Opere di

Fernando Pessoa


DA: IL POETA È UN FINGITORE: DUECENTO CITAZIONI SCELTE DA ANTONIO TABUCCHI, ED. FELTRINELLI (MI) 2002


Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.

SM, I, 165


Essere poeta non è una mia ambizione.
È la mia maniera di stare solo.

SM, II, 71-73


Fingere è conoscersi.

SM, I, 88


La letteratura, come tutta l’arte, è la confessione
che la vita non basta.

OP, X, 60


Ho per la vita l’interesse di un decifratore di sciarade.

SM, I, 11


Sentire tutto in tutte le maniere,
vivere tutto da tutte le parti,
essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo
stesso tempo…

SM, I, 329


Sento che niente sono, se non l’ombra
di un volto imperscrutabile nell’ombra:
e per assenza esisto, come il vuoto.

SM, I, 173


Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo.

SM, I, 375


Cosa buttata in un angolo, cencio caduto per stra-
da, il mio essere ignobile finge se stesso davanti
alla vita.

LI, 142


DA: FERNANDO PESSOA: «POESIE»


Stazioni della via Crucis

II

C‘è in me un poeta che mi ha detto Iddio…
La primavera scorda nei burroni
le ghirlande che trasse dagli slanci
della sua gioia effimera e spettrale…

Su rugiada di prato fanciullezza
i suoi zoccoli batte allegramente…
Senza desii, su panche il tuo restare
mirando l’ora come chi sorrida…

Fiorir del giorno a pulvini di Luce…
Violini del silenzio inteneriti…
Tedio ove alletta il solo avere tedio…

L’anima bacia il quadro che ha dipinto…
Mi seggo accanto ai secoli perduti
e sogno il suo profilo, inerzia e volo…


III

Daghe di cui le gioie vecchi fregi…
Fui d’opale ad amarmi in rare mani,
e, fluido a febbri in un ricordo di are,
il ponte vuoto, zeppo di bagagli…

E l’intimo silenzio degli opali
fino a dilette gioie porta orienti,
e la mia brama va su rotte chiare
di un grande sogno pieno d’ozio e stanze…

Passa il corteo imperiale, e da lontano
il popolo, se cessano le lance,
sa che passa il tiranno, e fa tonare

l’ovazione, e sollevano i bambini…
Sui tasti le tue mani si fermarono
e indefinitamente riposarono…


IV

O suonatrice d’arpa, se baciassi
il gesto tuo, senza baciar le mani!
e i meandri, al baciarlo, discendessi
del sogno, fino a che ve l’incontrassi

tornato Puro Gesto, gesto-volto
di medaglia sinistra: re cristiani
che s’inginocchiano, ostili e fratelli,
se in processione il fercolo procede!...

Il gesto tuo che si contrae ed estasia…
Il gesto tuo completo, luna fredda
crescente, e in basso, anneriti, in giuncheti…

Grotta con stalattiti il gesto tuo…
Non poterlo afferrare, non far altro
che vederlo e smarrirlo!... E il sogno è il resto…


V

Tenue, strisciando sete lungo le ore,
passa e scorda, in bisbiglio, il tuo profilo,
e ogni giorno rimandi alla preghiera
il rito di cui solo il ritmo impari…

Mare lontano e prossimo le labbra
irrora dove, più che in te, scolori…
E, alata, lieve, sul dolor che piangi,
senza cura di te scende la sera…

Erra voce di stagni antelunari…
Gorgogliano acque nell’immensa villa,
nel buio vago inerti al mio soffrire…

Delle ore diseguali è il mio dominio,
un gesto affranto ho dato alle alghe livide
oltre le nostre essenze dell’autunno…


X

A me dall’alto infinito è toccata
questa vita. Attraverso dense nebbie,
primi fumi del mio stesso eremo,
venni acquistando, e per bizzarri riti

d’ombra e di luce occasionale, e gridi
vaghi da lungi, e sintomi caduchi
di sconosciuto rimpianto, splendori
del divino, quest’esser fosco ed esule…

Cadde pioggia in passati dì ch’io fui.
Ci furono campi d’imminente cielo
e neve su alcunché d’anima e mio.

