ID( R )A-Il sogno di Chiara Parola (Francesca Falchieri)


Salerno, Edizioni “Il Grappolo”, 2002


PREMESSA DELL’AUTRICE

Una sera, nella sala d’aspetto di una stazione, ho incontrato una ragazza singolare. Era alta, il suo cappotto blu faceva risaltare il biondo dei suoi capelli e i suoi occhi azzurri le conferivano uno sguardo enigmatico. Aveva un’aria talmente smarrita che mi sono permessa di avvicinarmi a lei e di chiederle: “ Ti senti male? Hai bisogno di aiuto? “.

“ No, sto ascoltando l’altoparlante della stazione. Ogni volta che decido di tagliare la testa al toro, o meglio all’idra, e di cominciare una nuova vita in una nuova città, faccio così: me ne vado in una stazione per ascoltare questa voce metallica, che per me è come la voce del destino, perché mi suggerisca una nuova destinazione. Ah, lo sai che in castigliano la parola destino ha il significato di meta, destinazione? “.

Poi ha cominciato a rovistare dentro alla sua borsa troppo piena, in cui non riusciva a fare entrare un pacco di fogli scritti a mano, finché ha esclamato:

“ Oh! Questi proprio non ci stanno. Adesso li butto via “.

“ Ma no! Piuttosto dalli a me. Di cosa si tratta? “.

“ Sono delle vecchie lettere, che ho scritto alla mia cara amica Verbana, alla quale non ho mai avuto il coraggio spedirle “.

Quindi si è alzata come per andarsene, ma io l’ho trattenuta dicendo:

“ Aspetta! Dimmi almeno il tuo nome! “.

“ Ida di fuori, Idra di dentro “.

“ Sei davvero così viziosa? “.

“ Ma no! Non sono mica l’Idra di Lerna. Io, amando moltissimo l’acqua, i fiumi e i laghi, sono Idra in senso più propriamente idrico che mitologico. Ma lo capirai meglio leggendo queste lettere, se ne hai voglia. Comunque un vizio ce l’ho: il vizio di scrivere”.

Quindi se n‘è andata ed è salita su di un treno, di cui non ho pensato di guardare la destinazione.


Bologna, 7 gennaio 1992

Era un uomo, sì, ne sono sicura: era un uomo. Poteva assomigliare a mio padre, ma i suoi capelli erano più bianchi, gli occhi erano azzurri e non neri come quelli di papà. E poi vi era soprattutto un aspetto a distinguerlo da mio padre: aveva… le ali. Due enormi ali scure, era per metà uomo e per metà uccello e io lo cavalcavo, standogli sulla groppa. Volavamo sopra delle montagne e delle colline verdeggianti, abbiamo volato a lungo, finché non abbiamo raggiunto una città attraversata da un fiume e bagnata da una distesa d’acqua che poteva essere un lago o il mare.

A questo punto vicino a noi è apparsa una donna-uccello, dal corpo di cicogna e dalla bionda chioma. Le abbiamo chiesto: “ Ci possiamo tuffare? “ e lei ha risposto: “ Sì, adesso sì, l’acqua è tiepida “.

L’uomo-uccello ha allora cominciato a planare, fino ad immergersi in quelle acque tiepide, mentre mi stringeva a sé con le sue ali. Provavo una sensazione meravigliosa e indescrivibile, con la quale mi sono svegliata, sentendo ancora quel tepore sulla pelle.

Cara Verbana, questo è il sogno che ho fatto questa notte, alla vigilia della mia partenza da Bologna per Ginevra. Sento che è un sogno importante, perché precede una data importante: domani è il giorno in cui lascerò forse per sempre la mia città natale, per costruire autonomamente la mia vita lontano dai miei genitori. Il sogno mi ha così colpito che, appena sveglia, ho sentito il bisogno di dirtelo e, non volendo telefonarti alle quattro del mattino, ho cominciato a scriverti; è la prima volta che lo faccio.

Nell’ Interpretazione dei sogni, Freud afferma che quei sogni in cui si vola, si cade, si nuota, ripetono impressioni dell’infanzia, vale a dire si riferiscono a quei giochi di movimento che esercitano sul bambino una straordinaria forza di attrazione. I bambini chiedono instancabilmente la ripetizione del gioco, soprattutto se comporta un po’ di spavento e di vertigine; anni dopo ne creano la ripetizione nel sogno, tralasciando le mani che li hanno sorretti, per cui volano e cadono liberamente. È il divertimento dell’infanzia che si ripete nei sogni del volare, del cadere, della vertigine. Freud propone anche un’interpretazione erotica dei sogni di volo.

Sognare di volare è come voler staccarsi dal proprio corpo, cioè dalla materia. Gli psichiatri parlano a questo proposito di “proiezione astrale”, un’esperienza nel corso della quale la coscienza del sognatore, superiore al fisico, sembra lasciare il suo corpo. Il termine “ astrale” si riferisce ad un secondo corpo, situato all’interno del corpo fisico e composto da energia sottile. Questo corpo astrale, o anima, può separarsi dal fisico e volare liberamente, sopravvivendo alla morte.

