Opere di

Fabio Galli

Con questo racconto è risultato 4° classificato – Sezione narrativa alla XVII edizione Premio Letterario Internazionale Marguerite Yourcenar 2009


Non posso rimproverarmi nulla

Che sia stato quella carogna di Antonio a lasciare qui questo attrezzo, non ho dubbi. Chi altri avrebbe potuto abbandonare davanti la porta del mio appartamento, esattamente al centro dello zerbino, una vecchia macchina fotografica? Ciò che non mi è chiaro è come questo pezzo di modernariato possa procurarmi del dolore.
Perché è pacifico che se Antonio è venuto fin qui stamattina presto, se ha superato questa rampa di scale, è solo per vendicarsi del mio ultimo scherzo. Ed io ho avuto modo di imparare quanto siano crudeli e imprevedibili le sue vendette, con quale precisione sappia scoprire aspetti fragili della personalità per massacrare la mente senza ferire il corpo. Ora, al di là del fatto che avrei potuto inciamparci e che sto perdendo del tempo, non riesco a capire come un vecchio apparecchio possa nuocermi. Cosa c’è di più inerme di una polaroid? Eppure è proprio la presunta mitezza dell’oggetto, così stridente col carattere del suo proprietario, a terrorizzarmi. Forse sarebbe saggio sferrare un calcio a questo cavallo di Troia e non guardarlo più. Subito dopo, se Antonio fosse una persona normale, gli potrei chiedere cosa diavolo ha architettato la sua mente maligna a proposito della macchina fotografica. Già, figuriamoci se mi risponderebbe. Sarebbe soddisfatto nel sapere che la curiosità mi sta corrodendo. E avrebbe ragione, perché continuerei a pensarci fino alla fine dei miei giorni. D’altra parte, non posso rimanere immobile sull’uscio, in uniforme da ufficio, a rimirare la trappola. Meglio provare a disinnescarla. Naturalmente è solo un modo di dire, conoscendo Antonio escludo l’eventualità di un meccanismo esplosivo, sarebbe possibile prevenirlo. Coraggio, ora la sollevo e la porto in casa. Spero di non pentirmene.
È più leggera di quanto avessi previsto. Ha una forma così illogica, sembra scolpita. Chissà perché una volta la tecnologia non prevedeva forme curve, solo angoli e linee rette. E anche questa macchina è così, squadrata, sudicia, astrusa, come la mente del padrone. Ora che ci rifletto, è proprio col sudiciume che è cominciato tutto.
Sì, a ripensarci, fu un alterco banale: il suo cane perdeva peli che ritrovavo nell’ascensore, Antonio continuava a negare l’evidenza invocando prove inoppugnabili. Io non posso rimproverarmi nulla, in quell’occasione mi comportai onestamente: presi ad insultare Antonio con i consueti espedienti, insinuazioni sui costumi sessuali della madre e della sorella, e altre volgarità generiche. Lui invece perdeva la calma ma non la proprietà di linguaggio, così pronto a disegnare una caricatura coi miei difetti. Insomma, tendeva a impostare la vicenda in termini personali, anziché sfogare le sue tensioni in un salutare litigio tra condomini. Dovevo capirlo sin da allora che si trattava di una psiche malvagia. Questo strumento obsoleto, che lui mi ha indotto a introdurre in casa, ne è una prova ulteriore. Anche a scuoterlo, a soppesarlo, a scrutarlo in controluce, non rivela nulla di anomalo. Sembrerebbe persino funzionante, sebbene qua e là s’intraveda qualche filo di ruggine. Magari lui spera che mi venga il tetano. No, non c’è da illudersi, non è il suo stile: i progetti malefici di Antonio sono più incisivi e meno aleatori. Me lo ricordo bene cosa si è inventato dopo che ho lasciato distrattamente gocciolare dal mio balcone del diserbante sulle sue amate piante. Qualsiasi essere ragionevole si sarebbe affrettato a rovinarmi la