All’ombra mi narrai, ma non ascoltato.
Oggi mi so il deserto ove Dio tenne
un tempo la dimora dell’oblio…

Non so, nutrice, dove fu,
mai lo saprò...
So che era primavera
e il giardino del re…
(Figlia, chi lo sapesse!...)

Qualche e quanto l’azzurro
in quell’azzurro del cielo!
Se la regina non ero,
perché tutto era mio?
(Figlia, chi l’indovina?)

E il giardino aveva fiori
che non so ricordare…
Fiori in tanti colori…
Penso e mi fermo a piangere…
(Figlia, i sogni sono dolori…)

Sarà che arrivi un bel giorno
un qualcosa a far sì
che quell’intera gioia
nasca più gioia
(Figlia, il resto è morire…)

Narrami favole, nutrice…
Tutte le favole sono
quel giorno, e il giardino e la dama
che fui in tale solitudine…

Sùbita mano di un fantasma occulto
mi scuote fra le pieghe della notte
e del mio sonno e, desto, nell’arbitrio
della notte non scorgo gesto o volto.

Pure un terrore antico, che insepolto
porto nel cuore, come da alto trono
scende e s’afferma mio signore e padrone
senza comando, né maneggio o insulto.

E sento la mia vita di repente
legata da una corda d’Incosciente
a una mano notturna che mi guida.

Non mi sento nessuno salvo un’ombra
di figura non vista e che stupisce,
e in nulla esisto come fredda tenebra.


DA ALVARO DE CAMPOS: POESIE


Lisbon Revisited (1926)

Nulla mi lega a nulla.
Voglio cinquanta cose nel medesimo tempo.
Anelo con un’angoscia di fame di carne
quel che non che sia – definitamente per l’indefinito…
Dormo irrequieto, e vivo in un sognare irrequieto
di chi dorme irrequieto, mezzo sognando.

Mi chiusero tutte le porte astratte e necessarie.
Abbassarono cortine su tutte le ipotesi che avrei
potuto vedere nella via.
Non c‘è nella traversa trovata numero di porta che
m’hanno dato.
Mi sono svegliato alla stessa vita a cui m’ero
addormentato.
Perfino i miei eserciti sognati hanno patito sconfitta.
Perfino i miei sogni si sono sentiti falsi all’essere sognati.
Perfino la vita soltanto desiderata mi nausea – perfino questa vita…

Comprendo a intervalli sconnessi;
scrivo per lapsus di stanchezza;
e un tedio che è perfino del tedio mi scaraventa sulla spiaggia.

Non so che destino o futuro compete alla mia
angoscia senza timone;
non so che isole del Sud impossibile mi aspettano
naufrago;

o che palmeti di letteratura mi daranno almeno un verso.

No, non so questo, né altra cosa, né cosa alcuna…
E, nel fondo del mio spirito, ove sogno quel che ho sognato,
nei campi ultimi dell’anima, ove ricordo senza motivo
(e il passato è una nebbia naturale di lacrime false),
nelle strade e nei sentieri di foreste lontane
ove ho immaginato il mio essere,
fuggono smantellati, ultimi resti
dell’illusione finale,
i miei eserciti sognati, sconfitti senza essere esistiti,
le mie coorti da esistere, sfracellate in Dio.

Un’altra volta ti rivedo,
città della mia infanzia paurosamente perduta…
città triste e lieta, un’altra volta sogno qui…
Io? Ma sono lo stesso che qui è vissuto, e qui è tornato,
e qui è tornato a tornare, e a ritornare.
E qui di nuovo sono tornato a tornare?
O siamo tutti gli Io che sono stato qui o sono stati,
una serie di chicchi-enti legati da un filo-memoria,
una serie di sogni di me, di qualcuno fuori di me?

Un’altra volta ti rivedo,
col cuore più lontano, l’anima meno mia.