Nel Fedro di Platone compare la trascendenza delle ali: “ La forza dell’ala sta, per natura, nel poter innalzare e condurre ciò che è pesante verso le altezze popolate dalla stirpe degli dei. Di tutte le cose che riguardano il corpo, le ali sono quelle che maggiormente partecipano al divino “. Il mio sogno esprimerebbe dunque il mio desiderio di sollevarmi e sottrarmi all’involucro carnale che mi trattiene in questa vita inferiore.

Io attribuirei al mio sogno soprattutto un significato liberatorio nei confronti dei miei genitori. Volare significa essere liberi, avere la forza di ubbidire alla propria legge interiore anche quando va contro la volontà e i pregiudizi degli altri. Si tratta dunque di un sogno augurale per quanto riguarda la mia conquista della libertà, nella quale sarò aiutata da un uomo, la cui identità ora ignoro. Sono proprio curiosa di sapere chi è l’uomo del mio sogno.

Quanto alla donna-cicogna, potresti essere tu, dati i capelli biondi. Tu, insostituibile confidente e amica, sei stata più di una madre per me. Mi hai dato tanto sostegno e conforto e mi hai aiutato ad uscire dall’anoressia quando, quattro anni fa, sono venuta ad abitare sola in questa casa, che dista solo una rampa di scale dai miei. Mi dispiace lasciare Bologna solo per te; infatti da Ginevra non potrò telefonarti spesso, per ovvi motivi economici, e dovremo così interrompere l’abitudine delle nostre lunghissime telefonate .

Ma ti scriverò, vedrai: la lontananza non ostacolerà il nostro rapporto che, d’altronde, è stato un’amicizia di voci al telefono, al di fuori di ogni corporeità . Ci siamo viste poche volte, non trovi? È come se, anche nell’amicizia, io abbia rifiutato il corpo, quel corpo da cui vorrei separarmi volando libera nel cielo.

Tutto il bene che mi hai fatto veniva esclusivamente dal tuo dire, dalle tue parole allegre e rumorose, che agivano nelle zone più silenziose e riposte della mia interiorità. Con una sorta di arte maieutica e soprattutto con le tue risate, mi hai fatto capire qual’era la forza da cui dovevo trarre la voglia di vivere: l’ironia. Ridere, sorridere di me stessa e degli altri: questa è diventata la mia arte di vita.

Al telefono hai sempre voluto che io ti parlassi di letteratura e che te la “insegnassi” ( così dicevi ), o meglio che te ne dessi una mia interpretazione. Tu, invece, mi parlavi di pittura e dei tuoi quadri vivacemente colorati, che io non ho mai visto, che forse non vedrò mai e che vedevo con l’immaginazione grazie alla tua descrizione, alla tua parola. Tu, cara Verbana, per me sei stata prima di tutto una voce amica e delle parole, quei verba che sono contenuti nel tuo nome.

E da ora in poi sarai uno stimolo alla parola scritta, una motivazione alla scrittura, che per me è fonte di piacere. Sì, perché ora, nello scriverti, sto provando un’indescrivibile sensazione di piacere, analoga a quella con cui si è concluso il mio sogno, piacere che fino ad oggi solo lo studio dei testi letterari e l’ascolto della musica classica mi ha dato. Tu sai bene come io abbia sempre rifiutato i comuni piaceri della vita, concentrandomi nello studio della letteratura, che è tutta la mia vita.

Ma, per tornare al mio sogno, che secondo me ha un valore premonitore, da esso ho capito che troverò il massimo del piacere e la felicità in una città bagnata da un fiume, un lago o il mare. Io amo moltissimo l’acqua, che simboleggia la vita: il latte, la linfa e il liquido amniotico sono come acqua, origine e veicolo di ogni forma di vita e centro di rigenerazione. Il senso materno dell’acqua è una delle più chiare interpretazioni simboliche della mitologia. Secondo Jung, nei sogni il mare o qualsiasi distesa d’acqua abbastanza vasta, designa l’inconscio. L’aspetto materno dell’acqua coincide con la natura dell’inconscio nel senso che quest’ultimo può essere considerato come la madre, la matrice della coscienza: l’inconscio ha, come l’acqua, un significato materno. Non è forse vero che mer e mère si confondono in francese, secondo la classica associazione freudiana di questi due omofoni?

L’acqua, però, come tutti i simboli, presenta un’ambivalenza totale: essa è fonte di vita, ma anche distruttrice. Lasciarsi trasportare dalle acque dell’interiorità può portare dei pericoli: le acque non solo possono agitarsi, ma anche trasformarsi in neve e in ghiaccio. La mia anoressia è stata come una valanga o come un fiume in piena, simboli di sfogo, di ribellione delle acque della mia interiorità in rivolta: un’esplosione del represso, dell’inconscio, di una sofferenza che si è tenuta dentro troppo a lungo.

