Il canto dell’acqua che scorre

di

Ermano Raso


Ermano Raso - Il canto dell’acqua che scorre
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia
15x21 - pp. 54 - Euro 7,20
ISBN 978-88-6037-7326

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Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è 3° classificato nel concorso letterario Città di Melegnano 2006 sez. poesia.


In copertina: fotografia dell’autore


Prefazione

Commentare una poesia così limpida e spontanea quale appare ad una prima lettura l’opera di Ermano Raso è tuffarsi in acque cristalline.
Come ogni corso d’acqua, rivo, torrente o fiume, cela dietro un’ansa o una cascata calette sabbiose, rigogliosa vegetazione, odori e colori inattesi, così i versi di Ermano rivelano inaspettati voli e incantevoli immagini..
Raso scrive in versi liberi, dotati di ritmo e musicalità; egli non pare compiere ricerche formali o stilistiche, ma, profondo conoscitore della parola, la utilizza in modo preciso e sempre appropriato.
Parole genuine, spesso semplici, sempre vive, svolazzano leggere ma imprimono segni profondi, trasmettendo emozioni.
I ricordi sono frammenti di memoria che riemergono con forza, mentre i momenti di gioia si intersecano con la tristezza e il dolore. Il poeta però non indulge mai alla commiserazione e anche la sofferenza viene mitigata dalla dolcezza del ricordo e si trasforma in consolazione perché i legami affettivi che ci hanno uniti a chi abbiamo amato continuano anche quando una persona cara non è più presente.
Se è pur vero che la vita, dove ognuno può sembrare recitare la parte che gli è stata assegnata, talvolta si confonde con il sogno, i sogni nella poesia di Ermano diventano luce che rischiara un cammino che non sempre è sentiero fra i fiori.
Nel mondo attuale, informatizzato e saturo di comunicazione, spesso l’uomo soffre di solitudine, pare non ci sia più spazio per i sentimenti, per la sensibilità, per la commozione. Eppure ancora, per nostra fortuna, esistono i poeti che, come Ermano Raso, non scrivono per esercizio letterario o per lucro, ma per testimoniare i propri valori, gli ideali in cui credono.
“Il canto dell’acqua che scorre” è una raccolta poetica che trasuda amore. Le immagini che l’autore crea sono simili a quadretti multicolori dove risplendono le meraviglie della natura e i giardini dell’anima, descritti con sapienti pennellate utilizzando i cinque sensi e soprattutto il cuore.
Sono messaggi che sfiorano l’eterno, dipanandosi fra passato, presente e futuro, come acqua che scorre gorgogliando dalla sorgente alla foce e poi evapora per ritornare alla terra.
La vita è raccontata nei suoi molteplici aspetti, non sempre idilliaci. Ermano Raso è un sognatore, ma è prima di tutto un uomo, ben inserito nella realtà odierna e consapevole dei problemi che affliggono l’umanità. E in questi casi la sua poesia diventa tormento e i vocaboli stessi graffiano e incidono sonoramente “…Lo scudo che avvolge il mondo / cede lento alle bordate vibrate dal basso /…brucia l’aria, brucia la vita…” Ma è immergendosi nel paesaggio, tuffandosi nei ricordi di un’infanzia serena “…sere di luna sere di stelle / là nel cortile vicino alla stalla…” che i versi scorrono in una lirica mai banale, nonostante gli inevitabili ormai stereotipati elementi poetici, rivelando una capacità di entusiasmo giovanile, che non viene meno neppure con l’irrefrenabile trascorrere degli anni. E la malinconia che aleggia costantemente “…Ma venne l’autunno che disfoglia gli alberi / e attenua la luce…” non è soltanto un cedere alla poesia “facile”, ma reale espressione di maturità e insieme invito a credere nel bene. Un ottimismo che diventa anche sprone ad andare avanti, nonostante le difficoltà, un inno alla vita “…quando irto si fa il cammino/e il piede affonda in fanghi di palude / disegna in cielo il sorriso della luna.”
Elemento comune di tutte le sue liriche è la forza invincibile ed eterna dell’amore, un mondo di affetti che abbraccia persone e animali e fiori e paesaggi, con un’attenzione reverenziale e dolcissima per la Poesia, amica, compagna e amante. “Quando l’autunno abbracciava le piante / e le vestiva dei suoi spenti colori / … E tutto il mondo era poesia…” Come un pittore tratteggia un personaggio con poche essenziali pennellate e poi indulge sui particolari fornendo un’immagine nitida e luminosa.
I suoi versi non sono mai monotoni, utilizzando una molteplicità di soggetti, lievi e danzanti come la donna “sorriso dolce della primavera in festa” e grevi e metallici come i “draghi d’acciaio” che “sputano fuoco”.
Ricordi di un tempo lontano evocano persone e oggetti ormai scomparsi, ma il poeta non si limita a dire “è stato!” Egli “col grimaldello della nostalgia” riesce a riaprire cancelli arrugginiti di un’età che più non torna. E il ricordo torna, vivido e lucente; certo, egli sa che si tratta di un’illusione, ma non importa, “la favola infinita” può continuare.
Solo chi ha amato e perso un compagno di vita quale deve essere stato per Ermano il suo Lehon, capisce l’impeto dell’angoscia che arriva ad arrestare il pulsare del cuore per un breve istante. Eppure quel dolore trasfigura Lehon in “un angelo bianco dalle quattro zampe.” Senza irriverenza, con profondo rispetto. Come potrebbe infatti Dio avere creato gli animali e poi averli esclusi dal suo bel Paradiso?
L’amore, desiderato, vagheggiato, vissuto è “l’astratta felicità”, così vicina e così lontana. Ed è proprio parlando d’amore “sulle ali del pensiero / alla ricerca di paradisi eterni” che il poeta sembra compiere altissimi voli, mantenendo sempre toni delicati e soffusi di dolcissima tenerezza. Come donna apprezzo molto la lirica intitolata “Le parole che non ti ho mai detto”, che mi ricordano un Federico Garcia Lorca meno sanguigno, ma non per questo meno innamorato. (Madrigale d’estate: “…Prigioniero è il mio pegaso andaluso / dei tuoi occhi aperti, / e volerà desolato e assorto / quando li vedrà morti. / Anche se tu non m’amassi, t’amerei…”.)
Il linguaggio sempre attento e contenuto non toglie slancio alla poesia di Ermano Raso, poesia che nasce dall’animo e, in punta di piedi, con il cuore in mano, accende una scintilla d’amore risvegliando sentimenti e desideri che neppure “…un domani che già è ieri, / con la zavorra dei ricordi/via via più greve…” riuscirà a cancellare.