Un’altra volta ti rivedo – Lisbona e Tago e tutto – passeggero inutile di te e di me,

straniero qui come in ogni parte,
casuale nella vita come nell’anima,
fantasma errante in sale di ricordi,
al rumore dei topi e delle tavole che scricchiolano
nel castello maledetto di dover vivere…

Un’altra volta ti rivedo,
ombra che passa attraverso ombre, e brilla
un momento a una funebre luce sconosciuta,
e penetra nella notte come una scia di nave si perde
nell’acqua che cessa di udirsi…

Un’altra volta ti rivedo,
ma, ahi, me non rivedo!
S‘è rotto lo specchio magico in cui mi rivedevo identico,
e in ogni frammento fatidico vedo solo un pezzo di me – un pezzo di te e di me!...


DA ALVARO DE CAMPOS: POESIE


Magnificat

Quand‘è che passerà questa notte interiore, l’universo,
ed io, la mia anima, avrò il mio giorno?
Quand‘è che mi desterò dallo stare desto?
Non so. Il sole brilla alto,
impossibile a guardare.
Le stelle ammiccano freddo,
impossibili a contare.
Il cuore batte estraneo,
impossibile ad ascoltare.
Quand‘è che passerà questo dramma senza teatro,
o questo teatro senza dramma,
e mi ritirerò a casa?
Ove? Come? Quando?
Gatto che mi guardi con occhi di vita, chi hai là in
fondo?
È questi! È questi!
Questi comanderà come Giosué che il sole si fermi e
io mi desterò;
e allora sarà giorno.
Sorridi, dormendo, anima mia!
Sorridi, anima mia, sarà giorno!

Nella casa di fronte a me e ai miei sogni,
che felicità c‘è sempre!

Vi abitano persone che non conosco, che ho già visto
e non ho visto.
Sono felici perché non sono me.

I bimbi, che giocano sui poggioli alti,
vivono tra vasi di fiori,
senza dubbio, eternamente.

Le voci, che salgono dall’intimità domestica,
cantano sempre, senza dubbio.
Sì, devono cantare.

Quando c‘è festa qua fuori, c‘è festa là dentro.
Così dev’essere ove tutto si adatta:
l’uomo alla Natura, perché la città è Natura.

Che grande felicità non essere me!

Ma gli altri non sentiranno così anche loro?
Quali altri? Non ci sono altri.
Quello che gli altri sentono è una casa colla finestra
chiusa,
e, quando si apre,
è perché i bimbi giochino sulla veranda con ringhiera,
tra i vasi di fiori che non vidi mai quali erano.

Gli altri non sentono mai.
Chi sente siamo noi,
sì, tutti noi,
perfino io, che ora non sento più nulla.

Nulla? Non so…
Un nulla che fa male…

Deposi la maschera e mi vidi allo specchio…
Ero il bimbo di tanti anni fa.
Non ero affatto cambiato…
È questo il vantaggio di sapersi togliere la maschera.
Si è sempre il bimbo,
il passato che fu
il bimbo.

Deposi la maschera, e tornai a metterla.
Così è meglio,
così senza la maschera.
E torno alla persona come a un capolinea.

Il sonno che discende su di me,
il sonno mentale che scende fisicamente su di me,
il sonno universale che scende individualmente su di me – quel sonno
sembrerà agli altri il sonno di dormire,
il sonno della volontà di dormire,
il sonno dell’essere sonno.

Ma è di più, più di dentro e più di sopra:
è il sonno della somma di tutte le disillusioni,
è il sonno della sintesi di tutte le disperazioni,
è il sonno dell’esserci gente con me là dentro,
senza che vi abbia per nulla contribuito.

Il sonno che discende su di me,
è tuttavia come tutti i sonni.
La fatica ha almeno dolcezza,
l’abbattimento ha almeno quiete,
la resa è almeno fine dello sforzo,
la fine è almeno non nutrire più speranze.

C‘è un rumore di finestra che s’apre,
indifferente giro il capo a manca
sopra la spalla che lo sente,
guardo per la finestra semichiusa:
la ragazza del secondo piano di fronte
con gli occhi azzurri si sporge in cerca di qualcuno.
Di chi?,
domanda la mia indifferenza.
E tutto questo è sonno.

