Storia senza eroi - ottobre 1944 i cannoni di Pontestura

di

Ermanno Ronco


Ermanno Ronco - Storia senza eroi - ottobre 1944 i cannoni di Pontestura
Collana "Le Querce" - I libri di Saggistica e Diaristica
15x21 - pp. 190 - Euro 13,50
ISBN 978-88-6587-5902

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In copertina fotografia dell’autore


Una pagina controversa e per molti aspetti misteriosa della storia d’un paese del Monferrato. Una vicenda in cui ferocia e angoscia, brutalità e disperazione, ed il destino di molte vite ruotano intorno a due testimoni muti ed impassibili, involontari protagonisti d’una storia di terrore, di distruzione e di morte, che ha lasciato una cortina impenetrabile di reticenze, di contraddizioni, di testimonianze discordanti, di velate allusioni e insinuazioni fuorvianti, di indizi artificiosi, di silenzi; e di fantasie letterarie, elevate al rango di testimonianze autentiche da imbarazzanti attestati di veridicità. A settant’anni da quegli avvenimenti, tutto è ancora come se nel cielo di Pontestura il fumo dell’incendio non si fosse mai dissolto.

Storia senza Eroi è il racconto di un’indagine che si è svolta così come viene proposta al lettore: analizzando e confrontando le fonti che affiorano a volte in modo disordinato, foriere più di dubbi che di certezze, fino ad acquisire via via frammenti di verità, talvolta sorprendenti e volutamente nascosti fino ad oggi. Ma è soprattutto un suggerimento a non accettare passivamente tutto ciò che si apprende dalla storiografia ufficiale dell’immediato dopoguerra, troppo sovente contaminata da interessi personali o di parte, la cui eco ancora giunge ai giorni nostri in reboanti rievocazioni commemorative, in ricostruzioni romanzesche e talvolta – cosa più grave – nei testi più autorevoli. Dopo settant’anni, il lavoro degli storici ha da essere ancora lungo.


PREMESSA

Dei fatti di Pontestura, il paese monferrino duramente colpito dalla violenza nazifascista il 17 ottobre 1944, nel corso degli anni sono state prodotte rievocazioni non sempre pienamente concordanti. Tuttavia, prescindendo dal possibile interesse strategico del luogo, un punto assolutamente fermo in tale vicenda rimane il fatto d’armi dal quale essa prese avvio: la cattura di uomini e materiale da parte di una squadra di partigiani appartenenti alla formazione autonoma Monferrato. La paternità di tale azione, da sempre, dovrebbe essere fuor di di­scussione; eppure, in qualche caso, è stata attribuita ad una formazione garibaldina. Forse è opportuno, qui, sottolineare un giudizio largamente condiviso: le azioni partigiane, da qualsiasi formazione siano venute, non possono esser ritenute la causa delle atrocità nazifasciste sulla popolazione; l’eccidio delle Fosse Ardeatine l’han compiuto i tedeschi, mica gli attentatori di via Rasella. Non tutti saranno di questo medesimo avviso, può darsi; ma non vorremmo pensare che il signor Lino Denti, da ex-appartenente alla Divisione Autonoma Monferrato, abbia scientemente inteso scaricare sui garibaldini la “responsabilità” di quella tragedia. Eppure, tra le pagine di un recente lavoro dell’ex-sindaco di Camino, dobbiamo registrare ancora una tra le “rivelazioni” più sorprendenti che mai siano state fatte su quell’accadimento: il Denti, incredibilmente tacendo dell’azione fin qui universalmente riconosciuta quale innesco della vicenda, e della quale egli dovrebbe pur essere a conoscenza, sostiene invece che «la rappresaglia nazifascista fu la conseguenza dell’attacco ad una colonna di Brigate Nere dirette a Camino, da parte di un gruppo di partigiani della X Divisione Garibaldi “Italia” che nello scontro perse il suo capo, il 12 settembre 19441».
Denti si riferisce, retrodatandolo, all’episodio del 23 settembre 1944 in cui perdette la vita Emilio Bigliani. C’era “bisogno di eroi”, nell’immediato dopoguerra, ed anche su quell’episodio furono scritte alcune falsità, imputabili principalmente ai redattori del Diario Storico della X Divisione Garibaldi; tuttavia, neppure la versione ufficiale del fatto da essi fornita fa accenno ad un attacco ad una colonna della Brigata Nera. Al contrario, vi si sostiene che furono il Bigliani ed i suoi quattro compagni, a bordo di un piccolo autocarro, ad esser sorpresi da un’imboscata portata loro da pochi tiratori, «vili fascisti» nascosti «nel buio della notte2». Ma, forse Denti non lo sa, anche quei cinque partigiani appartenevano agli autonomi e – ironia della sorte – proprio al suo stesso gruppo3. Successivamente, a seguito del passaggio alla X Divisione Garibaldi “Italia” di un numero consistente di elementi della VII Divisione Monferrato, la nuova brigata garibaldina di cui questi ultimi vennero a far parte fu intitolata, il 6 febbraio 19454, al loro compagno caduto. Il redattore del citato Diario Storico, Vincenzo Coppo, probabilmente trovò disdicevole che una brigata della divisione fosse intitolata ad un autonomo e, con la stessa disinvoltura con cui inquinò altri episodi più importanti, ovviò alla cosa consegnando il Bigliani alla Storia come garibaldino. Ma tant’è: Lino Denti, compiendo un notevole balzo all’indietro nel tempo, anticipa al 23 settembre la “causa scatenante” i fatti del 17 ottobre, rimarcandone una presunta “responsabilità” dei partigiani garibaldini. Essendo egli stato, in quel periodo e nei dintorni di Camino, partigiano della Monferrato e proprio nello stesso gruppo di cui faceva parte anche il Bigliani, riesce comunque difficile pensare che abbia trattato quei fatti, nella zona conclamati almeno sotto quell’aspetto, con una superficialità tale da concedersi una svista del genere. Ma ci viene forse in soccorso una frase tratta dalla sua stessa opera: «Mi trovai al Peso con il maestro Ronco di Mombello, che stava formando un gruppo di partigiani, ma non mi rispecchiavo nelle sue idee troppo radicali5». Ecco: forse l’inguaribile Denti, già allora, aveva in cuor suo anche l’idea di una Resistenza “superficiale”.