L’ossessione di un corpo perfetto e la ricerca della linea non sono assolutamente stati la causa della mia anoressia. Fra i miti della mia giovinezza non vi erano attrici, modelle, cantanti e pop star, ma anoressiche che diedero prova di attivismo servendosi delle loro doti intellettuali: una militante come Simone Weil, scrittrici come Elizabeth Barrett-Browning, Virginia Woolf e Karen Blixen. Tutte donne per le quali la qualità della vita veniva prima della sopravvivenza.

Ora mi viene in mente quella dieta che feci a Milano Marittima, all’età di diciassette anni., durante la quale si manifestò la mia prima anoressia; non la feci spontaneamente, ma fui invitata da mia madre. A Milano Marittima quell’estate erano andate in vacanza molte amiche della mamma, alle quali lei voleva mostrare una figlia in perfetta linea; per questo mi esortò a dimagrire. In un primo tempo io non vi riuscii e allora mia madre mi picchiò: l’unico schiaffo che ho ricevuto da lei è stato perché ero troppo grassa. Cominciai allora una dieta ferrea che mi fece perdere una decina di chili in un’estate.

Ho ricevuto un solo schiaffo anche da mio padre. Fu quando facevo la scuola elementare, perché avevo preso cinque. Cominciai allora uno studio accanito, che mi rese la prima della classe per molti anni. Ho accettato meglio lo schiaffo di mio padre rispetto a quello ricevuto da mia madre: per papà è importante l’essere, per mamma l’apparire.

Per tornare ancora al sogno di questa notte, esso ha molti punti in comune con le parole della canzone che canto sempre tutte le sere prima di addormentarmi. La ascoltai per la prima volta molti anni fa, quand’ero ancora bambina, e mi piacque molto. Da allora, cominciai a canticchiarla ogni sera, un’abitudine che non mi ha mai più lasciato. Comincia così:

Seguire la scia di un aeroplano.

Vedere il volo di un gabbiano.

E la mente torna a sognare

un’onda e un cielo blu.

Voglia di andare via,

voglia di libertà...

Saranno quindici anni che io tutte le sere ripeto quest’inno alla libertà, mentre la mia immaginazione crea visioni aeree e acquee senza fine.

Ma ora è venuto il momento di prendersi la libertà, così a lungo desiderata: non vedo l’ora di partire. Vado a Ginevra per un dottorato di ricerca: mi sono laureata un mese fa e ho una gran voglia di continuare i miei studi. A dire il vero, un dottorato potrei farlo anche all’Università di Bologna, ma non voglio e ora cercherò di spiegarti il perché.

Tutto è cominciato circa un anno fa. La mia anoressia era ormai superata da tempo, lo studio mi dava grandi soddisfazioni e, con l’abitare da sola, credevo d’aver risolto almeno parzialmente i miei problemi con mamma e papà: ero abbastanza felice. Poi mamma mi disse di conoscere una signora, che si diceva amica carissima della professoressa relatrice della mia tesi, a cui già allora stavo lavorando con foga. Mamma aggiunse che io, se lo avessi voluto, avrei potuto “sfruttare” questa sua conoscenza per ricavarne eventuali “agevolazioni”. Risposi sdegnata che non avevo bisogno del suo aiuto e che, nella vita, ogni successo volevo conquistarlo con le mie sole forze. L’argomento non fu più toccato né da mamma né da papà ma, da quel giorno, non sono più stata tranquilla.

Più volte è capitato che la mia professoressa si sia complimentata con me, per i capitoli della tesi che man mano le presentavo, ed io ogni volta l’ho attribuito non alle mie capacità, ma alla “raccomandazione” di mia madre, che penso abbia agito a mia insaputa. Figurati cosa ho pensato quando la professoressa mi ha proposto, per l’anno prossimo, un impiego come lettrice d’italiano in una università canadese, proposta che fortunatamente non ha avuto seguito.

Così, un mese fa ho avuto il sospetto di essermi laureata in lingue con 110 e lode, non per i miei meriti, ma per la conoscenza di mia madre, che continua a negare il fatto. Ho ancora bene in mente il giorno dell’esame di laurea. Era evidente l’opposizione tra l’emozione dei candidati e l’atteggiamento dei professori, che stavano lì come per il disbrigo di una pratica burocratica, tanto si sapeva come sarebbe andata a finire. Gli altri laureati presenti, all’uscita dal colloquio, sono stati attesi da fotografi e da folle di parenti e amici, con corone di fiori e d’alloro: sembrava la premiazione del Giro d’Italia.

Io invece non ho voluto nessuno a festeggiarmi: dopo la discussione, sono uscita sola e me ne sono andata a passeggiare sotto la pioggia. Pensavo: “ Sì, è vero, in tutti questi anni di trenta e trenta e lode ne ho presi molti, ma sono certa di non essermi meritata questo 110 e lode “ e, dopo aver versato qualche lacrima: “ Non importa, partirò. Non so dove, ma me ne andrò. Là dove potrò farmi valere per le mie capacità, là dove inizierà la mia storia, dove crescerò: tutto diventerà nuovo, sarò un’altra, sarò donna “.

Così, ho subito preso contatti con diverse università straniere per iscrivermi a un dottorato di ricerca o a un diploma post-laurea. Ginevra è l’unica università in cui mi sia possibile continuare i miei studi da subito, ad anno accademico inoltrato. A dire il vero, preferirei studiare a Parigi, ma lì potrei iscrivermi solo fra un anno e non voglio aspettare così tanto.