carrozzeria dell’auto con un bel chiodo appuntito. Lui no. Lui ambisce ad essere originale e perfido: parcheggia, lasciandola sporgere di parecchio, la sua carcassa di auto proprio nella curva cieca. Lui sa perfettamente che ogni mattina prendo quella curva in accelerazione per lanciarmi sul successivo rettilineo. Ancora mi chiedo se avrei potuto evitare l’impatto quel giorno. In ogni caso il risultato fu una fiancata rovinata, il premio dell’assicurazione raddoppiato, e soprattutto la consapevolezza di essere stato io responsabile dell’incidente. Ecco la sua vendetta: inocularmi il veleno del rimorso, costringermi a riflettere sulla mia imprudenza, passare le notti ad immaginare di poter tornare indietro nel tempo per frenare prima della curva. Che ingenui i miei colleghi, tutti si sono impegnati a convincermi che si trattava di un caso. No, si sbagliavano, Antonio sapeva che col mio conto in banca avrei potuto sopportare il danno economico della riparazione con un dispiacere minuscolo rispetto a quello che lui aveva provato per la morte delle piante. Le curava da anni come bambine. Non avrebbe mai considerato l’ipotesi di rigare la scocca della mia auto in prima persona. Ne sono convinto, secondo la sua singolare mentalità, il rimorso avrebbe pareggiato il dolore perché composto della stessa materia. Non è vero, non è stato un pareggio: adesso lui ha altre piante, io, invece, ho lo stesso rimorso. Sono io quello che ha da recriminare, sono io quello che parte svantaggiato. Sì, svantaggiato. Per me, il problema è che soltanto molto dopo che ne sono vittima riesco a comprendere le sue trappole psicologiche. Ciò non deve più avvenire.
In un certo senso, ora ho l’occasione per riscattarmi. Ho per le mani la macchina fotografica, padroneggio le sue rotelle esterne, i pulsanti, posso oscurare l’obiettivo col palmo della mano a mio piacimento. Non accade nulla comunque tocchi la macchina. È fredda, grigia e inflessibile come lui. Senza cuore. Non è una frase di circostanza: che cuore ha uno che ama giocare a scacchi, uno sport intriso di una ferocia primitiva. Non esagero, in quale altro sport chi soccombe vede poco a poco perire quelli che lo circondano, persino la propria compagna? Una competizione ove l’istinto è sacrificato ad una tattica tortuosa. Antonio è proprio così, feroce e tortuoso. Al contrario, io, in passato, ho praticato il calcio, uno sport franco, generoso, senza sottintesi. Al più, quando perdevo, cominciavo a mirare alle ginocchia degli avversari e, se mi riusciva, rompevo qualche legamento, un danno grave, ma reversibile, non una permanente lacerazione dell’anima. Perché questo è lo scopo ultimo di Antonio, procurare un guasto irrimediabile all’equilibrio del suo nemico, questa la sua sleale ambizione. Anche l’arnese che tengo stretto, ne sono certo, costituisce uno strumento per soddisfarla, sebbene non sappia in che modo. Per la miseria, sono già diversi minuti che esploro l’attrezzo, ormai dovrei essere convinto che non ho nulla da temere e invece sudo per la preoccupazione. Dovrei trovare il coraggio di controllare se funziona. Solo così supererei quel condizionamento mentale che è stato originato, ormai tanti mesi fa, dalla lettera di Daniela. Tutti pensano che quel piccolo accenno di malinconia che accompagna la mia vita da un po’ di tempo dipenda dalla separazione. Non è così. O almeno, non è solo questo. Io non ci tenevo più a Daniela, la tradivo con la mia segretaria anche da prima di provocare il fallimento dell’azienda di Antonio. Azienda… azienda mi sembra troppo, la definirei piuttosto una modesta attività commerciale dato che è stato sufficiente