Opere di

Francesca Romana Bonzanin

Con questo racconto è risultata 9^ classificata – Sezione narrativa alla VI Edizione del Premio di Scrittura Creativa dedicato a Lella Razza 2010


«Pensione Pinetta»

Il guardaroba di Elsa rispecchiava la sua vita. I vestiti erano ordinati secondo il colore e i maglioni, perfettamente impilati, parevano un arcobaleno visto in un televisore degli anni Sessanta. Nero, antracite, grigio scuro, fumo, cenere, perla, bianco. Non c’era traccia di tinte accese e vivaci in quell’armadio, così come di emozioni nelle sue giornate. Elsa aveva appena compiuto cinquant’anni, ma già da tanto tempo si sentiva vecchia.
Aveva rimandato troppo a lungo quel momento: avvertiva l’esigenza di fare un bilancio della sua esistenza. Guardaroba e vita erano cambiati di pari passo, perdendo i colori da quando aveva rinunciato a costruirsi una famiglia, a coltivare le sue passioni e l’abitudine aveva avuto il sopravvento sull’entusiasmo. Anche nella sua piccola casa immacolata aveva eliminato ogni traccia di colore. La tovaglia coi papaveri rossi, la sua preferita, era stata rimpiazzata da un’altra a fiorellini neri, per non parlare delle pareti di un grigio spento e anonimo! Non poteva certo stupirsi se la sua vita fosse di una noia mortale! Poteva prendersela solo con sé stessa: come aveva potuto scambiare luce ed emozioni con un deprimente bianco e nero?
Solo un barlume di colore era sopravvissuto a quella spietata epurazione e dal fondo del corridoio, in cui l’aveva relegato, ora la richiamava come un grido di vita accesa nel mezzo di una landa deserta. Era il quadro che le aveva regalato la sua amica Patty tanti anni prima. Un’esplosione di gioia, proprio com’era lei. Lo fissò a lungo, come se non l’avesse mai visto prima, poi lo staccò dalla parete e lesse la dedica sul retro della tela: “Estate 1979 – Affinché tu non possa mai dimenticare, Patty”. Abbracciò il quadro come per stringere a sé l’amica che le mancava da troppi anni. Scortò solennemente il dipinto in salotto, staccò una delle tante stampe in bianco e nero e lo appese al centro della parete più luminosa. Seduta sul divano, lo ammirò per ore in completo silenzio, quasi ipnotizzata.
Ruppe l’immobilità con uno scatto, animata da una forte concitazione. Frugò in un cassetto, poi nella libreria finché non trovò la vecchia rubrica che stava cercando. Aveva conservato il numero della Pensione Pinetta sin da quella lontana estate, covando sempre il desiderio di tornarvi, ma senza trovarne mai il coraggio. Le faceva paura viaggiare da sola, chissà in quanti pericoli sarebbe potuta incappare. Esitò a telefonare e quando si decise a farlo, rimase in silenzio, col fiato in sospeso per parecchi secondi ad aspettare una risposta.
Il numero risultava inesistente. In un istante tutta l’energia che l’aveva infervorata svanì, lasciandola in lacrime, inginocchiata con la rubrica sgualcita aperta tra le gambe. Era ancora capace di piangere. Non aveva mai pensato che la pensione potesse aver chiuso i battenti. Aveva coltivato l’illusione che quel posto fosse rimasto immutato esattamente com’era nei suoi ricordi di ragazza: una piccola pensione a conduzione familiare in mezzo ai campi di grano e papaveri, alle pioppete a scacchiera, ai piccoli ruscelli e allo stagno animato da oche e papere. E che meraviglia il profilo delle colline coperte di fitti vigneti!
Tornò sconsolata in camera da letto e, nell’armadio lasciato aperto, vide in bella mostra la valigia che non usava da anni. La aprì, la riempì e la portò fin dietro al portone di casa. Si sistemò, chiamò l’ufficio per avvisare che prendeva qualche giorno di permesso, anzi tutta la settimana, chiuse porte e finestre e partì.
Una volta in viaggio si rese conto dell’impulsività del suo gesto e fu assalita da mille dubbi. Non sapeva nemmeno dove andare a dormire: cosa avrebbe fatto una volta arrivata a destinazione? Sentì con certezza di essersi comportata da stupida: non aveva più vent’anni, non poteva certo rendersi ridicola con un simile colpo di testa. Cercò di scendere dal treno, ma ormai era già partito. Avrebbe dovuto aspettare la prima stazione per poter tornare indietro. A casa. Alla vita in bianco e nero.
A quel pensiero decise di rischiare. Avrebbe trovato sicuramente un altro albergo dove alloggiare. Si rimise compostamente a sedere e attese trepidante la sua fermata.
Stentò a credere ai suoi occhi: se non fosse stato per l’obliteratrice gialla e per le nuove diavolerie tecnologiche che avevano infestato la piccola stazione di campagna, poteva sembrarle di essere tornata indietro nel tempo. I vasi di margherite accoglievano gli stanchi viaggiatori come tanti anni prima e la deliziosa fontanella era sempre funzionante. Si incamminò attraverso l’assolato paesino alla ricerca di un alloggio. Per prima cosa doveva pensare a sistemarsi, solo dopo avrebbe potuto lasciarsi trasportare dai ricordi.