Mio Dio, tanto sonno!...

Voglio finire tra le rose, perché le ho amate nell’infanzia.
I crisantemi successivi, li ho sfogliati a freddo.
Parlino poco, lentamente.
Che io non oda, soprattutto col pensiero.
Cosa volli? Ho le mani vuote,
contratte flebilmente sulla coltre lontana.
Cosa pensai? Ho la bocca secca, astratta.
Cosa vissi? Era così bello dormire!

Il freddo speciale delle mattine di viaggio,
l’angoscia della partenza, carnale nel contrarsi,
che va dal cuore alla pelle,
che piange virtualmente, benché lieta.

Alla fine di tutto dormire.
Alla fine di che?

Alla fine di ciò che tutto sembra essere…
questo piccolo universo provinciale tra gli astri,
questo paesino dello spazio,
e non solo dello spazio visibile, ma persino dello
spazio totale.

Sbandierando al complesso fittizio dei cieli trapunti di stelle
lo splendore del senso inesistente della vita…

Suonino in un bivacco la mia funebre marcia!
Voglio finire senza conseguenze…
Voglio andare alla morte come a una festa al crepuscolo.


DA ALVARO DE CAMPOS: POESIE


De la musique

Ah, a poco a poco, tra gli alberi antichi,
la figura di lei emerge e io cesso di pensare…

A poco a poco, dall’angoscia di me vado io stesso
emergendo…

Le due figure s’incontrano sulla radura presso il lago…
...Le due figure sognate,
perché questo fu solo un raggio di luna e una tristezza mia,
e un’idea di altra cosa,
e il risultato di esistere…

Davvero, si sarebbero incontrate le due figure
sulla radura presso il lago?

(...Ma se non esistono?...)

...Sulla radura presso il lago?...

E lo splendor delle mappe, cammino astratto
all’immaginazione concreta,
lettere e segni irregolari che s’aprono alla meraviglia.

Quel che di sogno giace nelle vetuste legature,
nelle firme intricate (o così semplici ed esili) dei
vecchi libri.
(Inchiostro remoto e sbiadito presente al di là della
morte,
quel che di non concesso all’usata vita nostra nelle
vignette appare,
quel che certe stampe d’annunci senza volere
annunciano.

Tutto quanto propone, oppure esprime quello che
non esprime,
tutto quello che dice quel che non dice,
e l’anima sogna, differente e distratta.

O mistero visibile del tempo, il nulla vivo dove siamo!)


DA ALVARO DE CAMPOS: POESIE


Poema in linea retta

Non ho mai conosciuto chi abbia preso legnate.
Tutti i miei conoscenti sono stati campioni in tutto.

Ed io, tante volte spregevole, tante volte porco, tante
volte vile,
io tante volte innegabilmente parassita,
inescusabilmente sudicio,
io, che tante volte non ho avuto pazienza di fare
il bagno,
io, che tante volte sono stato ridicolo, assurdo,
che ho involto pubblicamente i piedi nei tappeti
dell’etichetta,
che sono stato grottesco, meschino, sottomesso e
arrogante,
che ho patito oltraggi e taciuto,
che quando non ho taciuto, sono stato più ridicolo
ancora;
io, che sono riuscito comico alle cameriere d’albergo,
io, che ho sentito lo strizzare d’occhi dei facchini,
io, che ho commesso vergogne finanziarie, chiesto
prestiti senza pagarli,
io, che quando venne l’ora del cazzotto, mi sono
rintanato
fuori della sua portata;
io, che ho sofferto l’angoscia delle piccole cose
ridicole,
io verifico che non ho eguali in tutto ciò in questo mondo.

Tutta la gente che conosco e che parla con me
non ebbe mai un gesto ridicolo, non patì mai oltraggio,
non fu mai se non principe – tutti prìncipi- nella vita…

Volesse il cielo che udissi da qualcuno la voce umana
che confessasse non un peccato, ma un’infamia;
che raccontasse, non una violenza, ma una viltà!
No, sono tutti l’Ideale, se li odo e mi parlano.
Chi c‘è in questo vasto mondo che mi confessi che una volta è stato vile?
O prìncipi, miei fratelli,

orsù, sono stufo di semidei!
Dov‘è che c‘è gente nel mondo?