Piera Alloatti


Il canto dell’acqua che scorre


Primo amore

Come raggi di un sole remoto
m’investono ricordi di un’era vanita;
ancora brillano negli spazi siderali del tempo
al palpitare di una stella lontana,
di una fiamma che pur più non brucia
ma che pregna è ancora di nostalgia sottile.
I miei anni: tre volte
le dita di una mano, o poco più:
un po’ ancora l’età delle favole.
Mi sovviene il sentiero a tornanti
che portava su in cielo;
Calcante, il monte,
l’amico più vero,
cui confidavo i primi segreti,
cui domandavo i primi perché;
e la sorgente dall’acqua ghiacciata
di luna ricolma,
che pur mai spense la mia sete di lei.
Rammento di occhiate assassine
affondate nel cuore nell’anima
scompigliare i pensieri,
stravolgere dei giorni il fluire
e delle notti la pace,
poi di coccole brusite in punta di piedi
salire fin su tra le stelle.
Ricordo l’amore che ci innalzava potente
spianarci la strada,
svelarci la via,
e di noi il dissolversi nel blu mare dell’alba
al cader della notte.


Riccioli d’oro

S’intrufola il vento fra i tuoi riccioli d’oro:
di albe e di tramonti essi favellan,
di bionde messi in vista al sole,
di onde crespe in spuma frante.
Occhi di rugiada…
da lor s’effuse il lampo
che mi vinse fatale
e coartò il Tempo a defalcare i passi.
Musa di Poesia…
sulle pagine del nostro romanzo
il barlume tenue della candela
diffonde ambrata la mia gioia di te
e disegna con dita tremanti
il sigillo dei giuri prestati.
Magia d’amore…
tra i valichi del tuo sorriso
si perde il peso della mia età longeva
e torna la mente ai tempi delle mele.
… Nell’incantesimo di un bacio
si placa infine la mia sete di te.