Così parto per Ginevra domani: i miei genitori mi danno i soldi. La mamma voleva impedirmi di partire, ma papà ha detto: “ Lasciamola andare “. Sapendoli così iperprotettivi e possessivi e temendo che mi telefonino continuamente o che mi vengano spesso a trovare, non ho detto ai miei che vado a studiare a Ginevra, ma a Grenoble.

Ho sempre amato le bugie: amare la menzogna significa anche amare la finzione, l’illusione, il sogno, tutto ciò che non è reale. È per questo motivo che la stessa letteratura può essere considerata come una menzogna. Ecco perché, se consumata in dosi eccessive nel periodo dell’adolescenza come è accaduto a me, la letteratura può essere pericolosa per la formazione della personalità, in quanto può fornire all’adolescente una rappresentazione irreale del mondo che lo circonda.

Mi sono occupata io della spedizione a Ginevra di ben sei valige piene non solo di vestiti, ma soprattutto di libri. Ho spedito così tanti bagagli perché, pur avendo promesso a mamma e papà che starò via solo qualche anno, ho in progetto di non tornare mai più a Bologna: troppi brutti ricordi mi legano a questa città.

Potrei dire che la mia anoressia è stata una rivolta contro le mie origini, contro Bologna “la grassa”, famosa per la cucina prelibata. Inoltre Bologna è troppo piccola e provinciale per i miei gusti: io amo le metropoli internazionali come Parigi, Londra, New York, e anche Ginevra, nel suo piccolo, non dovrebbe essere da meno. Quando andai a New York, the big apple con il suo melting pot of cultures mi sembrò un concentrato del mondo. Mi piaceva moltissimo camminare per le strade newyorkesi, mescolandomi alla folla: mi sentivo parte dell’umanità intera, come una goccia d’acqua in un grande mare, e ciò mi aiutava a minimizzare i miei problemi.

E poi, amando molto l’acqua, a Bologna sento la mancanza di un fiume, di un lago o del mare, la cui vista mi appaghi come in un sogno.


8 gennaio 1992

Cara Verbana,

ti scrivo dal treno che mi sta portando a Ginevra; mentre esso avanza rapidamente, io mi sento sospinta con forza indietro, verso il passato. I ricordi sfilano velocemente nella mia mente, accavallandosi disordinatamente.

Nel mio scompartimento sono arrivati dei giovani punk, dai capelli variamente colorati e con orecchini al naso. Mi guardano malissimo, forse non approvano il mio abbigliamento da collegiale inglese, il mio cappotto blu e il mio collettino bianco. Vorrei dire loro: “ L’abito non fa il monaco. Malgrado le apparenze, anch’io sono in rivolta contro i matusa, come voi “.

L’anoressia, infatti, è stata la mia forma di rivolta giovanile. Mi rivedo anoressica quando, otto anni fa, all’età di sedici anni, abitavo con i miei genitori. Rifiutando il cibo, era come se rifiutassi la mia dipendenza economica da mamma e papà. Ai sotterfugi e alle menzogne, di cui le ragazze spesso si servono per incontrare il proprio ragazzo o per star fuori la sera fino a tardi, io ricorrevo per mangiare di meno. I miei genitori non potevano lamentarsi della loro figlia unica, la prima della classe, che non usciva mai la sera, che non chiedeva mai soldi se non quelli per i libri. A dire il vero io avevo capito che si sentivano molto più tranquilli a sapermi, nei momenti di svago, fuori a praticare sport piuttosto che chiusa in camera a leggere un romanzo, perché il libro a volte è pericoloso per la formazione della personalità di un giovane. In effetti, le mie letture mi inducevano a interrogarmi con angoscia sul significato della mia esistenza, a chiedermi: “ Che senso ha vivere? “, una domanda che ha assillato tutta la mia giovinezza.

Comunque il cibo fu un pretesto per far nascere una battaglia fra me, mia madre e mio padre, una lotta avente le sue radici in una profonda incomprensione tra noi. In realtà, si trattava non di un fatto alimentare, ma di un problema di rapporti tra genitori e figli. Per me l’anoressia era un modo di sfuggire al controllo che mamma e papà volevano esercitare sulla mia alimentazione, rappresentante emblematicamente tutta la mia vita. Attraverso il rigido controllo del cibo, avevo l’illusione di dominare la mia situazione familiare e affermare me stessa.

