I miei elzeviri - Passeggiando fra testi antichi e moderni

di

Fiorangela D'Ippolito


Fiorangela D'Ippolito - I miei elzeviri - Passeggiando fra testi antichi e moderni
Collana "Koiné" - I libri di Religione, Filosofia, Sociologia, Psicologia, Esoterismo
12x17 - pp. 96 - Euro 10,10
ISBN 88-8356-458-8

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PREMESSA

Il presente volume raccoglie articoli pubblicati fra il 1999 ed il 2002 su alcune riviste (“Helios Magazine” e “Oggi Famiglia”, a titolo di collaborazioni gratuite.

Il filo conduttore dei vari pezzi è rappresentato dalla centralità dei testi letterari e da una idea diacronica della letteratura stessa.
Infatti, molte volte si sono voluti rintracciare quegli elementi che legano il passato al presente in rapporto di continuità o di opposizione. Altre volte ci si è soffermati, invece, sull’analisi di una singola opera, per coglierne, quando possibile, una particolare sfumatura o interpretazione.

Il taglio degli articoli, come si noterà dalla lettura, è vario: si va dalla breve riflessione su un testo o su un tema alla dissezione scrupolosa di un’opera; cambia anche il tono dell’esposizione, da quello divulgativo a quello scientifico.

Ben tre degli articoli riguardano la storia della medicina, in quanto questo è stato ed è ancora uno dei principali campi di ricerca a cui mi sono interessata sin dai tempi universitari. Altri articoli sono nati dalla lettura appassionata e coinvolgente di alcune opere (è il caso dei romanzi di Pavese o della “Storia” della Morante), altri ancora dal desiderio personale di approfondire alcuni motivi ricorrenti nella letteratura antica e moderna.
Uno dei testi qui presentati ha, inoltre, ricevuto il 1° premio per la saggistica presso il concorso nazionale S. Bernardo 2001 (“La solarità in D’Annunzio e Montale”).

Dalla lettura degli articoli si potranno non solo ricavare interessanti spunti di approfondimento o di riflessione a livello personale, ma anche individuare elementi e percorsi da utilizzare in ambito didattico.


INTRODUZIONE

Prima di addentrarsi nella lettura, ritengo utile presentare qui, brevemente, il contenuto degli articoli, affinché sia più agevole per il lettore “passeggiare” fra i testi.

Saffo, fr. 16 V.:
“la cosa più bella è ciò che si ama”

(da Helios Magazine, 4, 1999)

In una delle sue odi più belle e significative, la poetessa di Lesbo spiega quale sia il valore più importante per lei: l’amore, secondo Saffo, è ciò che vivifica l’uomo, e non la guerra, come, invece, voleva l’etica dell’epos e dell’aristocrazia guerriera del tempo.

“Perché le disgrazie capitano agli uomini buoni, dal momento che c‘è la provvidenza?” (Seneca): il problema del male nella filosofia antica

(da Oggi Famiglia, 4, 2000)

Seneca cerca di rispondere all’eterna domanda dell’uomo: se c‘è Dio, perché c‘è il male? E perché il male capita proprio ai buoni e agli innocenti? Raccogliendo l’eredità delle filosofie ellenistiche, Seneca, col suo De Providentia, influenzerà il pensiero dei Padri della Chiesa, e non solo, per quanto riguarda il concetto del male nel mondo come prova di fedeltà a Dio da parte degli uomini.

La medicina e le donne nella Grecia classica

(da Helios Magazine, 1, 1999)

Il Corpus Hippocraticum ed altri testi della letteratura greca ci forniscono interessanti dati sul rapporto, nella Grecia classica, fra il sapere delle donne, costruito dall’esperienza personale, e quello ufficiale del medico basato su teorie per lo più aprioristiche: un rapporto spesso polemico e non di collaborazione, che ha contrapposto due mondi e due modi d’interpretare la realtà.

