Le tane segrete

di

Francesco Gambellini


Francesco Gambellini - Le tane segrete
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 176 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-3601

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In copertina: dipinto di Remo Petrucci


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto opera finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2013


Anche Lapo allora si lasciò cadere su una grossa trave, e senza più forze, svuotato come per un male improvviso, guardava attorno smarrito quelle sue macerie.
Ma in quel momento Maria, scoperto lì presso il vaso di basilico miracolosamente scampato, si chinò a raccoglierlo e tendendo la mano al suo uomo: “Andiamo!” Gli disse risoluta.
La guardò negli occhi, quella donna minuta e cagionevole sempre aggrappata alle sue litanie, e improvvisamente si rese conto di vederla per la prima volta. Altissima.
Raccolse allora il moncone d’una sua mazzuola e le fu accanto.
“A questa mazzola dovrò rifare il manico. – Disse. – Andiamo pure, Maria.”
E per la prima volta mano nella mano, camminarono insieme.


Le tane segrete


…e tu chi sei che mi passi accanto salutandomi in festa
come se da una vita ci conoscessimo?


LE TANE SEGRETE

Il mondo è al 117 di via Ludovico Tasciotti.
Che potrebbe essere indifferentemente via del Muro Antico.
O anche via Domenico Porporati (Dipintore emerito).
O la più importante Ventotto Ottobre.
Sta di fatto però che noi stiamo camminando per via Tasciotti… Ed eccoci infine al 117.
Un palazzotto disfatto di pietra bugnata a tratti affiorante dalla barbarie di rattoppi più o meno recenti, butterato dal vaiolo di un gran numero di finestre oramai disuguali: rettangolari o quadrate, vuote orbite nere, chiuse alcune orrendamente da serrande di plastica.
Solo in alto, all’ultimo piano, finestre bifore di antica nobiltà.
“Cerca qualcuno?” Indaga l’uomo comparso nel vano del gran portone con un martello in mano.
È Lapo, il fabbro.
Prima calzolaio rifinito, da quando le scarpe non si suolano più s’è riscoperto fabbro e ha ripreso in mano gli arnesi ereditati dal padre.
Vive con la moglie Maripè in una specie di grande magazzino, un tempo rimessa di carrozze padronali a giudicare dalle rotate ancora evidenti, benché siano state più volte medicate con cemento.
Sul retro si apre una corte di uso suo esclusivo buona a contenere trafilati e tondini di ferro.
Ma dai piani superiori, non di raro, vi si scarica giù ogni sorta di rifiuti; e la Marigiuseppa, povera donna che più mite non si può, con pazienza raccoglie tutto e ne fa piccoli involti da portare due o tre insieme nell’immondezzaio comune.
Un tempo passava lo scopino con la sua trombetta di latta d’oro, ed era più comodo; ora invece bisogna andare più lontano. E pazienza! Dicono che camminare fa bene alla salute.
Non è che Marigiuseppa ne abbia poi tanta; sono anni che battaglia con quella sua tosse stizzosa che ha resistito a ogni sorta di decotto consigliatole da conoscenti occasionali o da amiche fai da te.
Più volte Lapo ha pregato, ha chiesto a tutti e cinque i piani di non farlo più, ma quelli oltre a riconoscergli la ragione e ad assicurare di badarci in futuro, finivano per dimenticare in capo a una settimana.
“Che vuoi farci? – Diceva Maripè per mettere pace – Sono abitudini. Bisogna avere pazienza.”
Lapo invece da qualche tempo se ne preoccupa e non gli va che Maripè con tutta quella sua tosse che a volte le toglie il respiro si dia da fare per lo sporco dei piani di sopra; così alla fine le ordina di non lo più fare.
“Lascia che la sporcizia si accumuli. – Dice – Poi si vedrà.”
“Che vuoi che si veda? – Scuote il capo Marigiuseppa rassegnata – Gliel’hai detto tante volte. E poi mi serve per fare due passi fuori di qui e incontrare qualcuno.”
Ma Lapo ha proprio deciso.
Lascia che lo sporco s’ammucchi ben bene, e quando gli pare che basti, lo scopa tutto al centro della corte, lo ingrassa coi tarli e i vermini di scaglie di legno imputridite, e poi, con uno spago, lo sistema proprio alla stessa distanza dalle quattro pareti che la chiudono.
“O Lapo! – Lo sfruculia il sarto del terzo piano – O che gli prendi le misure?”
“Precise. O non viene esatto. Col tuo mestiere lo dovresti sapere.”
“O che ti grilla in capo?” Ride colui.
“Le cose giuste. Vedrai. A ciascuno il suo.”
“Mah! Ti devo dire però che da quassù mi pare a occhio un po’ più accosto alla parete di destra.”
Lapo se ne preoccupa: Non sarebbe giusto. Pensa.
E riprende a misurare con scrupolo.
Quando è sicuro del fatto suo, ci piscia sopra abbondantemente … “Omaggio personale.” Spiega al sarto stordito.
E poi dà fuoco.
La lordura soffia e sfrigola prima d’arrendersi alla fiamma, ma subito Lapo le è sopra con un gran fascio di fogliame ancora verde che la soffoca costringendola a un fumo acre e vomitevole.
Pesante anche.
Tanto che pare irresoluto a salire, e Lapo è costretto a rifugiarsi all’interno della rimessa.
Ma subito è di nuovo fuori per scatizzare le braci e incoraggiarne la sfumicata con altre bracciate di foglie.
Lentamente il fumo è salito di piano in piano e una dopo l’altra le finestre interne si sono aperte a controllare e subito richiuse in gran fretta.
“Che diavolo è questo?” Impreca qualcuno nel fetore.
“Vi restituisco quel che è vostro – ride Lapo – con l’aggiunta d’un omaggio personale quale giusto interesse.”
All’improvviso si sente lo scampanio dei pompieri chiamati da qualche impiccione dato che nel palazzo nessuno ha il telefono.
E quando i pompieri hanno oramai già spento l’incendio, ecco i vigili che vogliono sapere e questo e quello continuando a fare domande e a scarabocchiare sui loro scartafacci.
Ma da ogni finestra continuano a scendere voci a difesa di Lapo.
“Ha ragione.” Grida lo studente.
“Lasciatelo in pace! – Interviene il colonnello in pensione del quarto – Ha avuto fin troppa pazienza.”
I vigili guardano e ascoltano in confusione e non sanno che fare, tanto più che è arrivato Don Artemio, un sant’uomo di parroco, a testimoniare che Lapo è proprio un buon cristiano.