Ora mi metto a ricercare le cause della mia anoressia ancor prima, nella mia primissima adolescenza, caratterizzata da un malessere esistenziale. Non avevo mai avuto il coraggio di confessare la mia sofferenza ai miei genitori, avevo tenuto sempre tutto dentro, lasciando poi che fosse l’autodistruzione del mio corpo a parlare. Mi rivedo adolescente, quando mi sentivo oppressa dal mare degli oggetti che mi circondavano, quasi annegata nella materia. Molto prima dell’anoressia, cominciai ad essere affetta da tutta una serie di nevrosi, di rituali compiuti per rassicurarmi nei confronti degli oggetti. La mia nausea per il cibo ha dunque le sue origini in una sorta di nausée sartriana. L’anoressia, d’altronde, è un rifiuto della materia, della parte materiale dell’essere umano: il corpo. Ho vissuto il controllo sul cibo come la capacità di dominare la carne a favore dello spirito. Cominciai a sentir la necessità di leggere mentre mangiavo, come se volessi procurarmi un nutrimento spirituale, in compensazione al nutrimento per il fisico, e quest’abitudine non mi ha più lasciato.

Adesso nello scompartimento è entrata una donna incinta; mi piace immaginare che fra lei e il suo bambino ci sia un dialogo. Forse solo quand’ero nel suo ventre, io ho osato dire a mia madre: “ Ti prego, mamma, lasciami essere me stessa. Considerami non come il tuo prolungamento, ma come un essere autonomo, dotato di una sua personalità “.

Io sono figlia unica, nata da una figlia unica. Mia madre voleva instaurare con me lo stesso rapporto di completa fusione che lei aveva avuto con suo padre, ma io non potevo accettare tale compenetrazione. Volevo agire autonomamente, staccarmi da lei, dal suo controllo, prendendo possesso di me stessa, ma non sapevo come reagire, essendo debole. D’altronde non potevo rimproverare nulla a mia madre, se non il fatto di amarmi troppo. Nel suo amore per me, vi erano forti componenti di narcisismo: lei amava se stessa in me, considerandomi come la sua creazione e la sua continuazione.

Se nell’amore vi è una fusione di cuore e corpo, nell’amore tra me e mia madre vi è sempre stata una profonda dicotomia. Mamma si è sempre preoccupata eccessivamente del mio corpo, della sua salute, quand’ero bambina, della sua bellezza, in seguito. Per reazione, dunque, io rifiutai il mio corpo, in un primo tempo quasi staccandolo da me stessa e considerandolo come proprietà privata di mia madre, successivamente distruggendolo con l’anoressia.

Mi veniva chiesto spesso: “ Stai bene? “ e mai “ Sei felice? “. Così fin da bambina acquisii una concezione della malattia come forma masochistica di rivolta. Infatti quand’ero malata mi sentivo felice, come se in quel momento riuscissi finalmente a vanificare gli sforzi di tutti coloro che mia madre aveva incaricato di operare per la salute del mio corpo: la nonna materna, cuoca, responsabile della mia alimentazione sana; la nonna paterna che, quando uscivo, mi accompagnava sempre, perché non andassi a finire sotto un’automobile o non sudassi, correndo con gli altri ragazzini; il nonno esperto nel costruire leggii, alzare od abbassare tavoli, secondo le necessità del mio dorso curvo e della mia scoliosi; la professoressa di ginnastica pagata per controllare che facessi bene la ginnastica in casa mia; la zia sarta che confezionava per me abiti e maglioni su misura, commissionati da mia madre, che aveva scelto per me il classico stile inglese, mentre io gli avrei preferito quello di Benetton.

Mi viene in mente anche il fastidiosissimo busto per la scoliosi che dovetti portare e che mi costringeva a tenere il collo sollevatissimo, rendendo rigido ogni mio movimento. Mi sentivo un automa, il robot di mia madre, una jeune fille-machine, per dirla con La Mettrie, manipolata dalla mamma un po’ come si fa coi burattini di legno. Tuttavia, io non mi ribellavo perché non sentivo il corpo come mio: esso apparteneva a mia madre che lo aveva generato e continuava a proteggerlo e curarlo. Il cuore invece era mio, insieme alla mente, da mettere alla prova nello studio.

Poiché entrambi i miei genitori lavoravano tutto il giorno, io passavo la maggior parte del tempo con i miei nonni, che amavo moltissimo. È da loro che ho ricevuto l’educazione durante l’infanzia; mentre i miei genitori mi hanno soffocato, sono i nonni che mi hanno educato, inculcandomi una grande serietà e un forte senso morale. Io ho poi tradotto quest’ultimo in una morale interiore, concepita come fedeltà al proprio io e alla propria interiorità: un’obbedienza a ciò che detta il cuore, anche se va a scapito del corpo.

Avrei tanto desiderato intraprendere studi musicali e scivolare mollemente su di una tastiera di pianoforte, ma mi fu impedito dalla mamma, perché suonare “fa diventare gobbi”. Furono così sacrificate le mie aspirazioni al culto del bello di mia madre, la quale metteva in pratica fino all’estremo limite il precetto greco “ Bello è buono “. Mi diceva: “ Una ragazza deve essere quella delle tre B: brava, bella e buona “. Invece, io vorrei essere quella delle infinite S, una lettera aperta che tende all’infinito come una spirale. L’esse di Studio, Subconscio, Sentimenti, Sensazioni, Sensibilità, Simboli, Scrittura. La Scrittura con la sua iniziale apre molte Speranze, perché può aiutare a trovare la Salute psichica e interiore. La mia S non è l’iniziale di Soldi, così importanti invece per mia madre, una ragioniera estremamente materialista, che mi ripeteva spesso che “ un figlio è un investimento “.