Dedicato ad Alfonso Di Benedetto

È duro questo giorno senza te
e fatica la mente a superar l’assenza
ed escogita essa cavilli su cavilli.
Un anno è volto dal giovial banchetto
una stella è caduta dalla cupola azzurra,
pare l’estate discorrer d’inverno
pare il giorno vestirsi di notte.
Torna alla mente la tua saggezza antica
caro Alfonso che della solerzia facesti vessillo;
di lavori attesi tra scrivania e fili diretti
avanti che il male sbarrasse sordo i tuoi passi.
Mi sovviene d’incontri promossi tra terre lontane,
di mani strette a commensali festanti
giù per i tavoli della grande sala.
Torna alla mente la tua fine poesia
poeta che della penna facesti pennello,
di parole carpite a pagine eterne
e ricomposte nell’etere in note di musica.
Sopravviveranno i tuoi versi, come un’anima,
e le perle di saggezza seminate nel vento
nella terra nel cielo
germoglieranno nei nostri cuori
come fiori di campo a primavera:
saranno canto disperso nell’infinito.
Ed ecco… già un soffio d’immortalità
ha lambito il tuo vissuto.


Ma Dio, dov’è?

Non favellan di vita
le pareti di questa struttura
a dimora de gl’infermi,
e la primavera che valica le finestre dischiuse
non reca conforto alcuno:
questo è un pianeta senza orizzonte.
Vi scorgo volti reclini e vinti,
occhi spenti come lanterne consumate,
corpi mortificati da artigli spietati
di mali tremendi,
la vita che fugge
quale preda inseguita…
E anche il rintocco del pendolo a muro
che osserva avulso
pare dire di tempi scaduti.
Ma Dio… dov’è?


Il profumo della sera

Cadono i fragori del giorno
si allungano le ombre
sbiadiscono i colori,
la sera diffonde per ogni dove
il profumo del fieno maggengo:
lieve il soffio di vento
che lo introduce nelle case
inarca le tendine di lino
che aggraziano le finestre
e con dita leggere carezza la pelle.
S’ode non lungi il canto dei grilli,
rimandano le lucciole
con giri di danza e messaggi di luce.
Parla d’azzurro il lampione,
un nuovo volto rivela di te,
e per colpo d’ala di un angelo
si spegne in me l’ansia caparbia
che mi spingeva a correre.
S’incamminano le stelle,
come rondini a primavera,
in stormi ad inseguir la notte.
Lontano le sponde dell’alba,
un batter di ciglia, ed è già mattino.


La mia estate stupenda

Suonava la banda dalle divise blu
là sulla piazza del paese in festa,
trombe e tamburi sul palco rialzato
spandevan nel borgo sapore di gioia.
Era l’estate dalle notti di fuoco
di canti e di danze sotto il cielo di stelle
di corse e rincorse al chiaro di luna
di giuri e promesse sul fiume del tempo.
C’era nell’aria il profumo dei tigli
c’era il sentiero che portava nel bosco
ed i folletti ci facevano strada
con le lanterne dai vetri di foglie.
Passano gli anni sulla scena del tempo.
Volli ierlaltro ritornare colà:
non v’eran più stelle mancava la luna
e sul sentiero che portava nel bosco
case su case e strade d’asfalto.
E nel faggeto ch’era luogo d’incanti
non v’eran folletti a mostrarmi la via
non v’eran lanterne ad accendere il cuore
ma solo piogge di foglie finite.


Ora che il silenzio

Ora che il silenzio si è posato su di te
come fiocchi di neve adagiati sui giorni
e la sera traccia voli di rondini
e il ricordo svela occhi stellati,
mi sovviene la tua voce fonda
il tuo profumo che la segue lieve.
Leggero appare il soffio di Zefiro
che dei capelli ondeggiar produce
tra cori di abeti e canti di betulle
in un concerto disegnato dal vento:
il vento che racconta, racconta,
che dissolve l’estremo confine.
Sera di maggio, sera d’incanti,
di poesia nell’ora dei poeti
di danze di rime alla valzer viennese.
Verga la penna parole sulla carta
agile pennello a fermare l’attimo…
Nero è l’inchiostro che lucida il ricordo.