La dimensione ultraterrena: rapporti fra Platone, Cicerone e Dante

(da Oggi Famiglia, 6, 2001)

Il topos del viaggio nell’oltretomba è certamente uno dei più noti e ricorrenti nelle letterature antiche e moderne. Qui, in particolare, si vogliono sottolineare quegli elementi di continuità fra Platone, Cicerone e Dante riguardo alla visione dell’aldilà ed evidenziare come la rappresentazione della dimensione ultraterrena abbia delle precise corrispondenze con l’interpretazione della realtà della polis, dell’urbs e del comune medioevale.

Il topos della iniziazione poetica da Esiodo a Ennio

(da Helios Magazine, 5, 1999)

Un motivo caro a molti autori antichi
è quello di render noto ai lettori il modo in cui si è manifestata la propria vocazione poetica, una vocazione di origine divina, per lo più, in quanto il poeta vuole sacralizzare la sua missione e rivestire di dignità e rispetto il compito da svolgere presso gli uomini.

La voce della tradizione medica greca e latina nei proverbi calabresi

(da Oggi Famiglia, 5, 2000)

Il Corpus Hippocraticum ci ha lasciato in eredità non solo innovativi concetti riguardanti la malattia, la funzione degli organi, l’etica medica, ma anche un insieme di consigli e di ricette che, col passare del tempo, si sono trasformati in una sorta di sapere popolare, di cui è rimasta traccia nei proverbi di varie nazioni. Qui, in particolare, ci si è soffermati su quei proverbi calabresi che possano essere messi in relazione con il Corpus Hippocraticum.

L’età dell’oro, sogno perpetuo dell’umanità

(da Oggi Famiglia, 1, 2001)

L’idea che il mondo, prima della barbarie e del male, abbia conosciuto un periodo di assolutà felicità si ritrova in alcuni autori latini, che appaiono stanchi e delusi di un presente in cui domina solo l’odio ed il dolore.

Pindaro e il mutare della sorte

(da Oggi Famiglia, 1, 2002)

Pindaro si sofferma, in una delle sue odi più intime e commoventi, sul destino dell’uomo, sull’“alterna onnipotenza delle umane sorti”, sullo scorrere del tempo, sulla gloria, sulla dimensione ultraterrena.

Rapporti fra i Caratteri Morali di Teofrasto e il Misantropo di Menandro
Il Misantropo di Menandro rivela alcuni punti di contatto con l’opera di Teofrasto Caratteri morali, testimoniando una stretta relazione fra filosofia e commedia nuova.

Eutanasia ieri e oggi

(da Oggi Famiglia, 2, 2001)

La questione dell’eutanasia è ancora viva, oggi come ieri. L’articolo ripercorre attraverso varie testimonianze gli atteggiamenti e le opinioni degli antichi nei confronti di tale problema.

La solarità in D’Annunzio e Montale

(da Oggi Famiglia, 11, 2001)

D’Annunzio e Montale, poeti così lontani e così vicini nel modo di scrivere e di pensare. Entrambi, comunque, poeti di una “solarità” vissuta attraverso una sensibilità diversa.

I giovani di Cesare Pavese

(da Helios Magazine, 1, 2000)

I temi della “gioventù bruciata”, dell’infanzia innocente e perduta, della città peccatrice e della campagna redentrice affiorano nella trilogia de La bella estate, toccando punte liriche estremamente emozionanti.

La Sicilia letteraria, fra realtà e metafora, da Verga a Camilleri

(da Oggi Famiglia, 12, 2000)
La Sicilia povera di Verga, quella mitica di Quasimodo, quella omertosa di Sciascia… I mille volti di una terra fra l’animalesco e il divino nelle pagine di alcuni grandi autori siciliani.

La tradizione satirica calabrese nei Jurilli di Francesco Nigro Imperiale

(da Oggi Famiglia, 2, 1999)

L’“acetum” calabrese unito all’esaltazione di sentimenti e valor si esplica nei versi di F. Nigro Imperiale, rinnovando la tradizione vernacolare dei Bruzi e inducendo il lettore ad attente riflessioni.