Ad un Autore legato a Pontestura, Marco Rollino, dobbiamo invece una versione un poco romanzesca dell’intera vicenda. Dichiaratamente egli attinge alle testimonianze autentiche di alcuni protagonisti, implicitamente rivendicando il valore storico del proprio lavoro; tuttavia, con allusioni velate ma incisive, anche Rollino pare suggerire l’appartenenza alla formazione garibaldina dei partigiani coinvolti. Ci occuperemo ampiamente, nelle prossime pagine, di quel suo racconto; qui invece, in ragione delle molte ed inequivocabili testimonianze al riguardo, è necessario ribadire una volta per tutte che quell’azione venne condotta da un gruppo di partigiani che faceva capo alla Monferrato. Liberato il campo dall’equivoco che potrebbero generare, in chi vi s’imbattesse, tali teorie tanto infondate quanto ingombranti, v’è da dire che ancor oggi tutta la vicenda presenta molti aspetti mai chiariti.

«[…] parecchie persone, come già accennato, hanno risposto alle nostre interviste atte a raccogliere più materiale possibile per questa nostra inchiesta. Molte sono state le informazioni avute, a volte con versioni stranamente contrastanti tra di loro su fatti e persone6 […]». Questo passo, apparso nel settembre 1975 sul periodico cattolico locale “La Grande Famiglia”, individua meglio di ogni altro le ragioni della difficoltà di tentare una ricostruzione storica dei fatti che interessarono il paese di Pontestura nell’ottobre del 1944. Difficoltà che oggi ritroviamo ingigantita dalla definitiva impossibilità di attingere ad ulteriori testimonianze dei protagonisti; gli altri, coloro che all’epoca dei fatti eran bambini o poco più, sebbene sian fonte diretta di informazioni preziose per ricostruire la dinamica degli avvenimenti più manifesti, altro non possono aggiungere, se non per sentito dire, circa le ragioni di quella sventura e circa la successione degli eventi che portarono alla soluzione che per sommi capi tutti conoscono. Lacunose approssimazioni, ma anche interpretazioni del tutto personali, forse anche inconsapevolmente elaborate a partire da testimonianze non del tutto immuni da reconditi interessi, hanno prodotto nel tempo un inestricabile groviglio di supposizioni spacciate per certezze, di attribuzioni arbitrarie più o meno esplicite, di conclusioni affrettate, nel quale purtroppo trovano spazio anche omissioni colpevoli e menzogne fuorvianti, figlie della propaganda o della vanagloria, quando non di un preciso disegno atto ad occultare fatti innominabili. È questo un fenomeno ben noto a quanti si siano occupati della Resistenza nel Monferrato: Borioli e Botta, nel sottolineare «le difficoltà di comprendere a fondo i movimenti insurrezionali […] in una documentazione assai spesso lacunosa e contraddittoria, caratterizzata da buchi notevoli e, talvolta, da imbarazzanti sovrapposizioni7», si riferiscono proprio a quel territorio, ed in particolare al Monferrato casalese ed alla Valcerrina. Inevitabilmente, tali vizi son giunti talvolta a contaminare il lavoro di ricerca, ed in qualche occasione nemmeno gli studiosi più attenti ne son stati immuni. Per restare al nostro caso, anche Giampaolo Pansa attribuisce alla formazione Garibaldi la paternità dell’azione che innescò la violenza nazifascista su Pontestura8. Sicuramente a ciò non è estranea un’annotazione fuorviante di fonte garibaldina9; fatta salva la buonafede del noto Autore, poco importa che tale inesattezza sia stata il frutto d’una informazione sbagliata: ne importano invece le conseguenze, giacché il