Dove abita la verità

Non cercare la Verità ai confini dell’universo
oltre le origini del tempo,
nei misteri dell’inscindibile nucleone
ai margini del concreto
là dove l’idea della materia vacilla,
o ancora tra le parole di sedicenti dotti;
né tra le dottrine
di pensatori accreditati.
Essa dimora nelle cattedrali dell’anima,
nella voce silente che alberga in te
quando rallenti i passi e cade l’ansia,
e si stemperano nella luce le ombre.


Paura nell’aria

Non vedo più rondini sui cavi dove la forza
sfreccia alla velocità del pensiero,
la primavera passa rapida
accende i colori ed è subito estate.
Lo scudo che avvolge il mondo
cede lento alle bordate vibrate dal basso
ad una volta frantumata
che raggi fatali violano incontrastati.
Bolidi di metallo sfrecciano in cielo,
effimeri miraggi che la vista mal coglie,
graffiano l’azzurro,
liberano semi di distruzione,
scompaiono come per gioco di prestigio.
Da terra draghi d’acciaio sputano fuoco,
la notte si tinge di rosso, di verde,
brucia l’aria, brucia la vita.
Come in un sogno tormentato da incubi
torna lo spettro della bomba
che combina l’idrogeno.
Aleggia il timore di una fine annunciata,
di giorni freddi e bui,
di polveri che celano la luce.
C’è paura oggi nell’aria.


L’uomo che parlava al mare

Quando l’autunno abbracciava le piante
e le vestiva dei suoi spenti colori
e Maestrale soffiava sul mare
quasi a spazzare i cocci d’estate,
giù dove l’onda batteva la sabbia
trovavi il vecchio che parlava al mare.
Bianchi i capelli, bianca la barba,
azzurri gli occhi che specchiavan le acque,
faceva ponte fra la terra e il cielo.
Non possedeva trascorsi di glorie
da sgranare al mondo sul filo dell’ego,
non già averi da sfoggiare al sole
o ancora denari per prestigio od altro,
ma solo vestiti un poco consunti
ed una canna per giunta vetusta
cui appoggiare il peso degli anni.
E a chi gli chiedeva il suo nome qual fosse
lui rispondeva “Il mio nome è Nessuno”.
Però si diceva che quando parlava
come una musica s’udisse nell’aria,
che anche il vento arrestasse la corsa
e come cavalli nell’immenso mare
s’impennasser l’onde,
e quando la sera si faceva più sera
dall’alto del cielo della grande notte
anche le stelle scendessero giù
a cercare di lui.
E tutto il mondo era poesia, vicino e lontano,
anche tra chi il suono dell’anima
nelle parole non sapeva più cogliere.


Quel paese baciato dai monti

Rimanda la memoria ad un’estate lontana,
ad un piccolo paese baciato dai monti
tra boschi di faggi e prati di sole
e pascoli stesi su incontro al cielo;
a case antiche dai tetti di tegole piatte
fiancheggiate da sentieri di pietre,
a risvegli in mattini blu mare
con la pallida luna che sfumava nel cielo.
Era l’ora del latte mescolato al caffè
che nonna Maria scaldava sul fuoco,
la stufa a legna dalle poche pretese.
Oltre il sentiero, proprio lì accanto,
non più di tre passi,
c’era la casa di donna Angelina
con cani e gatti e mucche da latte
ed i due figli Beppe e Minino
i veri amici della mia gioventù.
E noi tre insieme, i meriggi assolati
lassù nei prati con lo sguardo ai monti
a discorrer di vita, a parlare del poi
tra un colpo di falce ed un ritornello
cantato alla Valle…
con il pensiero scagliato in avanti
che si frangeva
sul panorama degli anni a venire.
L’ora del latte, il meriggio alle sei
giù nella casa di donna Angelina
lieto ritrovo di giovani e non,
era la porta che introduceva alla sera.
Sere di luna sere di stelle
là nel cortile vicino alla stalla,
sere tra amici che parlavan del mondo
tra mille domande poste alla notte
tesa in ascolto in grande silenzio.
…Ed or che possiedo io quelle risposte
son le domande volate col vento.


Il nostro cammino tra le stelle

Siamo parte di un ingranaggio
che non lascia scampo
dove ancora impera la legge crudele
della sopravvivenza che costringe a uccidere,
sperduti in un’immensità
ardua da ridurre a concetto,
passeggeri di un’astronave sferica
proiettata verso mete sconosciute,
dove l’acquisizione di conoscenza
pare essere direttamente proporzionale
al dilatarsi delle distanze.


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