La Storia di Morante come inno alla maternità

(da Oggi Famiglia, 3, 2001)

La Storia di Morante, spesso bersagliata dai critici, in quanto riesumazione dei moduli del romanzo storico “alla Manzoni”, viene qui presentata sotto una luce diversa, attraverso cui si vuole cogliere un motivo nuovo, spesso dimenticato a favore di altri.

Come fossi viva: il dolore della morte nei versi di Salvatore Fava

(da Oggi Famiglia, 9, 1999)

La raccolta poetica presenta immagini liriche che trasmettono il sapore acre del dolore e l’odore della morte.


I miei elzeviri - Passeggiando fra testi antichi e moderni


Saffo, fr. 16 V.:
la cosa più bella è ciò che si ama

“Alcuni dicono che la cosa più bella sulla nera terra sia un esercito di cavalieri, altri di fanti, altri di navi, io invece dico che è ciò che si ama. È molto facile rendere comprensibile questo ad ognuno: infatti, colei che per la sua bellezza di molto superava le mortali, Elena, lasciando il migliore dei mariti, andò, navigando, a Troia, né della figlia, né dei cari genitori si ricordò affatto, ma “Cipride” la conduceva… “Cipride” ora mi fa ricordare di Anattoria, che non è qui; di lei vorrei vedere l’amabile incedere e lo splendore luminoso del volto piuttosto che i carri dei Lidi e i soldati in armi…”

