Le parole inutili (Fatti e misfatti di scuola)

di

Francesco Gambellini


Francesco Gambellini - Le parole inutili (Fatti e misfatti di scuola)
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 224 - Euro 15,50
ISBN 978-8831336130

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In copertina: «Eureka!» immagine ideata e concessa da Maria Gabriella Quercia, artefice impareggiabile e magica di ogni tipo di vetro


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è finalista nel concorso letterario Jacques Prévert 2019


La Scuola dovrebbe affrancare l’uomo
dalle paure, dalle solitudini e dai mille
condizionamenti ch’egli si porta dentro
dalla nascita. Ma in tanti anni io non
ho mai visto uscire dai suoi banchi un
uomo libero, se non il ribelle, il sognatore,
l’anticonformista.


Tu che hai avuto la fortuna di frequentare una scuola, ricorda che più vasta e profonda è la cultura che ne hai derivato, proporzionalmente più grande è la tua responsabilità nei confronti di quanti ti capiterà di incontrare.


Introduzione

Nei lunghi giri randagi per le campagne del mio paese di rado sedendosi per una sosta su un tronco o su una roccia d’improvviso affioranti, mio nonno amava parlare.
Io m’accucciavo lì presso, stordito dai profumi della stagione, e guardavo l’erba carezzata dal vento che vi trascorreva leggero piegandola a onde, e mi pareva che il mare fosse così, io che non l’avevo mai visto.
Un mare d’erba solcato da improbabili navi che seguivo rapito fin dove il prato scoscendeva nella valle; e giù, al centro, salvo quasi da un naufragio sul suo zatterone di tufo c’era il mio paese con le arcigne torri baronali.
“Quelle, mi diceva mio nonno, erano tanto più alte quanto più i signori che le abitavano erano potenti… che ora non ci sono più da secoli. Solo i piccioni le frequentano eterni, i soli padroni veri di quelle come di tutte le torri del mondo”.
Ma quand’io mi perdevo dietro a una farfalla o al guizzo verde d’un ramarro, allora d’improvviso diventava d’un umor malinconico, e tracciato un cerchio sulla terra v’appuntava al centro il bastone (che portava nelle sue passeggiate più per compagnia che per necessità), e lo vorticava con mano esperta ma oramai del tutto inconsapevole, perso dietro chissà quali pensieri…
Ed io, sopraggiungendo inavvertito, lo coglievo così a guardare nel cerchio, e mi domandavo che ci fosse lì dentro; che potesse vederci egli che non aveva viaggiato oltre la linea di quell’angusto orizzonte.
Ora lo so, credo.
Delle tante domande che in lunghi anni m’hanno assediato, solo questa ha forse avuto una risposta. E se traccio un cerchio sulla sabbia, io, che pur avendo percorso cammini diversi non ho viaggiato più di mio nonno né meno d’un esploratore di mestiere, ci vedo gli stravolgimenti, le allegrezze, i furori, i profumi, le voci, i piccioni servi (chi vola sulle torri più basse?), i sogni, gli inganni…
Per questo, se il tempo non t’incalza, e se vuoi, ti racconterò le storie chiuse nel mio cerchio che, come quello di tutti gli uomini, è sempre straordinario, anche quand’è immobilità, cecità o silenzio.

Francesco Gambellini


Le parole inutili (Fatti e misfatti di scuola)


LE PAROLE INUTILI
(fatti e misfatti di scuola)