Il rapporto tra me e mio padre non è mai stato difficile come quello con mia madre; non posso rimproverargli nulla, se non il fatto di non avere mai avuto la forza di opporsi alle decisioni prese dalla mamma nei miei confronti. Vi è infatti una profonda differenza tra mia madre e mio padre: mentre per mamma io rappresento la sua creazione, papà, pittore dilettante, ha trovato nella pittura un altro modo per creare.

La differenza tra mia madre e mio padre l’avevo capita fin dalla prima infanzia. Mamma, che ha sempre avuto poca fantasia, non sapeva raccontarmi le favole, mentre papà non solo le raccontava, ma riusciva anche ad inventarle. Ve n’era una che mi piaceva moltissimo e che trattava delle avventure di un signorotto medievale, avente ben trentasei figli, di tutte le grandezze e le età. Mio padre aveva compreso, come aveva fatto Swift nei Viaggi di Gulliver, che il bambino è particolarmente sensibile al rapporto tra il piccolo e il grande, che riflette la sua posizione nei confronti degli adulti. Il signorotto non aveva un harem, non era uno sceicco; come avesse potuto avere tanti figli non era mai precisato da mio padre, dal quale non ho mai ricevuto un’educazione sessuale. Ma forse sarebbe più appropriato affermare che, anziché trentasei figli, il signorotto ne avesse uno solo con trentasei teste, come un’idra. E chi rappresentavano per mio padre quei trentasei figli se non io, di cui papà, ancora molto giovane, avvertiva tutto il peso e la responsabilità di padre?

Mi rivedo bambina, ridere insieme a papà delle avventure dei trentasei figli e del nostro “lessico familiare”. Io e mio padre abbiamo degli aspetti in comune, come l’amore per il ludismo verbale e per la musica. È papà che mi ha educato all’ascolto dei grandi classici, che da tempo accompagna le mie giornate di studio.

La musica è così diventata un elemento insostituibile della mia vita, che è essa stessa un componimento musicale, con dei leitmotiv che si intrecciano a creare agglomerati dai rapporti sempre più ricchi: i leitmotiv della vita o vanno parallelamente o si mescolano, si sovrappongono, si respingono come in un campo magnetico. Credo profondamente nella capacità terapeutica della musica, che può aiutarci a trovare un benessere ritmico ed armonioso, in accordo con noi stessi e con gli altri; tutti insieme alla ricerca d’una maggiore armonia comune.

Oltre alla musicoterapia, credo anche a una sorta di “letteraturoterapia”: la letteratura mi ha aiutato molto ad uscire dalla crisi in cui ero sprofondata con l’anoressia. È stata proprio la letteratura ad insegnarmi l’ironia e a farmi vincere la mia “nevrosi da tempo”. Da adolescente, la constatazione del passare del tempo mi angosciava, ma le mie letture in seguito mi hanno fatto comprendere l’esistenza di un tempo interiore e soggettivo, che non è quello degli orologi. Basti pensare non solo a Proust e alla sua Ricerca del tempo perduto ma anche a Mallarmé, per il quale lo spazio e il tempo sono contigui all’io letterario costruito dalla scrittura; a Balzac, per il quale il tempo si identifica con il desiderio; a Supervielle, per il quale il tempo e lo spazio sono popolati da frammenti disseminati di ricordi.

Oltre alla “letteraturoterapia”, sto cominciando a credere nel potere terapeutico della scrittura, avente la funzione di sfogo, chiamiamola “scritturoterapia”. Trascorro la maggior parte del mio tempo in silenzio, un silenzio ove trovano posto paure, tentazioni, desideri: un mare di pulsioni non verbalizzate, ove i sentimenti sono segni oscuri non decodificati. La scrittura ha la funzione di raccontarli, di fare entrare il codice metafisico e astratto del silenzio nel codice della lingua: è come far passare l’oceano in un ruscello.

La letteratura mi ha avviato alla conoscenza di me stessa, della mia interiorità e del mio inconscio: leggere un’opera letteraria significa portare il proprio subconscio a contatto con quello dello scrittore. I miei studi letterari, però, mi hanno condotto finora ad un eccessivo isolamento e ripiegamento interiore.

Ma ora basta, voglio dimenticare le crisi passate e cominciare una nuova vita. Senza mai abbandonare la letteratura, da cui vorrei continuare a ricavare gli strumenti per affrontare il reale, voglio vivere una vita che mi appartenga, non dipendente in tutto e per tutto dai miei genitori. Voglio fare nuove esperienze e incontri, vedere nuovi luoghi e paesaggi, come quello che mi sta offrendo il finestrino di questo treno.

Ora Ginevra si fa sempre più vicina, il treno sta infatti costeggiando il lago Léman. Amo moltissimo il lago, un cielo liquido, l’occhio della terra: forse è la distesa d’acqua del mio sogno, forse qui comincia la mia vera vita.


