Opere di

Filippo Inferrera


Vivo il mio tempo

Vivo il mio tempo
tra spunti di linguaggio pennuto
per ridare forma e gusto
al discorso appena introdotto
(l’oratore tace avverto la mano che compone
l’ora cede al risveglio più antico
salgo le scale incontro all’inopinato condòno)
vivo il mio tempo
tra stami di avverbi e moti dell’anima
istrione audace preciso e imperdonabile
e ho lasciato alle spalle a quella svolta
l’unico tram possibile
la bozza di un diario che sgrano di giorno
in giorno tra computer e telescriventi
il mio tempo lo vivo
a ridosso degli altri i colleghi
stuzzicando l’acredine della parola
per imbottigliarla come un veliero
con alberi e vele timone e ancora
in mare aperto veleggio cacciatore di squali
tra questioni insolvibili e spuri sentimenti
ho l’abbrivio nel sangue
e brucio il dono del gabbiano
se il cuore mi propone la verità
del dolore ancora da vivere tutta d’un fiato.


Tema

Qui,
silenzio arroccato
percuote la marea che rovescia
livori di argilla sulla frigida luna.
Qui,
attese insaziabili
iscritte a ruolo senza patti
né giustizia, pur nell’ora del giudizio:
pesa l’autunno sul filo di poche barbe
smussate dalla fatica,
documenta paure, insorge con rabbia
sentimentale su pennoni umettati.
Qui,
viottoli solcati dall’ombra,
dominii rudimentali per gente modesta,
che fabbrica stelle con lembi di nuvole.
Qui,
difficile attracco per chi ha pelle
di caimano, giri d’occhi artigliati,
che sgranano tessere di croci
con crivelli e testi cosmici.
Ora è autunno a contratto,
un gemito di foglie occulto
e un invito di lupo che dà lusinghe e brividi.
Qui,
amore da luna park,
lungagnata che rimbalza tra le dita
e sfavilla nel bracière domestico,
e fuori impazza il secolo sleale
col suo siparietto di cose futili.
Qui,
vaniloquio tra uomini
e tra mura antiche di storia importante,
vendemmia lenta di parole
che il vento mutila con pietà telegrafica;
il mio tema l’ho svolto mentalmente,
risalgo il sentiero dei miei anni maturi,
mi tiene a braccio la vita,
e già s’inarca la morte
con l’alibi imporporato di amorevoli consolazioni.


Tela di ragno

Ti dicessi «ciao», per una carezza
senza storia tornassi
a ripeterti «ciao».
(Noi fingeremo sempre nelle pause
del sorriso incredulo).
Non cercherò nel colore della luna
la realtà della speranza,
né il sapore del tuo amore
a volte scontroso, a volte pacifico.
La parola rintracciata tra le pieghe
delle labbra e non ricevuta
resta coriandolo di una festa
che ha dato il suo spettacolo
bonario sul palco improvvisato.
Ti dicessi «addio», per una promessa
senza lacrime riprendessi
la strada che svicola
tra le tamerici e i platani.
Qui tutto è assurdo, l’occhio vero
non può discernere l’ombra
ma sa il pericolo che affascina,
il ciclamino fiorito all’occhiello
della giacca come un’esca
che ripete alla noia il suo trucco.
Credo nerl contatto, nell’accenno
di un pensiero, e poi lasciarsi
alle spalle l’età il senso
la ragione il succo dei giorni
piani ripetuti taglienti.
Ti dicessi «ancora», per un significato
che accosta due vite ripetessi «ancora«,
non «per sempre» che può ferire
ma «a lungo», quanto è possibile,
la tela di un ragno così paziente
e sottile e forte.