Allora sono solo io vile e fallace su questa terra?

Potranno le donne non averli amati,
possono essere stati traditi – ma ridicoli mai!
E io, che sono stato ridicolo senza essere stato
tradito,
come posso parlare coi miei superiori senza titubare?
Io, che sono stato vile, letteralmente vile,
vile nel senso meschino e infame della viltà.


FERNANDO PESSOA: POESIE IN LINGUA ORIGINALE


Passos da Cruz

II

Há um poeta em mim que Deus me disse…
A Primavera esquece nos barrancos
As grinaldas que trouxe dos arrancos
Da sua efémera e espectral ledice…

Pelo prado orvalhado a meninice
Faz soar a alegria os seus tamancos…
Pobre de anseio teu ficar nos bancos
Olhando a hora como quem sorrisse…

Florir do dia a capitéis de Luz…
Violinos do silêncio enternecidos…
Tédio one o só ter tédio no seduz…

Minha alma beija o quadro que pintou…
Sento-me ao pé dos séculos perdidos
E cismo o seu perfil de inércia e voo…


III

Adagas cujas jóias velhas galas…
Opalesci amr-me entre mãos raras,
E, fluido a febres entre um lembrar de aras,
O convés sem ninguém cheio de malas…

O íntimo silêncio das opalas
Conduz orientes até jóias caras,
E o meu anseio vai nas rotas claras
De um grande sonho cheio de ócio e salas…

Passa o cortejo imperial, e ao longe
O povo só pelo cessar das lanças
Sabe que passa o seu tirano, e estruge

Sua ovação, e erguem as crianças…
Mas no teclado as tuas mãos pararam
E indefinidamente repousaram…


IV

Ó tocadora de harpa, se eu beijasse
Teu gesto, sem beijar as tuas mãos!,
E, beijando-o, descesse p’los desvãos
Do sohno, até que enfim eu o encontrasse

Torando Puro Gesto, gesto-face
Da medalha sinistra – reis cristãos
Ajoelhando, inimigos e irmãos,
Quando processional o andor passasse!...

Teu gesto qeu arrepanha e se extasia…
O teu gesto completo, lua fria
Subindo, e em baixo, negros, os juncais…

Caverna em estalctites o teu gesto…
Não poder eur prendê-lo, fazer mais
Que vê-lo e que perdê-lo!... E o sonho é resto…


V

Ténue, roçando sedas pelas horas,
Teu vulto ciciante passa e esquece,
E dia a dia adias para prece
O rito cujo ritmo só decoras…

Un mar longínquo e próximo humedece
Teus lábios onde, mais que em ti, descoras…
E, alada, leve, sobre a dor que choras,
Sem qu’rer saber de ti a tarde desce…

Erra no antelur a voz dos tanques…
Na quinta imensa gorgolejamo águas,
Na treva vaga ao meu ter dor estanques…

Meu império é das horas desiguais,
E dei meu gesto lasso às algas màgoas
Que hà para além de sermos outonais…


X

Aconteceu-me do alto do infinito
Esta vida. Através de nevoeiros,
Do meu próprio ermo ser fumos primeiros,
Vim ganhando, e através estranhos ritos

De sombra e luz ocasional, e gritos
Vagos ao longe, e assomos passageiros
De saudade incógnita, luzeiros
De divino, este ser fosco e proscrito…

Caiu chuva em passados qeu fui eu.
Houve planícies de céu baixo e neve
Nalguma coisa de alma do que é meu.

Narrei-me à sombra e não me achei sentido.
Hoje sei-me o deserto onde Deus teve
Outrora a sua capital de olvido…

Não sei, ama, onde era,
Nunca o saberei…
Sei que era Primavera
E o jardim do rei…
(Filha, quem o soubera!...)

