che i suoi avvocati gli avevano procurato e dalla considerazione che la sua sfrontata sicurezza gli era valsa.
Capito prontamente che la politica era una copertura importante vi si era fiondato con tutti i suoi capitali.
Rischiare senza riserve era la sua forza.
Non ebbe incertezze perciò nel farsi galoppino e cominciare dalla gavetta.
Ma ora l’onorevole, personalità di spicco del partito unico, era fregato.
Fregato senza scampo perché si portava addosso almeno mezzo chilo di roba e guidava con una patente riavuta chissà come dopo che gli era stata sospesa in seguito al grave incidente (Tre morti) ch’egli aveva procurato per un improvviso attacco di convulsioni epilettiche.
Tutti naturalmente fingevano di non sapere, ma lui aveva scovato tra le sue amicizie un’infermiera pronta a testimoniarne l’epilessia anche se le carte erano da sempre sparite.
“Fregatene. – Gli dicevano gli amici – In certi casi è meglio. Lascia perdere o ti ritrovi col culo per terra in meno d’un amen.”
“Non sarà accanimento per quella vecchia storia di tuo padre?” Lo incalzavano i colleghi.
Come ‘vecchia’?
Da quella sera quel colpo di pistola era sempre lì, conficcato nel cervello, nuovo ogni giorno.
Il prete non l’aveva voluto manco in chiesa. E questo, questo soprattutto aveva avvilito sua madre sprofondandola nella depressione che nel giro di qualche mese aveva finito per ucciderla.
Storia vecchia, dite?!
E quando invecchiano le storie se non hanno avuto giustizia?
Tuttavia non era questo a determinarlo, sosteneva.
Protestava che non si poteva fregare una vecchietta sempre stata limpida e stimata per coprire una carogna come l’onorevole.
E se colui aveva ammazzato suo padre, questa era soltanto una ragione in più.
Così diceva; ma non lo sapeva bene neppure lui.
Sapeva però che sarebbe andato avanti.
Quando ti ricapita una cosa così?!

Il laboratorio d’analisi la tirava in lungo: c’erano molte impurezze, diceva, bisognava andarci cauti.
Che vuol dire andarci cauti?
È o non è, perdio!
Il fatto era che stavano prendendo tempo.
Ordini, di sicuro.
Ma per fregare Pepe ci voleva altro.
Chiese tre giorni di permesso e se ne andò fuori regione a festeggiare l’anniversario del matrimonio con Patrizia Maria che non stava in sé dalla sorpresa e che s’era affrettata a sistemare i figli presso una sorella.
La scelta della città le era parsa strana; ma era troppo eccitata per fare domande. Solo quando alla ricerca d’un albergo capitarono nei pressi d’un laboratorio di analisi in cui, le disse Pepe, lavorava un suo carissimo amico di gioventù, ebbe il sospetto.
“Vado e torno. – Le disse – Appena un saluto. Vieni su anche tu, anzi.”
In realtà fu davvero un saluto appena, e già era fuori accompagnato da un camice bianco, occhiali di miope e baffetti grigi.
Gentilissimo peraltro; li invitò perfino a cena, e a Pepe che declinava l’invito assicurò che i risultati sarebbero stati pronti per l’indomani.
“Allora è per questo?!” Lo accusò lei delusa.
Ma egli la guidò rassicurante in un ristorantino scelto tra le cinque forchette, a un tavolo appartato e abbellito da rose. E intanto le spiegava che lo volevano fregare manipolando le analisi e che lui gli avrebbe fatto capire chi era Pepe.
“È un imprudente. – Gli sorrise Patrizia Maria – Un testardo che mi farà morire di paura.”
La sfiorò con un bacio.
“Tranquilla!” Disse solo.
Erano appena rientrati, lei rigenerata dalla vacanza, lui in trionfo per l’esito dell’analisi, e già il questore lo aveva convocato.
Aveva saputo?
Sospettavano qualche cosa e lo sorvegliavano?
Il questore era esageratamente cordiale: “Carissimo ispettore” Lo accolse sorridendo.
Ma egli era in guardia e specie in quel carissimo avvertì subito l’aggressione o almeno la trappola.
“È stato un buon viaggio, immagino. Mi dicono per festeggiare un anniversario. È così?”
Coglione! Pensi che ti risponda: “Veramente…”
“Del resto risulta dalla mia richiesta.” Rispose pronto.
“So, so. Ma perché soltanto tre giorni? Lei è un ottimo elemento ed io lo voglio riposato. Ho deciso di prolungarle le ferie di altri quindici giorni… Le va?”
“Non capisco.” Disse senza rispondere.
“Ma gliel’ho già detto: la voglio in forma. Ho in mente di affidarle un incarico piuttosto delicato di cui le parlerò al suo ritorno.”
“La ringrazio molto, – Sorrise Pepe – ma in tre giorni ho speso già un mese di stipendio e quindici giorni le mie tasche non li reggono proprio. Quanto all’incarico… sto già occupandomi del caso dell’onorevole Raffa.”
“Ma non è chiuso?” – Si meravigliò il questore; e simulava sincerità con la bravura d’un attore consumato – Oramai è tutto chiaro, mi pare. O no?”
“A dire il vero cose da chiarire ancora ce ne sono: la natura della polvere bianca, per esempio.”
“Sicuramente farina; mi dicono.”
“E allora io mi domando: se non l’ha portata la signora (Tornava dal cimitero e lì non serve) che ci faceva l’onorevole con la farina?”
“Sappiamo che l’auto non era sua. Poteva essere lì per la dimenticanza di qualche altro.”
“In albergo mi dicono che prima di mettere a disposizione di un cliente una delle loro fuoriserie la lavano e la profumano dentro e fuori. E l’addetto ha testimoniato che al momento della consegna tutto era perfettamente a posto, e che non c’era ombra di farina né d’altro.”
“Sono veramente sconcertato. Ero così tranquillo! – E lo dice ora con astio contro chi inaspettatamente è venuto a scompigliar la sua pace – Intendiamoci, lei ha troppo mestiere per non aver pesato quello che dice.
Non le sarà perciò difficile capire che l’onorevole non è il primo venuto; e che, non dico un sospetto, ma fin l’ombra di un dubbio potrebbe tirarci addosso conseguenze a dir poco non immaginabili. Sono certo che lei si rende conto della delicatezza del caso.

[continua]

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