Spazio non ho più

Spazio non ho più per contenere la calda
memoria nel cavo degradante di queste mani
che ti tennero ancora indifesa al volto
dell’altra aurora.
Ritroverò col fiotto del pensiero l’indulgenza
che snodò il primo fiore barattandolo
col morso della rapace farfalla?
Non chiedermi perché beccheggio sull’orlo
dell’instabile illusione e sulla prima immagine
irretita dal dubbio slitto
quasi per cadenza naturale.
Sono sempre me stesso e in cerchi mi coinvolgo,
ho tanto territorio di alberi di rupi
di rocciosi tentacoli di allori incommerciabili
sono l’empio dragone e il dolce emisfero
e tu non giri più non percorri
il mio vecchio sentiero scivoli
nel lieve rigurgito della marea t’impagli
e mi torni conchiglia o mollusco
senza voce né pianto.
Spazio non ho più per rare malinconie
per parole raccolte nel pudore
da uomo potrò andare e tornare
con dentro agli occhi il segreto
di un giorno senza data o punto cardinale
e onestamente completare questa vita
con i segni di filo spinato
riproponibili in tracce di amore.


Si comincia così

Si comincia così
con un filo reciso
e un sole a pezzi
tra le foglie d’acacia
(nessuno corre nella pianura,
solo un disegno controluce
di un vecchio avvoltoio
lungo le falde delle colline
drappeggia nella memoria ingiallita)
Hanno preso la via della corrente
sul canale striato di lucciole.
Sosta nell’attesa
l’anima puledra
(nel bosco dei castagni
abili concertatori
raccontano il vento).
Si brucia la terra
accanto al fiato gitano,
zampillano cimiteri
di favole nelle oasi di sabbia.
Si comincia così
con una stella alpina
calata dentro al pozzo
e una luna smarrita tra i coralli…


Scrivimi

Scrivimi del tempo e delle cose,
prestami una ragione,
spiegami del solco tracciato dal mortaio,
del bimbo arrotolato nella bara,
con il fracasso delle tue ali, vita;
parlami del bene e del male,
di questo vero dolore che ci affligge,
quando il treno si sfilaccia
dentro il buio confine della roccia;
allora chiedimi della mia isola nuda,
di questo timido appetito dell’amore,
ch’io possa dare un volto alla mia acqua
conoscerne il percorso, innamorarmi
della terra dove vive il maligno,
e altra infanzia si aprirà dentro la camicia
allora, altro destino per questa pelle matura
che cavalca la sete, altre attese
che scopriranno ad una ad una le maschere
senza tristezza con la ragione spaziale
e l’uso onesto del dissenso.
Scrivimi dei tuoi pensieri, delle nostalgie
che invadono ogni spazio della memoria,
della nostra vita raccolta nei silenzi,
dimmi del nostro crescere e morire
dentro l’isola di sabbia e sole
e con tenerezza accarezzami e cantami
l’ultima canzone delle stelle.


Scheda N. 4

Sogni offerti con stile opaco
sorrisi senza curva
e questo andirivieni di ragioni
una mano che spulcia nel dolore
il mio tempo corroso
cosa vuoi che ripeta nell’assurdo
silenzio di metafore?
Il dito nella piaga aperta
col più vile sopruso
l’accento sgravato e orde di parole
parole grasse e sapienti
per chi questo finale abbrunato?
Per chi Cristo questa croce
pensosa questo altare affamato?
Colpisce intero coi suoi mozzi
vantaggi il giorno chiaro
cieco d’amore e poi tutto sfuma
nel solco dell’attesa
sogni sogni e sogni e pieghe
di sconfitte e partiture stanche
nel fondo del tuo cuore che verosimilmente
soggiace allo stupore.


Poco tempo ci resta

Poco tempo ci resta per sollecitarci
tra gli estremi bagliori dell’estate
un’orchestra di grido adagiata lungomare
palpeggia magiche note con la noia
dell’usato
ti rinnovi nel gesto e altro amore
come sabbia sul fuoco spruzzi
arretrando nel particolare movente
che interrompe il capitolo.
Poco tempo ci resta.
È dubbio e mi sfiora il cervello
se la stella caduta a San.Lorenzo
sia morta d’impatto senza un grido;
umida la notte mi copre col suo fiato
questa resa supina mi pesa sul collo
ancora come mosca accecata:
l’asfalto brucia sempre
sotto la rossa palla della luna
composta chissà per quale sfida
la tua rivincita è un oblò tatuato
che lascia libere apiregine e orche.