Que azul tão azul tinha
Ali o azul do céu!
Se eu não era a rainha,
Porque era tudo meu?
(Filha, quem o adivinha?)

E o jardim tinha flores
De que não me sei lembrar…
Flores de tantas cores…
Penso e fico a chorar…
(Filha, os sonhos são dores…)

Qualquer dia viria
Qualquer coisa a fazer
Toda aquela alegria
Mais alegria nascer
(Filha, o resto é morrer…)

Conta-me contos, ama…
Todos os contos são
Esse dia, e jardim e a dama
Que eu fui nessa solidão…

Súbita mão de algum fantasma oculto
Entre as dobras da noite e do meu sono
Sacode-me e eu acordo, e no abandono
Da noite não enxergo gesto ou vulto.

Mas um terror antigo, que insepulto
Trago no coração, como de um trono
Desce e se afirma meu senhor e dono
Sem ordem, sem meneio e sem insulto.

E eu sinto a minha vida de repente
Presa por uma corda de Inconsciente
A qualquer mão noturna que me guia.

Sinto que sou ninguém salvo uma sombra
De um vulto que não vejo e que me assombra,
E em nada existo como a treva fria.


DA ALVARO DE CAMPOS: POESIE IN LINGUA ORIGINALE


Lisbon Revisited (1926)

Nada me prende a nada.
Quero cinquenta coisas ao mesmo tempo.
Anseio com uma angústia de fome de carne
O que não sei que seja – Definidamente pelo indefinido…
Durmo irrequieto, e vivo num sonhar irrequieto
De quem dorme irrequieto, metade a sonhar.

Fecharam-me toda as portas abstractas e necessárias.
Correram cortinas de todas as hipóteses que eu poderia
ver na rua.
Náo há na travessa achada número da porta que me
deram.
Acordei para a mesma vida para que tinha
adormecido.
Até os meus exércitos sonhados sofreram derrota.
Até os meus sonhos se sentiram falsos ao serem sonhados.
Até a vida só desejada me farta – até essa vida…

Compreendo a intervalos desconexos;
Escrevo por lapsos de cansaço;
E um tédio que é até do tédio arroja-me à praia.

Não sei que destino ou futuro compete à minha
angùstia sem leme;
Não sei que ilhas do Sul impossìvel aguardam-me
náufrago;

Ou que palmares de literatura me darão ao menos um verso.

Não, não sei isto, nem outra coisa, nem coisa nenhuma…
E, no fundo do meu espírito, onde sonho o que sonhei,
Nos campos ùltimos da alma, onde memoro sem causa
(E o passado é uma névoa natural de lágrimas falsas),
Nas estradas e atalhos das florestas longìnquas
Onde supus o meu ser,
Fogem desmantelados, ùltimos restos
Da ilusão final,
Os meus exércitos sonhados, derrotados sem ter sido,
As minhas cortes por existir, esfaceladas em Deus.

Outra vez te revejo,
Cidade da minha infância pavorosamente perdida…
Cicade triste e alegre, outra vez sonho aqui…
Eu? Mas sou eu o mesmo que aqui vivi, e aqui voltei,
E aqui tornei a voltar, e a voltar.
E aqui de novo tornei a voltar?
Ou somos todos os Eu que estive aqui ou estiveram,
Uma série de contas-entes ligados por um fio-memória,
Uma série de sonhos de mim de alguém de fora de mim?

Outra vez te revejo,
Com o coração mais longìnquo, a alma menos minha.

Outra vez te revejo-Lisboa e Tejo e tudo -,
Trasnseunte inùtil de ti e de mim,

Estrangerio aqui como em toda a parte,
casual na vida como na alma,
Fantasma a errar em salas de recordações,
Ao ruìdo dos ratos e das tàbuas que rangem
No castelo maldito de ter que viver…

Outra vez te revejo,
Sombra que passa através das sombras, e brilha
Um momento a uma luz fùnebre desconhecida,
E entra na noite como um rastro de barco se perde
Na àgua que deixa de se ouvir…

Outra vez te revejo,
Mas, ai, a mim não me revejo!
Partiu-se o espelho mágivo em que me revia idêntico,
E em cada fragmento fatìdico vejo só um bocado de mim – Um bocado de ti e de mim!...