Ormai però il verbale è fatto e il vigile capo se lo rigira irresoluto tra le mani, fino a che gli sfugge finendo proprio sull’ultima brace.
“E va bene. – Minaccia burbero – Ma la prossima volta dritto in galera.”
Lapo è frastornato, non tanto per il verbale ridotto in cenere, quanto per il battimani che è sceso giù da tutto il caseggiato appena i vigili se ne sono andati.
Vorrebbe in qualche modo ringraziare, chiedere scusa perfino, ma non può; non trova le parole, e anche se le trovasse l’emozione gli impedirebbe di farle venir fuori.
Le lacrime invece fanno da sole e gli annebbiano la vista; ma di quelle non gli importa, potrebbe essere il fumo.
Allora fa un gesto di saluto con la mano e si rintana nella sua officina.
Lapo è veramente un brav’uomo, ecco perché.
Trent’anni che sta lì, mai questionato con nessuno.
E sì che qualcuno più rognoso c’era stato! Ma lui si prendeva un sorso d’acqua da una brocchetta che aveva sempre lì presso e lo teneva fermo in bocca finché l’altro non si fosse sbollito e ammosciato come un pallone fesso.
Il bello era, e Lapo lo sapeva, che colui non sarebbe mai più tornato a questionare, o addirittura gli sarebbe diventato amico.
Difficile far lite con Lapo.
Che aiutava tutti, raggiustando un filo della corrente rosicchiato dai topi o raddrizzando un arnese stortato dal mal uso.
“Oh Lapo. – Chiamavano dalla finestra – Lo sciacquone non vuol più saperne di far quel che dovrebbe.”
E lui lasciava il suo mestiere e s’improvvisava idraulico.
O fontaniere per fermare lo sgocciolìo d’un rubinetto.
Non voleva compensi.
Né lui, né Marigiuseppa che due volte il mese spazzava le scale dall’ultimo piano giù giù fino a terra.
Ora l’uno ora l’altro però, passando per la rimessa, gli lasciavano chi due uova ancora calde, chi fichi freschi di rugiada, una bottiglia d’olio appena spremuto, un fiasco di vino, o di mosto per Marigiuseppa che ne era golosa.
Solo il vizio di sgrullar giù nell’atrio lenzuola e tovaglie, e magari cicche e carte d’ogni genere.
“Sono abitudini. – Li scusava paziente Maripè – Ma ci vogliono bene.”
Ed era vero.
Se ce ne fosse stato bisogno, quella d’oggi era stata di certo la prova provata.
Questo pensa Lapo riprendendo gli arnesi e rimettendo sulle braci la sbarra di ferro da arroventare.
Solo è curioso di capire chi poteva aver avvertito i pompieri dato che nel palazzo nessuno ha il telefono che è roba da ricchi.
O forse l’inquilina del terzo che è la più strana di tutti: una bella donna buongiorno e buonasera che Lapo osserva curioso ogni volta che passa.
Allora sente che gli anni sono passati, e la segue lungamente fino a lasciarsela rubare dalla curva giù in fondo.
Maripè non può far altro che tentare di sviarlo col chiedergli di passarle le cipolle, o ricordandogli di prendere le sue compresse per il cuore, se non l’ha già fatto.
Una volta, addirittura, è andata segretamente dalla capillora a farsi racconciare il capo.
“Avete ancora dei bei capelli, signora. – Le ha detto maliziosamente la donna per farsela cliente – Con un po’ di cura potreste ancora far girare la testa a chi sa quanti.”
E invece Lapo manco per idea.
Continuò a battere il suo pezzo di ferro concedendole appena un’occhiata.
“Ho quasi finito. – Le disse – Fra cinque minuti sono subito a pranzo. Il tempo di sciacquarmi le mani.”
Fu per questo che non ci andò più.
E perché la moneta segretamente accantonata a mollica a mollica e pagata alla capillora le era parsa infine uno strozzo.
Ma a lungo continuò a pensare alle parole della donna gentile, sentendosi avvampare.
D’altra parte s’era presto rassegnata, non potendo certo competere con quella tanto più giovane di lei.
Certo la infastidiva un poco quando sull’imbrunire la sentiva scendere le scale con quei tacchi protervi, e il martellare di Lapo s’interrompeva di botto.
Allora il suo piccolo cuore cessava di battere finché i colpi del maglio non riprendevano.
“Eh, gli uomini!” Sospirava allora rifugiandosi a conforto in un’orazione.
Era in ansia per Lapo.
Quella donna sempre sola che se ne andava ogni sera chissà dove le faceva invece quasi pena, malgrado il fastidio dell’odore che si lasciava dietro.
Lei aveva avuto da sempre paura della notte, e prima di buio voleva essere al sicuro a casa sua.
Quella poveretta invece usciva sempre dopo il tramonto.
‘Forse in ospedale per i turni di notte.’ Sperava.
“Andrà in ospedale. Un’infermiera magari.” Disse a Lapo.
“Ma quale ospedale?! – Lo irrise Galluzzo che se ne intendeva perché usciva sul tardi lui pure per andare a sonare nell’orchestrina del bar dei signori. – L’ho vista più d’una volta con altre due sgallettate. La bella vita fanno. Proprio zoccole! Altro che ospedale!”
“Puttana, vuoi dire? – Tradusse Lapo con qualche incertezza – Eppure pare così a modo!”
Gli pareva di non poterci credere, ma ora la seguiva con curiosità nuova fino alla svolta giù in fondo.
Certo Galluzzo usciva anch’esso di notte per allegrare al bar le serate del Podestà e degli altri gerarchi che si riunivano di frequente attorno a un mazzo di carte e a qualche intruglio da bere per discutere, dicevano, delle rogne dei cittadini.
“Il chinino gratis è già qualche cosa. – Diceva il farmacista – Ma senz’acqua per lavarsi e fogne dove sì e dove no, c’è poco da stare allegri.”
“E che non cachino.” Rise il tipografo cercando l’applauso.
C’era a volte anche il direttore della scuola, e perfino fra’ Simone che attardatosi alla cerca per il convento si fermava volentieri per un bicchiere di vino caldo o fresco secondo la stagione.
Ed erano barzellette e risa sgangherate e pettegolezzi sugosi a tutto campo.
Era chiaro che lì le cose si finiva per saperle tutte e Galluzzo poteva di certo essere informato quando, verso la mezzanotte si ritirava nella sua stanzetta.
Ma a lui pareva ugualmente incredibile, anche perché certe cose si fanno al chiuso, mica per la strada.
E poi Galluzzo le riportava per sentito dire da bocche ridanciane e scomunicate, non, come aveva ammesso, per averle viste egli stesso di persona.
Troppo serio e riservato il giovanotto del terzo.
L’unico che ogni tanto rincasava con un libro o con un giornale.