La solitudine cieca stacca lucciole

La solitudine cieca stacca lucciole
al volo parassitario che s’adombra
sui pensieri scoperti alla certezza
graziante di morire soldato
e si slarga come un vento gigante
come un rullo compressore
sulla strada a corsie perforate
da ragnatele di grattacieli.
La solitudine incombe come una macchia
di ombra e di pece
sulla smorfia che nega la coscienza
di restare su rotaie urbanistiche
e il dolore si evolve nobilita le azioni
e ne fa proiezioni succose
l’orbita è l’unico rifugio per questa
solitudine infida e saccente.
Pietà, cara vita,
del senno di poi sono piene le fosse
e non sforniamo pani miracolosi
con le rotative e gli orpelli sindacali
o gli «inciuci» di estrazione politica.
La solitudine cieca stacca lucciole
alle mani rampicanti al decorso sottile
al libro che vince il primo premio
e vende solo quaranta copie
all’assassino furente che anticipa tappe
dove la società s’incanala attraverso
lucidi militari attraverso pazienti aspettative
attraverso tagli ai bilanci e alle idee.
Pietà, cara tristezza,
la solitudine è sempre in alto
incombe sorda e vigorosa e facciamo
almeno il tentativo di snobbarla
vestendo per un attimo la corazza
civile e l’orgoglio del pazzo.


La mente e il cuore

Dalla sera alto il silenzio emergeva
guardavo nascere gelsi dalla mente
assuefatto all’attesa
e ridimensionato siglavo con arguzia
il mio messaggio viscerale
esercitando il dubbio e la certezza
come un Giano bifronte adulto e globale
così scegliendo la mia condanna
vaporosa veste del tuo applauso muto
sorgeva l’impeto di una richiesta
al servizio della tua insidia
e la mente e il cuore questi istrioni
completavano atti ufficiali
non privi di dignità attuando un gemellaggio
tra la tua difesa e il mio cauto divenire
dalla matrice del silenzio stillava
rugiada di ogni possibile emotività
forse desiderio forse amore
certamente avvertito nel brivido della pelle
per capire che gestire un frammento
di vita non è poi così disumano
coglievo di te l’orma delle origini
e il gradevole colore di una gioia esclusiva
la prima e l’ultima delle menzogne
una specie di dose di analgesico umorale
così per sempre conoscendoti.


L’affare mondo

Piccolo e lento questo mercantile
varca la linea azzurra
del desiderio. È poco,
l’affare mondo c’intriga
e scoglio dopo scoglio s’inurba
tra le vecchie miniere
e le latrine delle megalopoli
tra il frusciare dei gatti pendolari
e la barba dei barboni di periferia;
tossico è libertà vascolare
piacere di vivere un giorno di più
nel fragore del tempo diluito
nel plus valore dell’indecifrabile
forte conquista in stillicidi di sesso
voltare faccia al disgusto oppure
amare a pelo d’acqua cercando
l’unica fessura del labbro
che possa dire senza termini
senza codice la ricchezza di un’avventura.


In dissolvenza

Sull’orlo di un bicchiere
ho incontrato due labbra
come lune di faggio in un canale.
Non dissi una parola,
se gli occhi mi fissarono
spauriti fu perché finsi il sentimento
Di quale annata era il vino,
quale il colore, la foggia, la mistura?
Eri nata di getto tu
nel mio sangue corrotto
col sapore del vero intenditore;
e c’era la mia fede
che ti rendeva grazia
con giustizia del gusto aromatico
del diverbio in origine represso.
Sull’orlo di un bicchiere
si fermò la farfalla,
cantilene di becco inventando
andavamo innominati
al pellegrinaggio d’uso
per gli amanti del luogo
che hanno chiesto alla sfera
adulterina la terapia più ricca;
e il cuore smontava da cavallo
disarcionato al più lieve libeccio…



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