Ginevra, 15 gennaio 1992

È lo zampillo più alto del mondo. Eccolo lì, a porre la mia vita sotto il segno dell’acqua. È il simbolo di Ginevra, come la Tour Eiffel lo è di Parigi. Mi piace osservarlo sotto la pioggia e sotto i fiocchi di neve. È il terzo che gli ingegneri hanno messo a punto, dopo avere prodotto involontariamente il primo alla fine del secolo scorso. È un bellissimo pennacchio assai largo, capace di turbinare e di palpitare. Ogni volta che lo guardo, mi sento invitata ad ubbidire alla mia voce interiore, allo zampillo che Idra fa uscire da dentro di me.

“ Ma Idra chi è? “ ti starai chiedendo, cara Verbana. Idra sono io, è il mio doppio, la parte più vera e più autentica di me stessa. Nominalista come sono, ho voluto dare un nome a questo mio doppio: mi è bastato aggiungere una r liquida al mio nome, che già non mi dispiaceva. Ida, infatti, è un nome di origine germanica che significa “lavoro” : quel lavoro che io desidero tanto, perché potrebbe rendermi indipendente e quindi distaccarmi dai miei genitori.

Idra è un nome ancor più significativo per me: se, come sostiene Jung, l’acqua simboleggia l’inconscio, Idra rappresenta la parte più interiore di me. Quando abitavo a Bologna, vicino ai miei genitori, Idra poteva esprimersi solo negli spazi apertimi dal sogno o nei “paradisi artificiali” offertimi dalla letteratura.

Ma da quando ho lasciato Bologna, Idra ha cominciato a vivere una vita propria. Così, negli ultimi tempi, mi sta accadendo un fatto singolare: mi sdoppio, mi stacco da me stessa e mi guardo vivere, a tal punto che non riesco più a parlarti di me in prima persona. Da adesso in poi, dunque, ti racconterò, con quell’ironia che tu stessa e lo studio della letteratura mi hanno insegnato, le avventure di un personaggio di nome Idra, una ragazza ventiquattrenne arrivata da poco a Ginevra.

Le mie lettere ti sembreranno polifoniche: alla voce mia cioè di Ida Bonfiglioli, che ti sto scrivendo a posteriori, a una sia pur breve distanza temporale dagli avvenimenti narrati, si alternerà quella di Idra, nei suoi rapporti verbali con gli altri.

Di Idra ti riferirò anche i pensieri, nell’immediatezza del loro nascere. Cercherò di farti immergere nel suo flusso di coscienza, fatto di ricordi, emozioni, riflessioni, visioni e fantasmi, liberamente associati, con collegamenti di idee emerse dal suo subconscio. Io non sono un Joyce, non sono maestra della tecnica del monologo interiore, e i monologhi di Idra non avranno il massimo dell’immediatezza e dell’imprevedibilità. Non avrò la pretesa di ricreare le incoerenze dello psichismo, e i soliloqui di Idra, pur nella loro spontaneità, non saranno totalmente privi di organizzazione logica: Idra pensa un po’ come scriverebbe.

Ma come farai tu a distinguere l’io di Ida, soggetto scrivente, dall’io dei monologhi interiori di Idra? Ti renderò facile il compito con l’uso del colore. Ho deciso infatti che scriverò le parti comprendenti le riflessioni e i flussi di coscienza di Idra con la penna azzurra, in opposizione al nero: è una convenzione fra noi due. Dunque, ricorda, cara Verbana: ciò che scriverò in azzurro non sarà mai detto, ma solo pensato da Idra, in quel particolare momento.

Non ho scelto per caso questo colore: l’azzurro è il colore del cielo, del mare e dunque dell’acqua, tanto amata da Idra. E non sei stata tu, parlandomi dei tuoi dipinti, a farmi amare i colori? Forse non ti ho mai detto che, nella mia adolescenza, quando leggevo un romanzo io usavo i colori. Sottolineavo con diverse matite colorate ogni tema o motivo ricorrente: ad ogni colore corrispondeva un tema e l’associazione che vi stabilivo era inconscia. Avevo infatti un approccio tematico alla letteratura, e sono dei temi che ora vedo intrecciarsi nella mia stessa vita.

Io credo nel linguaggio dei colori e nel valore pittografico della scrittura, che può fondersi alla pittura. Tutta la vita organica è caratterizzata da un intenso ciclo energetico di strutture colorate, alle cui vibrazioni anche l’uomo è sottoposto. Le vibrazioni dei colori precisano le qualità psichiche dell’individuo e la conoscenza del loro simbolismo ci permette di controllare meglio le nostre emozioni e i nostri pensieri.

Tu sai come io mi senta distaccata dalla realtà materiale, dalle cose che mi circondano e che guardo con un occhio diverso da quello comune. Forse è per questo che mi piace tanto l’azzurro, che è il colore più immateriale: in natura è presente come trasparenza, fatto cioè di vuoto ( vuoto dell’aria, vuoto dell’acqua, vuoto del cristallo ). L’azzurro è il colore più profondo: lo sguardo vi affonda senza incontrare ostacoli e si perde all’infinito, come se il colore si sottraesse indefinitamente.