Il frammento 16, ed. Voigt, trasmesso da alcuni papiri di Ossirinco e da Apollonio Discolo, si presenta come un’ode suddivisa in tre parti: sentenza generale, esempio mitico ed attualità. Saffo, infatti, dopo aver riportato i vari giudizi degli uomini sul kalliston (la cosa più bella), afferma quello che ne pensa lei: “la cosa più bella è ciò che si ama”; segue la dimostrazione di questa gnome: Elena, per amore, dimenticò tutti i suoi doveri di sposa, di madre e di figlia. Si passa poi al momento presente: come Afrodite sconvolse allora l’anima di Elena, così ora la dea desta nella poetessa il ricordo di Anattoria lontana.
Questa è un’ode programmatica della poesia di Saffo: il bello e l’amore, infatti, sono temi fondamentali di tanti frammenti, dove la poetessa narra le gioie del tiaso, i ricordi, la passione che sconvolge l’animo, i doni dell’aurea Afrodite.
Nell’affermare che ciò che si ama è la cosa più bella, Saffo risponde ad una delle domande tipiche della cultura greca arcaica, quella sul valore più importante; il cosiddetto questionario dei sommi valori s’incontra, infatti, nelle leggende su Omero, sui Sette Sapienti e su Pitagora. In una iscrizione oracolare del Letoon di Delo, quasi contemporanea di Saffo e riportata da Aristotele, E.N. 1099 a 24-31, ottenere ciò che si ama è considerato dolcissimo, mentre la cosa più giusta (to dikaiotaton) costituisce il kalliston; alla formula della stessa iscrizione s’ispira anche un frammento di Teognide, che si mostra d’accordo sul fatto che il kalliston consiste nel dikaiotaton, mentre in Mimnermo è la verità il valore più importante. Echi di tale questionario s’incontrano in vari autori greci e continuano nella letteratura latina.
Basti qui ricordare la testimonianza di Sofocle, il quale dice che “la cosa più bella è la giustizia, la più utile il viver sano, la più dolce poter prendere ciò che si ama giorno per giorno”. Nel Liside platonico Socrate afferma che, mentre ad alcuni piace acquistare cavalli, ad altri invece cani, ad altri oro, ad altri ancora onori, per lui la cosa migliore è riuscire ad essere un buon amico. Nel mondo latino, dove il questionario dei sommi valori s’intreccia all’altro tema dell’aristos bios (la vita migliore), Lucrezio, nel proemio del II libro del De rerum natura tesse un elogio della vita philosophi nei confronti degli altri uomini che si affannano nelle battaglie per acquistare ricchezze ed onori; Orazio, in Carm. I,1, vv 19ss., oppone i desideri comuni della maggior parte della gente all’importanza per lui del valore della poesia (il motivo ritorna anche in Carm. II,16 vv.33 ss. e in Sat. I,1); anche Tibullo sviluppa ampiamente lo stesso topos in I,1, confermando l’ampia fortuna che presso gli antichi ebbe il tema della ricerca del sommo valore.
Saffo, usando l’espressione “io invece” (ego de) vuole contrapporre soprattutto due diversi generi di valori: da una parte quelli della società maschile ancorata all’ideale epico della virtù guerriera e dall’altra quelli di una cerchia dedita al culto di Afrodite; alle immagini di potenza e di odio Saffo preferisce quelle della grazia e dell’amore, al passo di guerra dei Lidi l’amabile incedere di Anattoria, allo schieramento in armi dell’esercito la bellezza del volto dell’amata.
La poetessa non rigetta i valori tradizionali, non rovescia l’areté epica, ma semplicemente si limita a mutarne il campo d’azione, inserendola nel mondo dell’eros: Saffo, infatti, avverte l’esperienza amorosa come una battaglia in cui l’alleata è Afrodite, invocata allo stesso modo in cui gli eroi omerici si appellavano all’aiuto divino dei demoni della guerra.
Il kalliston per Saffo è, dunque, ciò per cui ci si strugge di desiderio, secondo il senso proprio del verbo eramai: quello che nei primi versi viene espresso con una proposizione generica non può essere interpretato, come alcuni hanno fatto, un’esemplificazione del detto de gustibus disputandum non est, perché Saffo specifica ai vv. 17-18 quello che per lei costituisce la cosa più importante, cioè, l’amabile passo (eraton bama) e lo splendore luminoso del volto (amarychma lampron prosopou) di una persona cara.
Il valore che Saffo contrappone a quelli comuni è l’amore, ed è facile – spiega la poetessa – capirne l’importanza attraverso l’esempio mitico di Elena.
Nella tradizione mitologica greca due sono le immagini che si conservano della moglie di Menelao: Elena a volte assurge a simbolo della volubilità femminile, della donna che non rispetta i vincoli della famiglia e diventa addirittura causa di una lunga rovinosa guerra, altre volte appare vittima di una forza divina che fa di lei quello che vuole.
Nell’Iliade, III, 395 ss. è Afrodite che manovra la debole Elena e la getta nelle braccia di Paride. Sempre nell’Iliade (III, 139 ss. e 171 ss.) Omero cerca di rendere più amabile Elena, facendole rimpiangere il marito, i parenti, la figlia, le amiche e la sua città (un rimpianto sempre ispirato da Afrodite), mentre nell’Odissea (XI, 438) essa è vista come causa di morte per molti uomini.