Attero, bislaccheria, crepìdine; cerca, genera, ribellati, sogna, vola…
Per ore questa notte ho frugato il vocabolario cercando la parola liberatrice, salvifica e definitiva. Ma c’è? Sono mesi che me lo domando: il verbum risolutore che ci scampi. “Libera nos a malo”… Da noi?
Da trent’anni il mio mestiere è di giocar con le parole; da quando entrai nella mia prima classe.
Trent’anni possono parere molto lunghi; ma io non ne sento il peso, e se qualche volta m’assale il brivido della vecchiaia non è per il passare del tempo.
Anche stamani, dopo la fatica della notte, sento il passo pesante mentre nel gelo del primo mattino m’avvio verso la scuola.
Gli attori di sempre: operatori ecologici che immolano i grassi cassonetti alla fame dell’auto-molock, il cane incimurrito fermo lì accanto in circospetta osservazione, scolari senza fretta che assediano pizzerie troppo anguste; e nuvole: una fuga di nuvole che sorvola i tetti della città intirizzita in una piega della valle.
Una strada che cammino da sempre, sempre scoprendola nuova con interminata meraviglia. La noia deve essere una condizione dello spirito, una specie di malattia del pensiero ch’io non ho mai avuto. Cieco e immobile in una stanza sono certo che vorrei vivere.
Ma gli altri? Già, gli altri. Vorrei morire allora; per amore.
All’ingresso c’è il preside che in apparenza sorride e saluta cordiale, e invece controlla la puntualità di alunni e professori.
Non me. Non mi sento controllato neppure quando, di rado, m’accade d’arrivare in ritardo. Ma la mia, in questa scuola, è una posizione di privilegio.
Gli altri devono patire quel sorriso con un sottile fastidio. È più del disappunto dell’impiegato che timbra il cartellino fuor d’ora, direi un disagio preciso (per di più occorre rispondere per celare l’imbarazzo avvertito) cui è difficile sottrarsi; diventato quasi rituale non lo si discute più, come la pioggia, il sole… Si sente che c’è, e basta. Ci si abitua a convivere anche con le mosche.
Le chiavi delle aule, numerate con scrupolo, sono esposte in bell’ordine su un tavolo appositamente previsto, e gli insegnanti vi si servono come a un self-service prima di dirigersi verso i gruppi vocianti dei ragazzi in attesa che, secondo le regole, dovrebbero essere file ordinate e sommesse come di pensionati agli sportelli delle poste. Eppure sono pieni di vita! E ci vorrebbero porte e finestre sempre aperte perché i loro sogni non patissero l’angustia delle pareti; o un insegnante che facesse piroette, e non i severi custodi delle regole che quasi sempre finiamo per essere.
“Tu dovrai trovarti in classe all’ora stabilita, con la tua soma di libri penne matite e strumenti vari! Compiti ben fatti, e se vorrai…”
“Posso portarmi una rondine?” Ti accendi.
Ma che ti salta in mente? Non è permesso l’ingresso agli animali… Solo noi possiamo. E poi ti distrarrebbe. E questo è contro le disposizioni. Non devi muoverti dal tuo banco! Non devi parlare se non sei interrogato! Non devi mangiare se non nel tempo stabilito! “Ma posso respirare?” Tu azzardi.
Certo che sì! O chi resterebbe per osservare le regole? Fior di cervelli (lo sai?) si sono reclutati per confezionartele; giorni e giorni è durata la fatica. E tu vorresti non respirare? DEVI! Lo devi allo sforzo generoso di quanti hanno sacrificato il loro pur breve tempo per il tuo bene; per farti crescere rispettoso degli altri e delle norme che, devi ammetterlo, sono indispensabili al convivere.
E non ridere! “Risus abundat in ore stultorum” Un altro cervello quello lì!
Un cervello in latino. Perciò non ridere.
Non ridere più come uno sciocco!
Eppure cominciò con un ridere infrenabile, quel giorno di tanti anni fa.
Era il primo giorno di scuola del mio primo anno di lavoro. Quando me l’avevano proposto, l’avevo accettato recalcitrando, confusamente sentendolo un addio alla mia lieve giovinezza; e cercavo ragioni per rifiutarlo. Ma tutti si congratulavano con me, alleati in una strana congiura, e lieti.
Confuso finii per ringraziare, benché vagamente sentissi che da lì uscivo più vecchio.
In classe m’accompagnò un anziano vicepreside, voce rauca e baffi autorevoli, che, dopo una rapida presentazione, mi lasciò solo quasi a tradimento.
Erano trenta ragazzini, fermi innaturalmente nei banchi, che mi osservavano con diffidente curiosità. Quel loro silenzio impenetrabile mi metteva a disagio: la sensazione fastidiosa d’essere in trappola. E c’era un sole tenero quel giorno di novembre, e l’odore delle piogge recenti, e il fremito del vento appena visibile sulle cime dei frassini lontani. Desiderio improvviso d’essere altrove, e il profumo stordente dei funghi: “Non rovinare quelli che non conosci. – Diceva mio padre – C’è gente che li mangia. Noi è perché non li conosciamo”.
Ma allora erano buoni o velenosi?
Intanto i ragazzi mi guardavano con ansia crescente; quasi preoccupati, ecco!
Avevano paura: a un tratto lo vidi con chiarezza.
“Paura, eh?” Provai a sorridere allora.
Furono come sollevati dall’avere scoperto che in qualche modo parlavo. Ma già avevo bell’e finito. Nient’altro da dire… proprio nient’altro; e sentivo dentro, e lì nel cervello, un vuoto totale.
Trovare un modo per uscirne!
“Anch’io… – Mi sentii dire impacciato – è il primo giorno di scuola.
Non l’ho fatto mai, vi giuro. Come voi. E abbiamo paura, nevvero?”
Fu quel plurale a spuntarla. Allora sorrisero con gli occhi a un tratto pieni di cielo; poi, nel silenzio non ancora vinto, salì il riso prima discreto poi sfrontato d’un ragazzino segaligno e minuto.
E subito gli altri risero; e tutti ridemmo senza ritegno, finalmente liberati.
Aveva occhi piccoli e grigi, e si chiamava Nessuno, vittima di paterni omerici amori. Non sono mai riuscito a chiamarlo col suo nome, subito appigliandomi a quello di Suno che i suoi compagni, per brevità e per solidarietà istintiva, gli avevano racconciato. Da allora è sempre lì, di fronte a me, ogni primo giorno di scuola: robusto, gracile, pauroso, sfrontato, timido… Sempre lui: Suno.
Io no; le bave dei giorni m’hanno lasciato una trama sottile di rughe e capelli oramai più bianchi che grigi. Per contro però sono affiorate, chissà da dove, sicurezze insospettabili in quel ragazzo lontano che non respirava per non dar fastidio, e cercava sempre l’angolo più segreto quasi per farsi perdonare d’essere vivo.
Fu in quegli angoli, ricordo, che cominciai con sottile piacere a sentirmi diverso; e i giochi dei miei coetanei non mi chiamavano più, oramai in fuga io per altre strade, con una sensazione indicibile di leggerezza per luoghi non raggiunti dai divieti, dai precetti e da tutte le altre astruserie del vivere insieme. Solo e splendidamente libero, le voci intorno si facevano lontane, opache, inconoscibili, anche se avessi voluto udirle. Ed io non volevo, non volevo ascoltarle, con nessuno disposto a condividere quel mio rifugio; e che pena quando n’ero richiamato, tratto giù come da un cordone ombelicale mai interrotto che impastoiasse il mio sogno per ricondurlo a forza fra le cose, nell’ordine stabilito, dove tutto aveva un suo posto e le voci riprendevano forza e autorità.
Suno aspetta ancora ch’io parli, sempre, ad ogni inizio d’anno; ma io indugio, perché il timore sottile che gli s’è appigliato allo stomaco da quando io sono entrato, affiori e si precisi in ansia.
“Perché? – Gli domando allora. – E di chi? Di me?”
Mio povero amico! La sorte ci ha voluto compagni di viaggio; tutto qui. E andando io ti racconterò le mie storie, e tu m’insegnerai i tuoi sogni. Questo devi sapere: insegneremo e impareremo insieme. Tu dirai che sarò io a insegnare, perché sono vecchio, e tu a imparare, perché sei giovane; ma credimi, i vecchi non insegnano mai; pontificano, stabiliscono, ordinano, dispongono, decidono. Insegnare è altra cosa; sono più spesso i giovani a farlo. Ricordi i versi lontani:

“Il bambino smise di giocare
e parlò al vecchio come un amico.
Il vecchio lo udiva raccontare
come una favola la sua vita.
Gli si facevano sicure e chiare
cose che mai aveva capite1…”

E chi spiega al poeta che cosa sia il cavallo:

“Seppi cos’è il cavallo
sol quando vidi la bambina in rosa
tirare in riva al prato il suo balocco
di cartapesta sulle ruote lucide,
lasciar cadere il filo, alzare il dito
e dirgli: Adesso mangia2!”

“Ma non erano vecchi costoro – tu dici – quando scrivevano i loro versi?”
Non crederci! Le poesie si scrivono a dieci anni. A sessant’anni si scrivono trattati; ma le poesie, come la musica, si scrivono sempre a dieci anni.
Così di noi due, quando le nostre strade torneranno a dividersi, chi sarà in credito sarai probabilmente tu. Perciò ti prego, dammi la mano. Aiutiamoci a vivere! Perché da soli, né tu né io forse riusciremmo a farlo. Eccoti dunque la mia. Andiamo?
“Ma tu mi racconti una storia?”
“Certo! Ti racconterò, dunque, la storia dell’uomo.
C’era una volta, tanti e tanti anni fa quanti a fatica riusciamo a immaginare… Anzi: non c’era una volta la cocacola, e neppure la discoteca rombosonante, e per quanto appaia incredibile, nemmeno il televisore.
Ma fin dove l’occhio arrivava c’erano felci straordinariamente verdi e crete e argille multicololori, e foreste e laghi sorrisi da un tenero sole e vegliati da una luna molto molto più grande di quella dimenticata che sale le nostre notti.
E c’era l’uomo, pieno di paure e di fame e sempre a caccia di prede fin dove arrivava quel mondo vergine di confini. E tutto era suo perché niente era suo.
Suno m’interroga muto. Gli pare assurdo quello che io ho detto; e la domanda è lì nei suoi occhi, irresoluta e incapace di trovare al momento formulazione.
Perché egli non sa da dove vengono le mie parole.

Mio padre era un uomo senza studi, ma amico del leggere e con chiara attitudine alla speculazione filosofica. Quando il suo lavoro lo lasciava libero, amava fare lunghe passeggiate per le strade di campagna attorno, e portarmi con sé per avere una sorta di uditore a quelli ch’io sospetto fossero sostanzialmente soliloqui. Le sue mete preferite erano i cimiteri; vi trascorreva da una tomba all’altra avido leggendo gli epitaffi, mettendomi ora in guardia contro la loro enfasi celebrativa, ora commovendosi per un aggettivo o un volo pindarico che gli pareva particolarmente ardito e fascinoso. Io lo seguivo nella luce rosa-viola (non so più se reale o aggiunta dal tempo) di quel vagare filosofico-poetico, e mi commovevo a mia volta più per imitazione che per vero coinvolgimento.
Aveva sempre una storia da raccontare, perché per il suo lavoro conosceva tutti, e di tutti i fatti anche i più segreti. La farmacia dove lavorava come “pratico” era, allora, il luogo d’incontro delle personalità e dei personaggi locali, e vi s’intrecciavano senza fine le storie più nascoste, fino a comporsi in una sorta d’affresco o di saga paesana di cui egli finiva per avere una conoscenza precisa e minuziosa.
Ne raccontava a volte con divertita condiscendenza o con pietà vera, secondo le circostanze per ammaestrare o per sorridere.
Di queste storie appunto erano ricche le nostre passeggiate. Pareva che ne avesse dentro, in agguato, un numero inesauribile, pronte a saltar fuori appena un incontro, il guizzo d’una lucertola, il cadere d’una foglia gliene dessero occasione
Fu proprio durante uno di questi nostri vagabondaggi senza tempo che lo incontrammo: veniva avanti sbilencato dal peso ineguale di due bisacce gonfie di cavolfiori e di verdure; e quando ci fu presso, si fermò al saluto di mio padre e, posate a terra le bisacce, respirava corto e strozzato dall’asma.
Subito dopo la guerra era venuto forse da Napoli (a giudicare dall’accento) e aveva trovato rifugio in una grotta ai margini del paese, che aveva per così dire arredata con mobili e oggetti recuperati nelle discariche e racconciati alla meglio. Per qualche tempo lo si sospettò reduce da un soggiorno nelle patrie galere graziato da un bombardamento compiacente. Ma non faceva male a nessuno e le voci tacquero presto. Certo era di un pallore singolare e sconciato nella figura come un vecchio tronco d’ulivo. Aveva un’età indefinibile e una serie di malanni che lo portavano con qualche frequenza in ospedale; lì, l’aria buona e il mangiare da re lo rimettevano in forze e lo restituivano bell’e nuovo alla sua vita randagia. Riappariva così ogni volta tra la gente che finì per adottarlo col nomignolo affettuoso di Rieccolo.
“Da dove vieni?” Gli domandò mio padre. Rispose d’aver appena raccolto cavoli e verdure dai campi d’un suo zio.
Io stavo buttando foglie in un fosso scoperto lì presso, e sentivo mio padre ridere divertito; fino a che, sparite le ultime mie barche sul filo dell’acqua, Rieccolo non c’era più.
Ma quando di lì a qualche mese, incontratolo ancora per tutt’altra strada, rispose alla curiosità di mio padre d’essere stato a riempire le bisacce nel campo di suo zio, a me che domandavo stupito:
“Ma quanti zii ha Rieccolo?” Mio padre rispose ridendo di gusto che tutti erano suoi zii, e che lui, al finire delle scorte destinate alla sua fame, le ricostituiva dai campi dovunque si trovasse a passare, nessuno essendosene mai lamentato; e che, anzi, c’era a volte chi interveniva per arricchirle con qualche uovo o con un pane.
Per tutto quel giorno non ebbi più desiderio di giocare; e mi pareva straordinario il caso di quell’uomo che, nudo com’era, era padrone di tutto il mondo fin dove arrivava il cielo, e ne poteva disporre a sua discrezione come il re delle favole.
Da allora il pensiero che il possesso delle cose ci impoverisce, trovata verifica nel vivere d’ogni giorno, fu convinzione profonda che da sempre cerco di trasmettere, con le parole più intuibili e chiare, a ragazzi spesso conquistati dalla singolarità della tesi, ma incapaci di credere, essi che non hanno mai conosciuto Rieccolo.