DA ALVARO DE CAMPOS: POESIE


Magnificat

Quando é que passará esta noite interna, o universo,
E eu, a minha alma, terei o meu dia?
Quando é que despertarei de estar acordado?
Não sei. O sol brilha alto,
Impossível de fitar.
As estrelas pestanejam frio,
Impossíveis de contar.
O coração pulsa alheio,
Impossíveis de escutar.
Quando é que passará este drama sem teatro,
Ou este teatro sem drama,
E recolherei a casa?
Onde? Como? Quando?
Gato que me fitas como olhos de vida, que tens lá no
funod?
É esse! É esse!
Esse mandará como Josué parar o sol e eu acordarei;
E então será dia.
Sorri, dormindo, minha alma!
Sorri, minha alma, será dia!

Ne casa defronte de mim e dos meus sonhos,
Que felicidade há sempre!

Moram ali pessoas que desconheço, que já vi mas
não vi.
São felizes, porque não são su.

As crianças, que brincam às sacadas altas,
Vivem entre vasos de flores,
Sem dúvida, eternamente.

As vozes, que sobem do interior do doméstico,
Cantam sempre, sem dúvida.
Sim, devem cantar.

Quando há festa cá fora, há festa lá dentro.
Assim tem que ser onde tudl se ajusta – O homem à Natureza, porque a cidade é Natureza.

Que grande felicidade não ser eu!

Mas os outros não sentirão assim também?
Quais outros? Não há outros.
O que os outros sentem é uma casa com a janela
fechada,
Ou, quando se abre,
É para as crianças brincarem na varanda de grades,
Entre os vasos de flores que nunca vi quais eram.

Os outros nunca sentem.
Quem sente somos nós,
Sim, todos nós,
Até eu, que neste momento já não estou sentindo nada.

Nada! Não sei…
Um nada que dói…

Depus a máscara e vi-me ao espelho…
Era a criança de há quantos anos.
Não tinha mudado nada…
É essa a vantagem de saber tirar a máscara.
É – se sempre a criança,
O passado que foi
A criança.

Depus a máscara, e tornei a pôl-la.
Assim é melhor,
Assim sem a máscara.
E volto à personalidade como a um términus de linha.

O sono que desce sobre mim,
O sono mental que desce fisicamente sobre mim,
O sono universa que desce individualmente sobre mim – Esse sono
Parecerà aos outros o sono de dormir,
O sono da vontade de dormir,
O sono de ser sono.

Mas é masi, mais de dentro, mais de cima:
É o sono da soma de todas as desilusões,
É o sono da síntese de todas as desesperanças,
É o sono de haver mundo comigo lá dentro
Sem que eu houvesse contribuído em nada para isso.

O sono que desce sobre mim
É contudo como todos os sonos.
O consaço tem ao menos brandura,
O abatimento tem ao menos sossego,
A rendição é ao menos o fim do esforço,
O fim é ao menos o já não haver que esperar.

Há um som de abrir uma janela,
Viro indiferente a cabeça para a esquerda
Por sobre o ombro que a sente,
Olho pela janela entreaberta:
A rapariga do segundo andar de defronte
Debruça-se com os olhos azuis à procura de alguém.
De quem?
Pergunta a minha indiferença.
E tudo isso é sono.

Meu Deus, tanto sono!...

Quero acabar entre rosas, porque as amei na infância.
Os crisântemos de depois, desfolhei-os a frio.
Falem pouco, devagar.
Que eu não oiça, sobretudo com o pensamento.
O que quis? Tenho as mãos vazias,
Crispadas flebilmente sobre a colcha longínqua.
O que pensei? Tenho a boca seca, abstracta.
O que vivi? Era tão bom dormir!

O frio especial das manhãs de viagem,
A angústia da partida, carnal no arrepanhar
Que vai do coração à pele,
Que chora virtualmente embora alegre.

No fim te tudo dormir.
No fim de quê?

No fim do que tudo parece ser…
Este pequeno universo provinciano entre os astros,
Esta aldeola do espaço,
E não só do espaço visível, mas até do espaço total.

Desfraldando ao conjunto fictício dos céus estrelados
O esplendor do sentido nenhum da vida…

Toquem num arraial a marcha fúnebre minha!
Quero cessar sem consequências…
Quero ir para a morto como para uma festa ao
crepúscolo.


DA ALVARO DE CAMPOS: POESIE


De la musique

Ah, pouco a pouco, entre as árvores antigas,
A figura dela emerge e eu deixo de pensar…

Pouco a pouco, da angústia de mim vou eu mesmo
emergindo…

A duas figuras encontram-se na clareria ao pé do lago…
...As duas figuras sonhadas,
Porque isto foi só um raio de luar e uma tristeza minha,
E uma suposição de outra coisa,
E o resultatdo de existir…

Verdadeiramente, ter-se-iam encontrado as duas
figuras
Na clareira ao pé do lago?
(...Mas se não existem?...)

...Na clareira ao pé do lago?...

E o esplendor dos mapas, caminho abstracto para a
imaginação concreta,
Letras e riscos irregulares abrindo para a maravilha.

O que de sonho jaz nas encadernações vetustas,
Nas assinaturas complicadas (ou tão simples e esguias)
dos velhos livros.
(Tinta remota e desbotada aqui presente para além da
morte,
O que de negado à nossa vida quotidina vem nas
ilustrações,
O que certas gravuras de anúncios sem querer
anunciam.

Tudo quanto sugere, ou exprime o que não exprime,
Tudo o que diz o que não diz,

E a alma sonha, diferente e distraída.

Ó enigma visível do tempo, o nada vivo em que
estamos!)


DA ALVARO DE CAMPOS: POESIE


Poema em linha recta

Nunca conheci quem tivesse levado porrada.
Todos os meus conhecidos têm sido campeões em tudo.

E eu, tantas vezes reles, tantas vezes porco, tantas
vezes vil,
Eu tantas vezes irrespondivelmente parasita,
Indesculpavelmente sujo.
Eu, que tantas vezes não tenho tido paciência para
tomar banho,
Eu, que tantas vezes tenho sido ridículo, absurdo,
Que tenho enrolado os pés publicamente nos tapetes
das etiquetas,
Que tenho sido grotesco, mesquinho, submisso e
arrogante,
Que tenho sofrido enxovalhos e calado,
Que quando não tenho calado, tenho sido mais ridículo ainda;
Eu, que tenho sofrido enxovalhos e calado,
Eu, que tenho sentido o piscar de olhos dos moços de fretes,
Eu, que tenho feito vergonhas financeiras, pedido
emprestado sem pagar,
Eu, que, quando a hora do soco surgiu, me tenho
agachado
Para fora da possibilidade do soco;
Eu, que tenho sofrido a angústia das pequenas coisas
ridículas,
Eu verifico que não tenho par nisto tudo neste mundo.

Toda a gente que eu conheço e que fala comigo
Nunca teve um acto ridículo, nunca sofreu enxovalho,
Nunca foi senão príncipe-todas eles príncipes-na vida…

Quem me dera ouvir de alguém a voz humana
Que confessasse não um pecado, mas uma infâmia;
Que contasse, não uma violência, mas uma cobardia!
Não, são todas o Ideal, se os oiço e me falam.
Quem há neste largo mundo que me confesse que
uma vez foi vil?
Ó príncipes, meus irmãos,

Arre, estou farto de semideuses!
Onde é que há gente no mundo?

Então dou só eu que é vil e erróneo nesta terra?

Poderão as mulheres não os terem amado,
Podem ter sido traídos – mas ridículos nunca!
E eu, que tenho sido ridículo sem ter sido traído,
Como posso eu falar com os meus superiores sem
titubear?
Eu, que venho sido vil, literalmente vil,
Vil no sentido mesquinho e infame da vileza.

Fernando Pessoa


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