In Esiodo, nel Catalogo delle donne, è Afrodite colei che rende infedeli le figlie di Tindaro, Elena compresa. Il motivo è sviluppato anche nell’Elena di Stesicoro, dove la collera di Afrodite, provocata dall’inosservanza rituale di Tindaro, si scatena contro Elena e le sue sorelle, rendendole digamoi, trigamoi e lipesanores. Notissima, a tal proposito, era la leggenda secondo cui il poeta, accecato dai Dioscuri per avere offeso Elena nei suoi versi, avrebbe riacquistato la vista solo dopo aver composto la Palinodia: nella ritrattazione Stesicoro sconfessava quanto precedentemente affermato, spiegando che a Troia non era andata Elena, bensì un suo eidolon (motivo, questo, ripreso anche da Euripide nell’Elena). Legato alla tradizione della colpevolezza della donna è Alceo, fedele all’immagine di un’Elena folle d’amore che segue un troiano traditore dell’ospite (fr. 283 V.) e diventa motivo di morte per tanti eroi; inoltre nel fr. 42 V. all’amore adultero di Elena il poeta oppone le nozze legittime di Peleo e Teti.
Saffo segue la tradizione epica delle Ciprie e dell’Iliade, quella di un’Elena trascinata da Afrodite nella passione d’amore, assolvendo la bella spartana dalla volontarietà della sua azione; del resto, la consapevolezza dell’autonomo agire umano e della libera scelta non appartiene alla mentalità della Grecia arcaica. Tuttavia, Elena non appare nemmeno come vittima di Afrodite, ma viene celebrata come la più bella fra tutte, degna, per la sua bellezza, di essere scelta come simbolo della forza dell’amore e di mostrare agli uomini la potenza della dea Cipride.
Dunque, dinanzi a Saffo non c‘è l’immagine di una donna adultera, capricciosa o vittima del volere divino, ma quella della femminilità che unisce in sé i valori della bellezza e dell’amore, immagine terrena di Afrodite.
Pur rimanendo fedele alla tradizione del mito e concependo l’amore non come un sentimento personale, ma come manifestazione di un volere divino ineluttabile, Saffo rivela un certo anticonformismo, percepibile se si ricollega il mito alla sentenza iniziale e alla parte finale dell’ode: in questo modo si comprende, infatti, come la figura di Elena diventi addirittura l’ideale a cui Saffo stesso stessa aspira, quello di essere, cioè, una prediletta di Afrodite, a cui la dea voglia dispensare i doni dell’amore che tutto sconvolge.
Anello di congiunzione tra il mito e l’attualità è sempre Ciprie: è lei che ha scelto Elena come simbolo della sua potenza, così come ora ha scelto Saffo, per istillarle il ricordo della compagna lontana.
Il componimento si configura, quindi, come ode della memoria. Saffo, infatti, canta l’amore “non soltanto come emozione immediata dei sensi, turbamento profondo del proprio essere, al pari di tutta la poesia erotica arcaica, ma come memoria, che vive nello spazio e nel tempo, di una comune emozione di gioia nella vita del tiaso e che anche nella lontananza del distacco ridesta il tormentoso desiderio d’amore” (Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, 1984). In Saffo l’amore attraverso il ricordo e la nostalgia di ciò che non è più è una costante che s’incontra anche in altri frammenti: attraverso la memoria le esperienze della cerchia femminile ritornano più desiderabili; il ricordo delle “belle cose godute insieme” – le corone di rose e di viole, le ghirlande di fiori, gli unguenti profumati (fr. 94 V.) – accompagna sempre la poetessa, facendole rivivere in modo più struggente ogni istante passato.
L’atto stesso del ricordare è conseguenza stessa dell’amore: infatti Elena, travolta dalla passione per Paride, non “si ricorda” più dei suoi cari, cioè, non ha più sentimenti d’affetto per loro; anche quando Saffo vuole colpire un’avversaria, le dice che giacerà morta senza alcun ricordo (fr. 55 V.), perché il ricordo appartiene solo a ciò che si ama.
Nell’ultima parte dell’ode, dunque, primeggia la figura di Anattoria, un’allieva di Saffo, secondo il lessico bizantino Suda, forse andata sposa in Lidia (ciò spiegherebbe il riferimento ai carri dei Lidi), tanto che l’ode stessa è stata interpretata ora come un encomio della giovane, ora come una consolatio per Saffo ed il suo tiaso.
Qualunque sia stato lo scopo della composizione dell’ode, alcune cose rimangono sicure: il ricordo dell’amata assente come motivo ispiratore dell’eros e della poesia, l’attenzione di Saffo per la bellezza delle gioie intime, per la delicatezza delle movenze, per la grazia femminile, come è rintracciabile nell’espressione eraton bama, l’amabile passo, dinanzi al quale impallidiscono le potenze militari, così come lo splendore del volto dell’amata non può essere eguagliato dallo scintillio delle armi.