Il problema è appunto questo: di fargli credere vere le mie storie. In fondo il segreto è tutto qui. L’insegnante ideale era il nonno, prima che morisse.
Accanto al fuoco nelle lunghe sere d’inverno o vagabondo per strade e sentieri raccontava di maghi e di avventure con pause sapienti e complici toni ammiccanti; perché credeva nei maghi e nell’avventura, e raccontava il vero.
La scuola no! Racconta spesso il falso: e questo è il suo limite.
“Per tre giorni e tre notti Enrico IV imperatore restò in ginocchio sulle nevi di Canossa mercé gridando al terribile Ildebrando…”
“E tutto questo senza manco una volta andare al cesso?” Tu dici, ingenua creatura insipiente. E quando mai imperatori papi e guerrieri hanno ceduto a bisogni corporali? Felicemente stitici per antico privilegio, ma incredibili, da imparare a memoria come tutte le cose che non si amano e che è urgente dimenticare al più presto
Raccontare il quotidiano dovrebbe, non l’eroico! Perché la vita è per lo più il quotidiano della gente senza cronaca che non si trova mai agli appuntamenti fatali della storia per faccende di cesso, come tutti i poveri del mondo. E i re, che ne sono immuni, appartengono a una soprarrealtà troppo lontana per essere vera. Più credibili gli orchi che già addosso all’incauto viandante, presi da infrenabile diarrea sostano con urgenza e danno scampo al malcapitato oramai senza fuga.
Perché mai non credere che la formica che trasporta il suo chicco di grano muove in realtà un granello della storia del mondo?

“Tebe dalle sette porte chi la costruì?…”
Siamo seri! I re certamente, ma non senza i muratori; e finché non daremo a costoro il posto che gli compete, la storia è meglio non la raccontare. O si induce nel lettore la convinzione che non potrà mai conquistare neppure l’ombra d’un orticello egli che a sostare è sforzato dalla sua natura senza privilegi. Se ne fa così un nanerottolo convinto di non poter rovesciare il mondo, come è già quando si schermisce: “Che posso fare da solo? Niente! Io che eternamente ho bisogno di cesso. Posso andare, professore?”
Vai! Vai pure, figlio di questa scuola fatto e sputato!