convincere il direttore della filiale a non concederle più il fido per farla fallire. Non deve essere stata tutta questa tragedia per Antonio: se si chiude una società, se ne può sempre aprire un’altra. Ebbene, se lui avesse preteso di vendicarsi portandosi a letto mia moglie, lo avrei compreso. Di più: lo avrei ammirato. Sarebbe stato un primo passo verso la regolarizzazione dei nostri rapporti. Invece, lui per l’ennesima volta ha preferito il torbido alla limpidezza. Non solo ha sedotto Daniela, ma ha preteso, non ho dubbi, che lei scrivesse una lettera d’addio. Oltre tutto, l’addio epistolare è una modalità d’altri tempi, oggi si usa un messaggio al cellulare che termina con l’auspicio di rimanere amici. Quella lettera l’ho letta una sola volta, l’ho subito stracciata, eppure ne ricordo il contenuto di ogni singola frase. Daniela mi rimproverava di essere stato troppo attento a concimare la mia carriera e troppo distratto per accorgermi di come il nostro legame si stava sfilacciando. Beh, fin qui una banalità. Solo che insisteva, affermava che ci voleva poco, che era stata veramente innamorata di me, che aveva sperato di poter vivere insieme a me tutta la vita, ed io le avrei bruciato questo e molti altri desideri. Un po’ toccante, ma ancora rientrava nel catalogo delle frasi a disposizione degli innamorati delusi. Poi cominciava un nuovo capoverso con la parola esempio seguita da una virgola. Non potevo supporre che fosse proprio l’esempio ad essere atroce: Daniela mi ricordava che erano passati quattro anni dalla prima volta in cui mi aveva chiesto se desideravo un erede, ed io per quattro anni avevo rimandato, in attesa di situazioni di lavoro compatibili con la paternità. Sottolineava che se avessi preso subito una decisione, ora il bambino avrebbe frequentato l’asilo. Secondo lei, avrei sottovalutato che, in quanto donna, non avrebbe potuto aspettare a lungo. Per concludere, sarebbe stato Antonio, che la faceva sentire amata, importante, e tutti gli altri attributi propri della circostanza, sarebbe stato proprio lui, tenero e sensibile, ad essere il padre che io non ero stato. Antonio tenero! Più che una menzogna, un ossimoro. Ed io? Avrei mai avuto un figlio, io? Col mio stipendio, non avrei avuto difficoltà a trovare una nuova compagna, ma costruirmi una famiglia dopo la separazione mi sembrava improbabile. Adesso penso sia impossibile. Con la sua malvagità, Antonio aveva raddoppiato la posta: oltre il rimorso, il rimpianto. E non per un’auto, per un essere umano. I miei colleghi, poi! Furono così semplici da credere ad una reale infatuazione tra mia moglie ed Antonio, non capirono che la mia famiglia passata e quella potenziale erano state sacrificate per pagare i danni morali di un’azienda fallita. E poi Daniela ha esagerato, dopo la lettera è tornata solo una volta a casa prendersi la sua roba. Mediante l’artificio specificatamente femminile di scambiare i ruoli dell’offeso e della carnefice, si è presentata furiosa come se fosse stata lei quella abbandonata. Così si è portata via anche quello che avevamo in comune. Innanzi tutto, Ricky. Io l’avevo scelto, l’avevo pagato, io gli avevo trovato il veterinario, lei lo aveva solo accudito, con quale diritto lo riteneva una sua proprietà? A che le serviva il mio cucciolo, non gli bastava quella bestia spelacchiata che avrebbe trovato a casa di Antonio? Che stupido a non oppormi. Certo, era in collera, ma io sono abituato a gente anche più irascibile, perché non le ho impedito di asportare i libri, i quadri, le foto, le videocassette, i cd, il portatile che deteneva le immagini di tutte le nostre vacanze? Tutti oggetti