“Perchè le disgrazie capitano agli uomini buoni, dal momento che c‘è la Provvidenza?” (Seneca):
il problema del male nella filosofia antica.

“Mi hai chiesto, Lucilio, perché mai, se l’universo è amministrato dalla provvidenza, molti mali capitano agli uomini buoni”: così, con la classica obiezione di coloro che negano l’esistenza della provvidenza, inizia il breve dialogo di Seneca, De providentia, sul problema del male nel mondo e soprattutto del male che sembra colpire ingiustamente gli uomini retti.
La teodicea – termine introdotto da Leibnitz per indicare la questione della giustificazione della divinità, data la presenza del male – ha un’origine che va ricercata molto indietro nel tempo: già nella civiltà indiana ed in quella babilonese abbiamo notizia di opere che affrontano il problema della sofferenza e del dolore che colpiscono i buoni, così come fa anche la Bibbia nel Libro di Giobbe, l’uomo che da una condizione fortunatissima passa a quella più infelice fra tutte e vive nella sofferenza, pur non rinnegando Dio.
Anche Euripide, il poeta cercatore di Dio, afferma in una delle sue tragedie impregnate dello spirito della Sofistica: “Quando volgo il pensiero alla provvidenza divina, la pena sparisce dal mio cuore. Ma, pur non nascondendo in me la speranza di un’intelligenza divina, sento che questa mi abbandona se guardo i casi e le azioni degli uomini”.
La domanda sul perché del male è, dunque, una delle più antiche, a cui i filosofi hanno cercato sempre di dare risposte accettabili, ma che è destinata ad accompagnare perennemente l’uomo, anche di fronte alle spiegazioni filosofiche e teologiche più sottili.
Per affrontare tale questione sono state due, in generale, le vie seguite dalla filosofia antica, quella di trovare una soluzione escatologica e quella di individuare, invece, una soluzione etica.
Platone è il primo ad offrire una risposta escatologica al problema del male, anche se il suo interesse non riguarda l’esistenza o meno della provvidenza, ma quella della giustizia. Sorvolando sul fatto se il male capiti agli uomini buoni oppure no, il filosofo ateniese si preoccupa di far sapere che, comunque vadano le cose su questa terra, nell’oltretomba vi è tuttavia la ricompensa per i buoni e la punizione per i cattivi. Nel finale della Repubblica, infatti, Platone spiega, attraverso il mito di Er, come la giustizia sia assicurata dopo la morte.
La soluzione escatologica di Platone viene imitata da Cicerone, che conclude il suo De Re Publica con il famoso Somnium Scipionis, in cui Scipione l’Africano rivela a suo nipote l’amministrazione della giustizia divina nell’oltretomba, dove agli spiriti retti sono destinate meravigliose ricompense. Inoltre, nel De natura deorum, Cicerone sembra accogliere come la più probabile e verosimile la dottrina stoica sulla provvidenza, esposta, nell’opera, da Balbo, dottrina secondo cui il mondo, così ordinato, è fatto per l’uomo da una provvidenza che governa, secondo un proprio ordine ed una propria razionalità, le vicende dei buoni e dei malvagi.
Sia Platone che Cicerone non affrontano direttamente la questione della teodicea, ma forniscono ugualmente una loro interpretazione del mondo, che appare stravolto dall’imperare della felicità degli uomini ingiusti.
Straordinariamente simile al racconto di Er è quello di un altro redivivo, Tespesio di Soli, che nel De sera numinis vindicta di Plutarco, espone i castighi per i cattivi e le ricompense per i buoni, assicurando anche lui il ristabilirsi della giustizia e del bene dopo la morte, contrariamente a quanto avviene nel mondo.
Assolutamente non interessata alla teodicea è la dottrina di Epicuro; il filosofo, a cui s’ispirerà Lucrezio per divulgarne le teorie presso l‘élite romana, nega che gli dei si prendano cura degli uomini; non può esistere, quindi, nessuna provvidenza e nessun ordine razionale nel mondo, che assegni infelicità agli uomini empi e felicità a quelli giusti: il male colpisce tutti indistintamente, perché, come suggerisce Lucrezio, “non certo per noi fu creata, per un atto divino, la natura del mondo: tanto grande è la colpa che ha in sé”. Epicuro ipotizza quattro condizioni che spiegherebbero l’origine del male: secondo lui, infatti, gli dei potrebbero togliere il male e non vogliono, per cui sono cattivi, oppure vogliono, ma non possono, per cui sono impotenti oppure né vogliono né possono, per cui sono malvagi e impotenti, oppure possono e vogliono, ma non sappiamo perché non eliminano il male: al saggio epicureo non deve interessare ciò, in quanto per vivere felice deve unicamente stare lontano dalle passioni nocive, il vero male dell’animo.
