Racconto premiato di Fabio Pasian


Con questo racconto è risultato 3° classificato – Sezione narrativa alla XVIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2010

Questa la motivazione della Giuria: Fabio Pasian evoca la figura di un professore “speciale” che riceve il giusto riconoscimento dopo aver dedicato la sua vita ad “educare”. Racconto pervaso da incantevole soavità eppure capace di catapultare nell’intima sostanza dell’esistenza, impregnando l’intera storia del profumo del tempo.


«L’invito a cena»

Più di ogni altra cosa, gli fece impressione vedere allo specchio, mentre si faceva il nodo alla cravatta, i suoi polsi. Magri, quasi scheletrici, uscire dai polsini della camicia a sottili righine blu che aveva indossato in altre occasioni importanti. Allora, anni prima, quei polsini li riempiva completamente. Ora invece, tra il braccio e i gemelli d’oro ci stavano tranquillamente due dita, abbondanti.

Era dimagrito tanto, dall’ultima volta che si era vestito elegantemente, per andare a teatro con Elda. Erano passati parecchi anni, lei stava ancora bene; o almeno così credevano, all’epoca. Non era ancora infatti incominciata quella lunga parabola discendente che l’avrebbe portata a lasciarlo solo, cinque mesi prima.

Solo. Dopo una vita insieme, dai tempi in cui erano al ginnasio. Ma come aveva potuto andarsene prima lei? Così presto, poi. Certo, avevano superato da un bel po’ i settant’anni, ma avrebbero avuto ancora talmente tante cose da fare insieme, tante esperienze da condividere. Si passò la mano sugli occhi, per togliere quel velo che gli annebbiava la vista.

Provò a concentrarsi sul nodo della cravatta. Non se lo faceva da anni, il nodo scappino. O nodo Windsor, forse il nome inglese era più appropriato: non era forse stato Oscar Wilde a dire che il nodo alla cravatta è il primo passo serio nella vita di un uomo? Lui la cravatta l’aveva portata per anni, sul lavoro. Ogni giorno, a scuola. Ma ora non riusciva a ricordare i movimenti per farselo, quel nodo, scappino o Windsor che fosse.

Negli ultimi anni di scuola, ormai più di dieci anni prima, il nodo aveva incominciato a farglielo Elda. Quello che era incominciato come uno scherzo, era poi diventata un’affettuosa forma di attenzione, infine un’abitudine. Elda gli mancava anche per queste cose banali: senza di lei aveva difficoltà a mettere in pratica i gesti quotidiani.

Prese nelle mani i capi della cravatta blu di Prussia che aveva scelto. Ma di nuovo venne distratto dai suoi polsi riflessi dallo specchio. Erano di una magrezza impressionante. Anche il viso, peraltro. Radendosi ogni mattina, aveva fatto l’abitudine ai progressivi cambiamenti del volto: il continuo dimagrire glielo aveva scavato e ora la pelle pendeva dalle guance facendolo assomigliare un po’ a un bulldog. Era coperto uniformemente di rughe, particolarmente profonde quelle che molti anni prima aveva baldanzosamente liquidato come “di espressione”. I capelli, canuti già da un bel po’, gli si erano diradati e le stempiature erano diventate più evidenti. La sua giovinezza veniva evocata solamente dal pizzetto ben curato, ricordo del periodo in cui aveva fatto il servizio di leva come ufficiale degli alpini in Carnia, alla fine degli anni ’50. Ma il resto, che osservava per la prima volta con attenzione dopo parecchi anni, rendeva impietosamente evidente la sua vecchiaia.

Per distrarsi, si concentrò sui movimenti da compiere. Incrociò i capi della cravatta, poi passò la parte larga al centro dell’incrocio, attorno ad uno dei due lati del nastro di seta. Fece poi incrociare il nastro sull’altro lato, così come aveva fatto per il primo. Fece poi ruotare il nastro, circondando i due triangoli che aveva formato, per serrare il nodo. Si rese conto di aver sbagliato le proporzioni all’inizio, al momento del primo incrocio.

Dopo due o tre tentativi, alla fine il nodo venne fuori decente, anche se un po’ più grosso di quanto si sarebbe aspettato. Con la cravatta che aveva scelto, sarebbe stato più opportuno fare un mezzo scappino. Ma non aveva certamente voglia di disfare tutto e di ricominciare daccapo.
Guardò l’orologio, il vecchio Zenith, ancora precisissimo, che Elda gli aveva regalato quando si era laureato. Aveva ancora una decina di minuti di tempo per mettersi scarpe e giacca ed essere pronto per quello strano appuntamento.

Gabriella Ravasini, che era stata la collega di lettere nella sua sezione durante gli ultimi anni di insegnamento, gli aveva telefonato qualche giorno prima. “Professor Bartoli, La vorrei invitare a cena: dovrei farLe incontrare delle persone veramente speciali” aveva detto. Benedetta ragazza, quante volte aveva dovuto chiederle di dagli del tu! Ma lei niente, “non ci riesco, è più forte di me”. In effetti, come età quella ragazza avrebbe potuto essere sua figlia. Oddio, ragazza… ormai, Gabriella doveva essere più vicina ai cinquanta che ai quaranta.

Aveva dapprima declinato l’invito, non aveva intenzione di fare vita sociale, era ancora troppo addolorato per la perdita di Elda. Ma Gabriella aveva insistito, e molto: “ci tengo tanto, sa?”. Alla fine aveva ceduto, e aveva accettato quell’invito a cena.

Quando ne aveva sentito parlare, Elda aveva finto di essere un po’ gelosa di questa sua collega giovane, carina, esuberante, piena di iniziative: un’autentica folata di vento nell’ambiente un po’ stantio del vecchio liceo. In effetti, lei lo aveva convinto a fare delle lezioni in compresenza: mettevano in relazione la letteratura con il periodo storico. Ricordava ancora quella splendida lezione sul futurismo che avevano fatto insieme, Marinetti inquadrato storicamente nel periodo dell’interventismo pre-bellico e nei primi anni del fascismo. Avevano posto in relazione l’amore per le nuove tecnologie e la conquista della velocità con la libertà dei costumi, la liberazione dalla sintassi in letteratura e dalle regole della prospettiva in pittura. Mentre spiegavano, Ferruccio Ziani, che insegnava storia dell’arte, proiettava diapositive che rappresentavano i quadri di Balla, di Boccioni e degli aeropittori Crali e Benedetta Cappa, moglie dello stesso Marinetti.

Lui, che di natura come insegnante sarebbe stato un po’ più tradizionalista, era stato volentieri al gioco. D’altra parte, era abituato a fare continuamente delle correlazioni tra la filosofia e la storia, le materie che insegnava, con frequenti sconfinamenti nella letteratura e nelle scienze. Così era stato per i filosofi atomisti, di cui commentava la visione della materia simile a quella che avrebbero poi ipotizzato i fisici del XIX e XX secolo. Oppure la concezione dell’Universo prima e dopo Galileo, e i contrasti con il clero dell’epoca: citava i passi della Bibbia che apparivano in contrasto con le nuove teorie. Spiegando la scolastica francese e Abelardo, aveva raccontato la sua storia con Eloisa da un punto di vista morale, letterario e sociologico, strappando ad alcune alunne dei romantici sospiri e coinvolgendo i più impegnati in feroci discussioni sul ruolo della donna nella società.

Durante le sue ore c’era nella classe un silenzio perfetto, se si escludeva ovviamente il fruscio delle penne a sfera che prendevano febbrilmente appunti. Aveva resistito indenne agli scherzi pre-goliardici dei suoi alunni degli anni ’60, alle contestazioni degli anni ’70, al disinteresse dei giovani del decennio successivo, al menefreghismo della prima generazione col telefonino.

Ma lui non teneva tanto alla brillantezza delle sue lezioni quanto al suo ruolo di educatore. “Se volete diventare delle persone responsabili, dovete imparare a pensare con la vostra testa”: era questo il messaggio che, instancabilmente, aveva cercato di inculcare ai “suoi” ragazzi. Sfruttando le sue indubbie capacità oratorie, esponeva una teoria, e riusciva in breve a convincere tutti della sua validità. Alla fine dell’esposizione, in modo teatrale, guardava la classe per un lungo istante al di sopra dei suoi occhialetti da presbite. Poi diceva: “oppure no?” e costruiva una teoria diametralmente opposta, altrettanto convincente. E concludeva: “vedete, le persone sprovvedute possono essere imbrogliate da chiunque sia in grado di imbastire quattro frasi ben costruite. Voi invece dovete essere in grado di valutare tutti gli aspetti e di formare le vostre idee in modo autonomo”.

I suoi rapporti con gli alunni erano familiari, in modo del tutto naturale. Erano i figli, e poi i nipoti, che lui ed Elda non avevano avuto. Raccoglieva confidenze sulle loro storie amorose adolescenziali, immancabilmente tristi e senza speranza. O sulla solitudine, la convinzione di essere diversi e non compresi. Sulle poche vittorie e i molti insuccessi di esistenze ancora da indirizzare verso i binari del futuro. “Vedrete” diceva “tra qualche anno ci incontreremo per strada e ci faremo insieme una bella risata, su queste vostre tristezze e delusioni”. Ed ancora: “non vi scoraggiate per gli insuccessi, chi fa il liceo classico ha una marcia in più: ricordatevi che siete la classe dirigente del domani”.

La maggior parte degli alunni gli voleva bene, credeva. Anche perché gli esami a settembre che aveva dato in tutti quegli anni si contavano sulle dita di una mano. Aveva punito solo i lavativi cronici, o quelli che avevano voluto fare i furbi. A fine anno, era sempre stato di manica larga. Ora, purtroppo, la manica larga era solamente quella della sua camicia, in cui il polso ballava desolatamente.

Era proprio dimagrito tanto, forse sarebbe stato opportuno andare dal medico, fare qualche analisi. Per quello che valeva, comunque…

Il campanello suonò, si affrettò ad aprire.

Gabriella apparve sul vano della porta dell’appartamento. “Com’è elegante questa sera, professor Bartoli”. Elegante era in realtà lei, con quel vestito rosso che le metteva in risalto la bella schiena abbronzata, con la collana e gli orecchini, un po’ vistosi ma di gran gusto.

Scesero con l’ascensore. Fuori dal portone, il taxi che l’aveva accompagnata fin lì stava aspettando. Si accomodarono sul sedile posteriore.

Il tragitto fu breve. Lui tentò di estorcerle qualche spiegazione, qualche anticipazione su quello che avrebbe potuto aspettarsi da quella cena, su chi fossero quelle persone “veramente speciali” che avrebbe dovuto incontrare. Niente da fare, lei sorrideva e dava risposte evasive. Il taxi si fermò davanti all’hotel Excelsior.

Scesero dal taxi ed entrarono. “Siamo arrivati” disse Gabriella al giovane cameriere in vestito scuro e papillon. Questi annuì, e sparì dietro a una porta a vetri.

Aspettarono inutilmente qualche minuto. Infine Gabriella, spazientita, propose di procedere comunque. Dietro alla porta, un breve corridoio; in fondo, un’altra porta. Gabriella bussò. Non ottenendo risposta, “proviamo a entrare” disse. Spalancò la porta.

La stanza era completamente buia. Poi, all’improvviso, le luci si accesero e un fragoroso applauso lo assordò. Non si rese conto di quello che stava succedendo, era abbagliato da una luce forte che li stava illuminando.

Lentamente, incominciò ad inquadrare la scena: erano in un salone enorme, dominato da un grande tavolo a ferro di cavallo, con due soli posti liberi, al centro. C’erano anche tanti altri tavoli più piccoli, anch’essi pieni di persone. E tutti erano in piedi, ed applaudivano. Lui. Illuminato da una luce ad occhio di bue. Non capiva.

Cercò con lo sguardo Gabriella. Lei sorrideva, apparentemente felice. Poi gli si avvicinò, lo prese sottobraccio; incominciarono a incamminarsi verso i posti liberi al centro del tavolo a ferro di cavallo. “Chi sono queste persone?” chiese lui. “Non l’ha ancora capito, professore? Sono i suoi ex-alunni, molti di quelli che lei ha educato nella sua carriera.” “Ma saranno un centinaio” “Centoottantasette” disse lei, con una punta di orgoglio. “Sono riuscita a mettermi in contatto con i primi tramite l’associazione degli ex alunni. Il passa-parola ha fatto il resto”.

E lui incominciò a riconoscerli, ad uno ad uno. Avevano qualche anno i più, i suoi ragazzi: chi venti, chi quindici, chi trenta. Molti con i capelli grigi, molti un po’ appesantiti. Ma di quasi tutti si ricordò nome, carattere e lineamenti di quando erano al liceo. Ecco Marianelli, che faceva il chirurgo cardiovascolare all’ospedale, ecco la Garbini, che aveva partecipato alle olimpiadi di Seul nei 400 stile libero. La Venturini era stata sindaco della città per dieci anni. E Bertin aveva seguito le sue orme: insegnava storia e filosofia al liceo scientifico. Con tutti avrebbe scambiato qualche parola, in quella serata che non avrebbe mai dovuto concludersi.

Avrebbe solo voluto che Elda fosse stata lì. Sarebbe stata orgogliosa di lui.

Fabio Pasian


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