che avevamo condiviso e che andavano ripartiti con equità. Dovrei chiederle di restituirmi qualcosa, ma quando? Abita sotto il mio appartamento eppure non la incontro mai. Non le ho nemmeno potuto dire che ho cambiato lavoro, che nel mio campo sono arrivato ai vertici. Vorrei che almeno lo sapesse, soltanto questo, non per farle cambiare idea su di me, so che sarebbe impossibile. Che sciocco, i primi tempi, ad illudermi che sarebbe ritornata, ho persino chiuso la storia con la segretaria. Un grave errore, illudersi con Antonio significa perpetuare la pena. Nel mio caso è aumentata nel tempo, perché proprio quando ho compreso di essere assente dai pensieri di Daniela, ho ripreso ad amarla. Ecco di cosa è capace Antonio, di demoralizzare l’antagonista con dispiaceri e, soprattutto, delusioni. Per questo devo cacciare via come uno spettro minaccioso la speranza che qualcuno suoni alla porta per reclamare la macchina fotografica. Non succederà. Nessuno ha perso questo apparecchio, nessuno l’ha abbandonato per caso, nessuno me ne chiederà conto. Non è per caso che sta qui nella mia mano e mi sfida ad utilizzarlo, come fosse consapevole che qualcosa inibisce la mia volontà. Cos’è? Probabilmente il timore di scoprire qualcosa di me che ignoro. È proprio questo il nucleo della strategia di Antonio, demolire l’immagine che l’avversario si è creato di se stesso, costringendolo davanti ad uno specchio severo. Ognuno, per sopravvivere, ha bisogno di credersi migliore di quello che realmente è: Antonio non lo permette.
Forse ci sono arrivato! Forse suppone che io mi scatti una foto e che inorridisca guardandola. No, non è possibile, non funzionerebbe, tutti i giorni, e più volte al giorno, mi guardo allo specchio e mi trovo gradevole. Allora qual è il suo obiettivo? Deve essere qualcosa di letale: sono certo che la mia ultima mossa, la distruzione della casa di campagna dove vivevano i suoi genitori e dove lui ha vissuto fino all’adolescenza, lo ha colpito nel profondo. Anch’io ho delle idee ingegnose. Già, una bella idea, chissà come ci ho pensato… Ah! Il giorno che incontrai il mio amico del catasto, fu allora che decisi di innescarlo affinché trasformasse una tranquilla fattoria in un mostro edilizio da demolire al più presto. Poi però proseguii in autonomia. Se la gente sapesse com’è facile dirottare le raccomandate comunali di preavviso verso un indirizzo complice e muto… Con un po’ di senso dell’umorismo, è divertente constatare la determinazione della burocrazia quando viene provocata da un silenzio colpevole. Forse sono stato anch’io un po’ cinico… quanto sono stato felice nell’apprendere che la demolizione sarebbe cominciata la mattina presto, e come ho riso quando mi raccontarono che i due vecchi furono svegliati dal rumore delle ruspe. In colpa no, non devo sentirmi in colpa: fu grazie ad una mia telefonata che i responsabili concessero loro il tempo di riempire le borse con quanti più oggetti possibili. Mi immagino la scena: i genitori di Antonio che continuano ad inveire per tutto il tempo dello sventramento e cercano di contattare il figlio. Che buffo. Io lo sapevo che era all’estero. Ebbene, a fronte di tanto disastro, anche la persona più pacifica avrebbe ambito ad una vendetta orrenda, figuriamoci Antonio! Sì, ma come può essere racchiusa in una macchina fotografica? Se non so prevederlo, devo almeno saperlo! Coraggio, devo farlo, adesso…