Per la sua posizione strategica a piano terra e con la gran porta sempre spalancata, Lapo era considerato quasi un portiere.
Non perché qualcuno lo avesse nominato o lo pagasse per questo.
Del resto il guardaportone era proprio e solo dei palazzi dei nobili ricchi come di certo era stato il centodiciassette.
Che oramai era da un pezzo ridotto a ricovero di povera gente e non c’era uno spicciolo non solo per un portiere, ma manco per slordarlo di tanto in tanto dalla lebbra del tempo.
Forse il generale; ma quello mai una volta che si fosse affacciato alla finestra per buttare un centesimo agli spazzacamini che passavano con la loro trombetta.
Cosicché gratis s’accollava egli ogni giorno le piccole incombenze d’un condominio di poveri: dare indicazioni allo stagnaro in cerca d’una perdita, indirizzare il dottore che veniva per un malato, prendere in consegna la rara posta per smistarla nelle cassette di legno quand’erano ancora in grado, o per consegnarla direttamente al destinatario appena rincasava.
Del resto non era una gran fatica; delle sette otto lettere dell’anno quattro erano di Galluzzo, due del generale e il resto manco si ricordava più.
Quelle del generale le consegnava al fattore dato che quando nei primi tempi s’era fatto le scale per recapitarle di persona, per quanto bussasse non era mai riuscito a farsi aprire.
A Natale poi arrivavano più numerose le cartoline illustrate col Gesù Bambino e la Madonna e San Giuseppe che piacevano molto a Marigiuseppa.
Lui preferiva quelle di Babbo Natale con la slitta e le renne, per via che c’era la neve; così ogni tanto lasciava gli arnesi e si perdeva a fantasticare quei paesi di sogno.
Una volta, gli sembrava di ricordare d’averla davvero vista quella pioggia leggera di farfalle bianche che egli cercava d’afferrare invano perché gli sparivano per magia proprio quando era certo.
“Non si può. – Gli rideva dietro sua madre – È solo acqua.”
Ma l’incanto della neve gli era rimasto dentro.
Per questo preferiva i paesi di Babbo Natale.
“In fondo, – pensava per giustificarsi – c’è una parte di noi che non cresce mai. E forse è bene così.”
A volte aveva proprio pensieri bislacchi.

Roccazzara è un paese forivia di appena cinque-seimila abitanti, i Roccazzarani o Roccazzaresi secondo una disputa oramai secolare che il buon Don Artemio, uomo di studio da tutti riconosciuto, ha cercato di comporre giungendo a concludere che l’un nominativo o l’altro va tutto bene, purché naturalmente si sia del luogo.
Le botteghe e i pochi negozi s’affacciano quasi tutti sulla via mediana, la Ludovico Tasciotti che la percorre in salita da sud a nord, per tutta la sua lunghezza intersecata a tratti quasi regolari da viuzze e vicoli disposti come i denti d’un pettine fitto.
Dalla porta di valle su fino a via Ventotto Ottobre, così ribattezzata di recente, che si scantona angusta sulla destra fino a spalancarsi nella piazza ampia ma cieca dove c’è il palazzotto del Podestà da poco ricostruito ad angoli retti secondo le regole del Duce, e la più antica caserma dei carabinieri di stile invece umbertino. Di fronte c’è anche la sede del Fascio, una costruzione anonima arricchita da un gran faccione del Duce, un teschio e un Me ne frego scritto in nero a caratteri cubitali.
La via Ventotto Ottobre è sicuramente la più prestigiosa, ma la Ludovico Tasciotti, indifferente, continua a salir su col suo basolato grossolano inerpicandosi fino al negozietto della vedova Tomaselli scempia d’una M nel parlar popolare, che vende semolino, sale, sigari e sigarette Nazionali e a volte, quando ce l’ha, perfino un po’ di pasta sfusa.
C’è poi la casa del vetrinario che a dire il vero è un uomo senza scuola vissuto sempre con le bestie così che ne capisce assai, tanto che lo chiamano ogni volta che una vacca deve sgravare e le cose non vanno tanto per la quale.
Appena più avanti, l’osteria di Striscebbusso con la frasca perenne appesa all’uscio a significare che lì si beve in allegria e si gioca alle carte.
Seguono:
Un negozietto di stoffe e passamanerie.
L’unica chiesa del paese, rifugio delle donne dai sessant’anni in su che vi trovano riposo dopo un giorno di governo della casa.
Getulio coi suoi quarti di maiale a far gola alle mosche, l’ambulatorio e l’arrotino.
E infine Bastiano, l’edicolante proprio di fronte al 117, lì dove la strada s’allarga nella piazza fino a uscirne da porta Montana, sterrandosi infine nell’aperta campagna.
Un paesino tranquillo dove tutti si conoscono e sono pronti a darti una mano in caso di bisogno.
Sì, a volte una sassaiola tra quelli di porta Valliva e quelli di porta Montana che tuttavia non lasciava tracce durevoli, e amici come prima.
Tanto che tutti insieme si usciva poi, il lunedì di Pasqua, per la scampagnata fuori porta, o si collaborava per la preparazione della festa patronale.
Le cose, è vero, erano un po’ cambiate da qualche anno in qua, e ci si guardava a volte con qualche sospetto, soprattutto fra gli abitanti di via Ventotto Ottobre e quelli di tutti gli altri rioni.
Non grandi cose tuttavia, e finché non arrivavano quelli di città, si riusciva ancora a respirare.


[continua]


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