La strada m’ha sempre raccontato le sue storie: foglie avvorticate in risucchi di vento, ritagli di cielo catturati dalle pozzanghere, gridi d’uccelli, veli d’acqua digredienti sull’asfalto, richiami, branchi di cani ustolanti… Io me ne appropriavo con ingordigia, fermandomi un poco quand’era necessario, o rallentando il passo quanto bastava; poi ne discorrevo tra me variamente per tutto il resto della strada fino a scuola. E lì non ci pensavo più.
Perché lo facessi non so; senza dubbio nessun fine pratico mi muoveva. È però certo che di lì a qualche giorno o a qualche mese, mi rispuntavano fuori nel bel mezzo d’una lezione ordinate in una storia. Così fu quella mattina.
Era più tardi del solito. Una giornata di nuvole basse, filtrando la sua luce pigra attraverso le imposte aveva faticato non poco a richiamarmi dal sonno; e ora, determinato io ad arrivare in tempo per non dover chiedere scusa ai ragazzi, procedevo in fretta, e solo per caso vidi la bambina che se ne stava accovacciata di là dalla strada, col suo gran peso di libri accanto, attenta a qualche cosa che non capivo: “Poi fanno tardi!” Pensai.
Ma anche gli insegnanti fanno tardi, e allora non c’è rimedio.
Alla svolta della strada mi girai curioso: la bambina era ancora lassù, attorta in terra e immemore.
Solo dopo una mezz’ora, uscito dall’aula per non so più che urgenza, me la ritrovai davanti, appena arrivata, ingobbita sotto la gragnola verbale del preside che le intimava infine di aspettare nell’atrio l’inizio della prossima lezione.
Quando l’avvicinai si leccava proterva le lacrime che le scivolavano fino agli angoli delle labbra sottili. “Che cos’è successo? – Le domandai – Ti ho visto ferma per la strada. Avevi perduto qualcosa?” Senza guardarmi rispose di no scuotendo appena il capo.
Con tenerezza le riavviai uno sbuffo di capelli che l’accecava. Si sottrasse ostile.
“O ti eri fatta male?” L’incoraggiai.
Disse ancora di no, disperatamente ostinata e sola; e a me non restò che lasciarla.
Di lì a qualche giorno però, chiamato in una classe per una supplenza, la rividi in un banco troppo grande per lei, minuta e vispa come un gattino tutto guizzi e baleni.
Era certo di tutt’altro umore, e me ne sentii incoraggiato a riprendere il discorso. “Toh! Chi si rivede! La bufera è passata, a quanto pare. Ma dimmi! (perch’io sono rimasto con una gran curiosità) Quel giorno…” La tentai cattivante. M’era parso che quella ciocca di capelli ricondotta allora al suo posto con delicata carezza non avesse per nulla scalfito l’ostilità della bambina; ma il riso complice con cui ora mi rispondeva diceva chiaramente il contrario.
Disse che era stato per una formica incaponita a traversare la strada, e che c’erano automobili veloci, e che ogni volta che piegava verso il centro, lei, facendole schermo con la mano, la riconduceva pazientemente a lato; e che alla fine, resasi conto del passare del tempo, l’aveva presa portandola al sicuro nel prato di là dalla strada.
Questa era la storia.
Mai ritardo aveva avuto giustificazione più straordinaria di quella; e noi non avevamo capito, solo preoccupati d’iniziare la bambina al valore della puntualità.
Questo eravamo riusciti a fare: a costruire un orologio con le ceneri di un’entomologa, o forse, ed è peggio, d’una poetessa.
“Ma lei non ha spiegato al preside il motivo del suo ritardo!” Tu dici.
Oh, come cieca già la tua incipiente schiavitù!
Ella rifiutò di spiegarcelo intuendoci incapaci di capire; questa è la verità.
E se proprio vuoi saperlo, ti dirò che la storia ha una coda: di lì a qualche giorno dunque, la bambina procede, non più leggera come farfalla, verso la scuola, e s’imbatte ancora nella formichina più che mai incaponita a traversare.
“Ciao. – La provoca vibrando con malizia le antenne – Io attraverso.”
Ella si ferma, con i suoi sei orologi (tre al polso sinistro e tre al destro); li consulta pensierosa, e faticosamente decide che è già tardi oramai.
Ma la formica piega graziosamente il capo in atto di sfida: “Io corro di là – dice esagerando – e tu non m’acchiappi.”
“E io invece ti prendo.” Cede già la bambina chinandosi…
Ma l’orologio al quarzo, il più autorevole fra tutti, l’ammonisce severo: “tu, tu, tu”.
La formica, giocherellona e felice si lancia nel fremito della corsa, già presagendo la tenera mano che la porti a volo sull’altra sponda.
“Tu, tu, tu…” Incalza feroce l’orologio.
E la bambina allora riscuotendosi, all’improvviso non vuole più giocare, non sa più, forse; ed è seria e determinata quando alfine la schiaccia correndo poi in trionfo verso la scuola.
“No! – Tu protesti. – Sei un bugiardo! Non è vero che ha schiacciato la formichina!”
Hai ragione, mio testardo sognatore. Infatti non è vero.
Ma è verosimile, però.

[continua]

Note

1 Franco Fortini “Il Bambino che gioca”.

2 Corrado Govoni “Seppi cos’è il cavallo”.


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