L’azzurro alleggerisce le forme di un oggetto, le apre, le disfa. Una superficie dipinta d’azzurro non è più una superficie, un muro azzurro cessa di essere un muro. I suoni e i movimenti, come le forme, svaniscono nell’azzurro, vi annegano, si dileguano come un uccello in cielo. In sé immateriale, l’azzurro smaterializza tutto ciò che si avvolge in esso. È la via dell’infinito dove il reale si trasforma in immaginario.

Entrare nell’azzurro è passare dall’altra parte dello specchio, un po’ come Alice nel paese delle meraviglie. Quando è chiaro, l’azzurro conduce a fantasticare e quando diviene più scuro, porta al sogno. Il pensiero cosciente svanisce lentamente in favore di quello incosciente, come la luce del giorno insensibilmente diventa luce della notte. Regione dell’irrealtà, o della sovrarealtà, l’azzurro assorbe in sé le contraddizioni, le alternanze che scandiscono la vita umana, ad esempio quella del giorno e della notte.

Ed eccola lì Idra, con i suoi occhi azzurri e il suo cappotto blu, e piena di speranze per il suo futuro, al suo arrivo a Ginevra. Appena uscita dalla stazione, prende un taxi e dice al taxista: “ All’Hôtel du Lac “.

“ Lei ha un accento che mi è familiare, signorina, da dove viene? “.

“ Dall’Italia “.

“ Anch’io sono di origine italiana. Mio padre era sardo. E lei da quale città viene? “.

“ Da Bologna “.

“ È a Ginevra in vacanza? “.

“ No, sono venuta per studiare. E vorrei pure trovare un lavoro “.

“ Ah, un lavoro. Tanti italiani l’hanno trovato qui. Ma da un po’ di tempo non è più così facile. Nel cantone di Ginevra, per combattere la disoccupazione, adesso ci sono delle leggi molto dure contro gli stranieri. Possono lavorare a tempo pieno a Ginevra solo gli stranieri che hanno un permesso C. È il suo caso? “.

“ Io non ho nessun permesso “.

“ E allora deve andare subito al Contrôle de l’habitant. Il permesso C ce l’hanno quelli che come me vivono a Ginevra da almeno dieci anni “.

“ Non è il mio caso. È la prima volta che vengo a Ginevra. Io devo cercare subito un monolocale in affitto. Come sono gli affitti qui? “.

“ Carissimi. Tutta la vita è molto cara a Ginevra e soprattutto per chi viene dall’Italia: il cambio è sfavorevole. Quanto può spendere lei? “.

“ Non più di 500 Franchi al mese “.

Devo spendere pochissimo. Ho pochi soldi e non voglio tornare tanto presto a Bologna per chiederne ancora. Non posso mica dire a mamma e papà che me li spediscano. Loro li manderebbero a Grenoble!

“ Secondo me per quella cifra lei a Ginevra non trova niente. Le conviene cercare nelle zone francesi confinanti con la Svizzera, a Ferney o ad Annemasse: lì i prezzi sono molto più bassi.

Ed ora eccoci arrivati all’Hôtel du Lac. Le auguro un buon soggiorno a Ginevra, signorina. Le lascio il mio indirizzo, così, quando si è sistemata, se vuole venire a trovarmi mi farà un grande piacere: io, mia moglie e i miei figli saremo felici di accoglierla. Potrebbe dare qualche lezione d’italiano commerciale ai miei figli ! “.

“ Le materie commerciali non sono mai state il mio forte, ma vedrò di fare quello che posso. La ringrazio tanto, arrivederci “.

“ Arrivederci “.

Così il giorno seguente Idra, grazie ai consigli del taxista, dopo qualche telefonata alle agenzie immobiliari, riesce a trovare per un affitto molto basso un monolocale ad Ambilly, una località francese molto vicina alla frontiera svizzera, fra Annemasse e Ginevra. Si reca subito a vedere l’appartamentino, che non le piace: è arredato miseramente, in una vecchia casa, in una zona assai squallida. Tuttavia lo prende ugualmente in affitto, visto il basso prezzo.

La lontananza non impedisce ad Idra di recarsi spesso a Ginevra, che le piace moltissimo, dominata com‘è dall’acqua. Infatti due fiumi vi si congiungono: l’Arve e il Rodano che, dopo avere attraversato il lago Léman, ritorna alla sua forma di fiume. Il corso d’acqua costituito dall’insieme lago-fiume rappresenta l’arteria principale di Ginevra e divide la città in due, da un lato la Rive Droite moderna con la Cité internationale, dall’altro la Rive Gauche, i cui quartieri si estendono a partire dal nucleo della città vecchia.

Quest’ultima è la parte della città che Idra preferisce e ci va spesso a passeggiare. Le piace recarsi nella piazza Bourg-de-Four, nel cuore della vecchia Ginevra, dove avevano luogo le fiere nel Medio Evo. È circondata da negozi di antiquariato, gallerie d’arte, caffè e da vecchie case, alcune delle quali hanno conservato le loro insegne di locande. Quando Idra si trova lì le sembra di respirare un’aria diversa, di essere riportata indietro nei secoli.


Torna alla homepage dell'autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine