Frammenti del mio tempo

di

Fabrizio Bregoli


Fabrizio Bregoli - Frammenti del mio tempo
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
14x20,5 - pp. 44 - Euro 7,50
ISBN 978-88-6587-6398

Libro esaurito

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In copertina: “I dipinti nascosti” n. 3 di Michele Melchionda


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori per il conseguimento del 2° posto nel concorso letterario Città di Melegnano 2014


Frammenti del mio tempo


OGGI NASCI

Così lo udii pregare:
«Oggi nasci.
Ne sei sicuro?
Lasci un placido lago tra le tenebre
al prezzo d’un respiro.
Sottili palpebre
sono la distanza fra te e il sole.
Così – raccontano – un guscio denso, opaco
di greve materia si schiuse nel buio
ringhiò e fuggì uno scoppio di luce.
E accalappiò lo spazio
col guinzaglio del tempo
e furono galassie, stelle, alberi, mare.
E chiamarono quella vastità
inesplorata intoccabile
il nulla.
Da quella pienezza tu giungi
da dove tutto è incompiuto
e galassie, stelle, alberi, mare, uomini
gli uomini
sono il nulla che dovrai esplorare.
Tutto, conoscerai tutto
la sua sterminata nullità.»
Si deterse la fronte, pianse e svanì.


IL MIMO DI CRIKVENICA

Reggo un violino dipinto d’argento
e scorgo il mio viso a nuovo innevato
sulle spente acque del lembo di mare
stretto orizzonte all’immoto mio sguardo.
Mi fingo di pietra, acquatto il respiro
perché tu mi creda il quieto ritratto
dell’uomo compito e sazio di niente,
sobillatore quel tanto imprudente
che sfida in silenzio la pioggia e il vento,
cova il segreto d’ogni turbamento.
Se insidiano le labbra mosche e arsura
o qualcuno celia, o sprezzante passa
talvolta brevi gocce di sudore
improvvise brillano sulla fronte
rapide poi imbrunendo sulle guance.
Sono i pensieri che non so trattenere
nel lago opaco delle mie pupille,
il battito più acceso sotto pelle,
quando veemente zampilla il sangue
d’un tremito le palpebre socchiude.

Quando sarà deserto questo spazio
mi curverò più lieve su me stesso
e mi raccoglierò nel mio mantello
in vicoli angusti in fretta svanendo.
Domani indosserò il mio volto d’uomo
all’alba consueto sconosciuto
tra i passi frettolosi dei turisti,
anch’io ambulante maschera fra tante.


MEMORIE DI UN LICANTROPO

La attendevo in silenzio
alzare la fronte in cielo, nitida
divincolarsi dalle nubi nel buio.
E tutto diveniva leggenda:
gareggiare con i cervi impauriti,
la danza dei gufi lievi sulla preda,
il respiro di resina dei tronchi,
le acrobazie tacite delle falene,
le ragazze addormentate sollevare
delicato il petto fra le coperte.
Mi scoprivo straniero a me stesso.

Ma quella notte di maggio
lei non apparve – il cielo
una fredda lastra di marmo nero.
Quella distesa liscia, senza luce
mi raggelò, nudo sulla terra.
I miei occhi si sigillarono
in un lucido sipario di tenebre.
Mi ritrovai uomo
e solo.


DAL BUIO DELLE STRADE

Porgi ascolto, straniero, sosta qui
se ignori l’ombra che scende ai balconi
quando vi batte il sole a perpendicolo
da babeliche altezze sul profilo
dei ragazzi che s’aggettano al giorno.

Schiere accorrono a motori truccati
s’abbagliano ad algide cromature
nei cortili sfiancati di catrame
sotto tetti flagellati d’amianto
vi fanno mostra d’inchiostri indelebili
marchi tribali, rune, frasi a stralci
talismani che danno più coraggio
a braccia ben tornite dai manubri.
Mietono le ore fumando, si sfidano
calciando sul cemento degli spiazzi
il logoro pallone a rombi stinti
vi figgono pupille come lance
come se specchiassero prati, spalti
di stadi che ne popolano i sogni
quando a filo dell’alba non c’è strada
dove il buio li accolga, il sonno attenda.

Accorto, straniero, se scorgi labbra
un po’ stranite nel cerchio dei volti
se mai notizia d’altrove li sfiora
se solo sospettano un varco, un lembo
di spazio più vero del loro
ardente autentico mondo.


IN SOSTA DI FORTUNA

Parcheggiano discosti dalle macchine
scansati per premura degli acquisti
nell’angolo di sole che scantona
lo spiazzo in ombra del supermercato.
In sosta di fortuna, sempre a guardia
ai colossali carichi, a motrici
che sfiancano sprezzanti cielo e asfalto,
qui trovano il consenso d’un silenzio,
s’acciambellano come pigri gatti
nell’affollato cosmo in miniatura
d’una cabina afosa, e sul cruscotto
stemmi d’allegri futili peccati,
o siedono incrociandovi le gambe
su aspre lamiere, uno sgabello a tavolo
quella tovaglia a quadri che fa casa
l’illusione d’un pranzo come deve.
Si parlano ignorando la stranezza
dell’essere stranieri l’uno all’altro,
gli basta il cenno rapido del capo
l’intendersi all’identico destino
d’apolidi vassalli della strada
la sola donna che non li tradisca.
All’improvviso capita che evadano
dall’imperioso vivere e divorino
rabbiose sigarette, se s’aspettano
il trillare affrancante d’un telefono
la voce d’una figlia che profumi
come tutte le cose sacre e buone
che gli hanno confiscato alla partenza.


ONORA IL PADRE

Hanno la trepidazione d’allora
se affollano gli sportelli delle poste
in anticipo su remote scadenze
o se raccontano al primo sconosciuto
che tenta di scansarli con riguardo
i segreti d’una vita di riserbo.
Mai rinunciano al sole del mattino
soli agli incroci, sulle strisce pedonali
con la discrezione dei loro lievi passi
azzardo affronto al cittadino traffico
o sottobraccio alle bionde custodi
anni fa sognate amanti, forse spose.
Ma alcuni, sull’orlo del loro cielo
stillano a stento il riverbero d’un raggio
alla finestra blesa di certe ville tristi
dove scantona una rondine sparuta
trattengono quel poco al labbro riarso.

Non toccate i vecchi, mondatevi le mani
entrate a piedi scalzi nelle loro storie
affabulate con pazienza d’anni.
Nelle loro carni è un solco sacro di memorie
sulla pelle un reticolo d’esauste stagioni,
dal gelo degli inverni hanno tratto legna
per scaldarne i giorni delle vostre assenze
tacere la lingua delle vostre notti astiose.
Non toccate i vecchi, siate pietosi
al declinare pudico del tempo
ai crucci, agli insensati silenzi
di questi ostinati briganti
di questi bari senza astuzia
sedotti da ogni nuovo cenno d’alba.


EN PLEIN AIR
(Badanti al parco)

Parlottano nei parchi di città
sedute alle panchine il giovedì
la brezza lieve una spera di sole
se il marzo milanese gliele accorda,
raccolte in cerchio come in quei romanzi
di dame assorte attorno a un samovàr.
Alcune sfogliano riviste, fumano
frenetiche in un nugolo di chiacchiere
ne ridono sapendole pretesto
per non lasciare libero il silenzio
di guizzar screanzato, come un folletto.

Il lavoro è alibi di ferro, stende
con un bel gancio quel grillo parlante,
non le costringe vis-a-vis col vivere.
Non cedere al silenzio è la consegna
non dargli scocca, offrirgli cassa armonica
non smagliare la memoria, farle breccia.

Eppur crea scompiglio, muto furfante
sbaraglia il mazzo, trucca la partita:
così c’è chi s’aggrappa ad ombre, a immagini
rammenda un volto, bacia labbra d’aria
c’è chi si sogna a un uomo tra le braccia
accarezzargli il petto, essergli donna
stordirlo col profumo dei capelli
giù al tappeto, pungente di sudore.
E quelle mani che sanno imboccare
fanno il bucato, svuotano orinali
scoprirle ancora buone per l’amore.


LE TAUMATURGHE

Questi spazi masturbati di tedio
sono linfa distratta alla sua fonte
ricettacoli incuneati in stretti
resti di case, asfittici cortili
dove pendono ai fili panni laceri
come corpi svuotati al loro nome,
cigli di strade fatte discariche
lacerti di passaggio, opache assenze
avanzi di città, franate fabbriche.

È qui dove vortica il carosello
frenetico di auto, dove fitto il gelo
arde, su poltrone sconce, nel ventre
dei viadotti o tra fuochi di bivacchi
che le trovi a regnare, senza scettro.
Parvenze, poco più che ombre, eppure
signore nel loro essere predate
e parlano d’amore se le ascolti
con occhiate d’affilati cheliceri
con i loro grembi sterili, mani
come fusi che imbozzolano il tempo.
Levatrici antiche a una lingua oscura
ne recitano un cantico proibito,
da gracili erezioni forgiano uomini
felicità da poche gocce torbide.
Con fiale argute, decotti d’oblio
leniscono gli ammanchi della sorte
e non sanno mentire a chi rovina
nelle loro scabre notti.

Poi l’alba
cancella l’abitudine dei volti,
disarma la sua luce, dall’asciutta
loro nudità le spoglia, le scaglia
nel frastornato rodeo dei mortali
in coda agli sportelli delle banche
o tra scaffali di supermercati.
Non più misure d’incanto, ma scorie
nel flusso indifferente della vita.

[continua]


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