Tra gli autori cristiani, una soluzione escatologica al problema del male è offerta anche dal De ira Dei di Lattanzio: “Nessuno può sfuggire al giudizio di Dio, né vivo né morto”; tuttavia, l’autore si mostra vicinissimo anche a Seneca quando ribadisce il motivo della sofferenza come prova offerta da Dio, dando così, contemporaneamente a quella escatologica, una soluzione anche sul piano etico. Parimenti, il pensiero di Seneca è presente nel V libro delle Divinae Institutiones di Lattanzio: ricorrono, infatti, le stesse risposte del filosofo latino alla domanda sul perché Dio permetta che gli uomini buoni soffrano.
Nonostante la questione della presenza del male nel mondo sia affrontata da vari autori, la teodicea viene fondata propriamente dagli Stoici. Nulla più di questo problema, infatti, li poteva interessare, dal momento che essi, identificando la Ragione con la Provvidenza, avevano l’arduo compito di spiegare il perché del male.
Molte sono le opere degli Stoici intitolate Peri Pronoias (Sulla provvidenza): del trattato di Panezio abbiamo solo il titolo, mentre di quello di Crisippo (III secolo a. C.) sono rimasti significativi frammenti.
Crisippo risponde alla tipica osservazione “se ci fosse la provvidenza non ci sarebbe il male” attraverso la teoria della complementarità dei contrari, per cui il bene non può esistere se non c‘è il male.
Interessante è anche il trattato sulla provvidenza di un ebreo alessandrino del I secolo d. C., Filone, che risolve la questione dell’esistenza del male da un punto di vista non escatologico, ma etico; la sua opera si rivela importante perché pare abbia in comune col trattato di Seneca le stesse fonti stoiche ed offre, inoltre, un modo molto simile di affrontare il problema.
Il De Providentia di Seneca raccoglie in sé tutta la tradizione stoica precedente riguardo la questione della teodicea. In lui riaffiora Crisippo, quando dice che “nessun male può capitare all’uomo buono: non si mescolano i contrari” ed emerge, fra gli altri, il topos della sofferenza come prova, che si ritrova dappertutto nella cultura occidentale e orientale e che continuerà ad affascinare Minucio Felice nell’Octavius (opera in cui la “prova” è costituita dalle persecuzioni cristiane del tempo). Seneca offre, sulla scia dello Stoicismo, una soluzione etica al problema del male. Egli, fornendo numerosi exempla, paragona Dio ora ad un padre severo che esige figli forti e non rammolliti, ora ad un maestro che si aspetta il meglio dagli alunni più attenti, ora ad un generale che sceglie i più coraggiosi per le missioni più pericolose. Dunque, la divinità di Seneca ama i buoni e proprio per questo ama metterli alla prova, perché “la virtù marcisce senza avversario” e “la prova della virtù non è indolore”. Le avversità sono, dunque, esercizi che gli uomini buoni devono sapere sfruttare, perché la sofferenza è a vantaggio di chi la subisce. Anzi, dice Seneca, è sbagliato dire che le disgrazie capitano agli uomini buoni, perché quelle che sembrano tali in realtà non lo sono; i veri mali capitano ai cattivi, a cui Dio concede ricchezze, felicità, onori, gloria, come ornamenti vuoti, inganni che nascondono la miseria dell’animo degli empi. Il male apparente che capita all’uomo buono è la possibilità, invece, che Dio dà al vir fortis di superare Dio stesso: la sofferenza, infatti, pone l’uomo al di sopra di Dio, perché Dio, invece, ne è al di fuori. L’opera di Seneca sulla teodicea ha influenzato profondamente autori come i già ricordati Lattanzio (questi ritiene infatti che nel De providentia Seneca abbia “parlato da saggio e quasi ispirato da Dio”) e Minucio Felice, oppure come Epitteto, il quale asserisce che “la sventura è un falso male”, esprimendosi in modo molto simile a Seneca.

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