Le sue gambe si rifiutarono di obbedirle e marciarono spedite fino alla Pensione Pinetta nella speranza di trovarla ancora aperta. La delusione nel vederla completamente abbandonata, con le finestre oscurate da logori fogli di giornale e il giardino soffocato da rovi ed erbacce, fu enorme. Anche lo stretto sentiero che portava allo stagno era divenuto impraticabile. Dopo essersi impigliata più volte tra ortiche e cespugli spinosi, rinunciò a malincuore a tornare su quel bel laghetto e riprese la strada principale con l’aria di chi ha perso qualcosa di prezioso e lo cerca lungo il ciglio erboso. Attirò così l’attenzione di due bambini in bicicletta che si offrirono di darle una mano, ma Elsa rispose che nessuno poteva aiutarla a ritrovare ciò che aveva perso. I due bambini, pur ritenendo stravagante quella signora forestiera, la accompagnarono allegramente ad un agriturismo del paese, dove Elsa fu accolta come una regina. Si sdebitò coi bambini con un grande gelato e assicurandosi così la compagnia dei suoi nuovi piccoli amici per tutti i pomeriggi della settimana a venire.
Il proprietario dell’agriturismo si dimostrò molto amichevole e ciarliero tanto che Elsa fu presto informata, senza nemmeno chiedere, di ogni particolare del funerale della povera Signora Pinetta, avvenuto quasi tre anni prima.
Ogni giorno Elsa camminava in lungo e in largo per il bel paese tranquillo e per la lussureggiante e variopinta campagna circostante, cercando di evitare la strada che portava alla pensione abbandonata, ma inspiegabilmente ogni volta si ritrovava a passarle davanti con il cuore stracolmo di amarezza. L’ultimo pomeriggio della sua breve vacanza decise di provare ad entrare all’interno dell’edificio per vedere come fosse ridotto. Trovò aperta la porta della cantina, risalì circospetta la scala interna e si infilò nel vecchio albergo come una ladra in una gioielleria. Con sua grande sorpresa vide che niente era cambiato. I caldi ed accoglienti colori delle pareti, delle tende e dei divani s’intravedevamo nella cappa di polvere e fitte ragnatele che li avevano ricoperti. I tavolini nella sala da pranzo erano ancora perfettamente apparecchiati e le chiavi delle stanze appese nella bacheca di legno dietro al bancone d’ingresso.
Presa da un inspiegabile impeto, cominciò a pulire ogni angolo della vecchia casa, aprì le finestre per far entrare di nuovo la luce e rifece i letti nelle camere al primo piano. Già quella stessa sera la Pensione Pinetta era quasi tornata al suo aspetto originario. Specchiandosi per caso nel vetro di una credenza si rese conto di assomigliare ormai più alla vecchia proprietaria che non alla giovane ragazza che aveva trascorso lì le sue vacanze estive con l’amica del cuore.
Il tempo l’aveva cambiata fino a spegnerla e, pur non avendo mai accettato che la sua vita fosse così ordinaria, non aveva fatto nulla per cambiarla. Aveva sognato i colori e i profumi di quel posto per trent’anni, come un caldo miraggio all’orizzonte a cui aggrapparsi nei momenti bui, ma anche quel paradiso era stato sopraffatto dal grigiore del tempo. Avrebbe voluto sostituirsi alla Signora Pinetta, acquistare la Pensione con tutti i suoi risparmi, lasciare il suo lavoro in ufficio e recuperare il bel quadro di Patty dalla sua casa di città. Lo avrebbe appeso dietro al bancone per dare il benvenuto agli ospiti. Finalmente vedeva la vita di nuovo in technicolor!
Tuttavia si rese conto in fretta che quello non era il suo posto: avrebbe rubato i sogni e la vita di un’altra persona, rinnegando ancora una volta i suoi più veri e intimi pensieri. Chiudendo dietro di sé la porta e guardando le stelle dal patio del vecchio albergo, Elsa capì che era finalmente una donna pronta a ricevere ciò che la vita aveva tenuto in serbo per lei. Era libera di sorprendersi con l’entusiasmo e l’energia della giovinezza e di guardare il mondo attraverso quella sensibilità che aveva affinato negli anni. Non era troppo tardi.
Mentre camminava per i campi rigogliosi tra lucciole e stelle, avvertì che non sarebbe più tornata in quel luogo incantato. Non aveva più bisogno di un miraggio a cui aggrapparsi per sopravvivere. Sorrise tra sé e sé, chiuse gli occhi e corse a perdifiato tra il grano dorato. Con un papavero tra i capelli stava dando l’addio al passato.

Francesca Romana Bonzanin


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