Il pulsante ha emesso un rumore flebile, non sono certo che abbia funzionato davvero. No, eccola lì la pellicola spingersi ancora rabbuiata oltre l’apposita fessura. Se non erro si strappa e si sventola. Così. La foto si sta colorando. Sì, riconosco la prospettiva del corridoio del mio appartamento, ecco la porta del salotto giù in fondo. Bene, non è successo nulla, che sciocco ad aver avuto paura. Stavolta Antonio ha fallito, qualsiasi cosa avesse in mente. Ho inquadrato, scattato e prodotto questa foto senza che alcuna catastrofe si sia abbattuta sulla mia persona. Guardo la foto e rimango sereno, è solo un po’ strana, troppo spoglia. Che ci faccio con questa istantanea? La strappo? La conservo? Non ho più un album di foto, né cartaceo, né digitale, né altro, sarebbe bello ricostituire un archivio di immagini. Devo riprendere un po’ la mano, magari inserire qualche figura, l’architettura del mio appartamento non si giustifica da sola. Peccato che Ricky non sia più con me, potrei preparare un album con i suoi ritratti. Beh, un album intero per un cane forse risulterebbe un po’ noioso. Sarebbe meglio un protagonista umano. Se fossi innamorato di una donna, e lei di me, non esiterei a scattarle centinaia di foto. Anche se avessi un figlio. Mi piacerebbe collezionare gli atteggiamenti spontanei di un bambino, specialmente se fosse il mio. I primi piani invece li dedicherei agli anziani, alle loro facce variegate. I miei genitori sarebbero dei soggetti perfetti, ma sono morti. Chi posso fotografare? Non ho nemmeno un fratello. Potrei ricontattare i miei colleghi di un tempo, quelli con cui giocavo a calcio e mi attardavo in ufficio. Non li vedo da quando ho cambiato azienda. Già! Temo, però, di essere diventato troppo importante, non sono più uno di loro, come mi accoglierebbero? L’invidia e la diffidenza disgregano qualsiasi familiarità. I nuovi colleghi… neanche a parlarne, mi detestano, confondono la mia nomina con la loro bocciatura. Allora cosa ci faccio io con questa macchina? È triste, non mi viene in mente niente. Nessuno da fotografare, nessuno con cui condividere le mie soddisfazioni. A che mi serve ammassare denaro se non ho una famiglia che lo disperde? Che senso ha lottare se non si può festeggiare la vittoria con un sostenitore? Antonio mi ha privato di moglie, figlio, animale domestico, chi mi ha rubato tutto il resto? Forse chi ne ha consuetudine, interpreta la solitudine come libertà, ma io no, io ho bisogno di liti, di confronti, di rumori. Ora questa casa è così vuota che mi pare di sentire l’eco dei miei pensieri. Rimarrà sempre così. Potrei abbandonarla, comprarmi una villa, ma che tristezza arredarla per conto mio. Beh, forse mi aiuterebbe quel mio amico architetto, come si chiama… Amico… non ricordo neanche il nome. Dappertutto ho amici di cui ricordo la funzione, non il nome. E loro non ricordano il mio. Quali amici, bastano tre semplici parole per descrivere la mia vita: sono rimasto solo. Ed io dovrei invecchiare per tanti anni con la consapevolezza che le mie ambizioni non hanno altro fine che me stesso? Fossi almeno malato, o povero, potrei sperare qualcosa. Adesso, qual è il mio sogno? Che rabbia, fino ad oggi sono riuscito a mascherare questo vuoto con gli stratagemmi del mio tempo, infiniti impegni di lavoro, una sostituzione ricorrente di amanti stipendiate, talvolta persino la ricerca proibita della felicità chimica o alcolica. Fino ad oggi. Fino a quando non è comparsa questa odiosa macchina fotografica.
L’ho sempre pensato, abitare in un piano alto ha i suoi vantaggi. Posso osservare la geometria dei parcheggi per le auto su un’area molto vasta. Purtroppo, al piano sotto, le piante di Antonio sporgono di mezzo metro e mi impediscono la vista diretta del marciapiede. Se salto con forza, dovrei riuscire a scavalcarle.


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