prestigio del soggetto conferisce garanzia di veridicità all’affermazione, diventando essa stessa una fonte attendibile per i ricercatori che vi si richiameranno. E tra molti anni si dirà che le cose andarono senz’altro così, poiché così starà scritto sui libri di storia. Infatti le fonti spesso si rincorrono, a volte inseguendo e riprendendo i loro stessi errori. A tal proposito può giovare un esempio, banalissimo ma significativo, che ancora riguarda la vicenda di Pontestura: nel 1967, Pansa datò il rastrellamento e l’incendio al 16 ottobre10, esattamente come nel 1946 aveva fatto l’Angrisani11 e come avrebbe poi fatto il Favretto12 nel 2009. Ma i Pontesturesi almeno in questo han buona memoria, ed in paese la lapide che ricorda quel giorno terribile porterà inciso “17 OTTOBRE 1944” per molto tempo ancora, con buona pace degli storici. Un giorno di differenza non cambia i fatti; ma la storia, purtroppo, si fa anche così. Ed infatti ancor oggi, sbagliando, un ente autorevole come l’ISRAL13 afferma, insieme con altri dettagli assolutamente non rispondenti al vero, che in quel tempo la X Divisione Garibaldi “Italia” era dislocata a Pontestura14; un’affermazione analoga appare anche altrove15.

Lasciando gli storici al loro mestiere, abbiamo visto tuttavia che anche altri se la son sentita di dare il proprio contributo, vieppiù ingarbugliando la già intricata matassa. A settant’anni da quegli accadimenti, a rischio di entrare a far parte di quella compagnia, l’intento del sottoscritto è quello di avventurarsi lungo l’accidentato percorso disegnato da ricostruzioni e testimonianze, note e meno note, analizzandole e confrontandole; e lasciando all’intelligenza del lettore il riconoscere quanto in quelle vi sia di assolutamente inconfutabile, di logicamente deducibile, di supposto o di azzardato, di tendenzioso o di falso.

Ermanno Ronco


note:

1 Lino Denti, Le cinque stagioni della mia vita, Tipolitografia di Borgosesia, 2012, p. 207.

2 AA.VV., Diario Storico della X Divisione Garibaldi “Italia”, Unione Tipografica Botto, Alessio & C., Casale Monferrato 1945, p. 62.

3 el settembre 1944, Lino Denti ed Emilio Bigliani militavano entrambi nella banda Nardo, un gruppo di circa trenta uomini facente capo alla formazione autonoma Monferrato.

4 Diario Storico della X Divisione Garibaldi, cit., p. 44.

5 L. Denti, op. cit., p. 204.

6 La Grande Famiglia, anno XXIV n° 9, settembre 1975.

7 Daniele Borioli, Roberto Botta, Quaderno di Storia contemporanea n° 16, 1985-86, pp. 7-16.

8 Giampaolo Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, Laterza, Bari 1967, p. 285.

9 Diario Storico della X Divisione Garibaldi, cit., p. 35.

10 G. Pansa, op. cit., p. 285.

11 Giuseppe Angrisani, La Croce sul Monferrato durante la bufera, II edizione, Opera delle Vocazioni, Casale 1949, p. 39.

12 Sergio Favretto, Resistenza e nuova coscienza civile, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2009, p. 100.

13 Istituto Storico per la Resistenza della provincia di Alessandria.

14 Cfr: www.isral.it/web/web/storiedel900/. In realtà, la formazione garibaldina più vicina alla zona di Pontestura era il Distaccamento Fox o Valcerrina della LXXIX Brigata Garibaldi Alessandria, il cui comando all’epoca era insediato a Cascine Maroli (Casalino di Mombello); nessuna squadra di quel distaccamento, né di altre formazioni garibaldine peraltro molto più lontane, fu mai dislocata nel territorio di Pontestura.

15 cfr: Marilena Vittone, Il Tempo della Memoria (la rappresaglia tedesca del 19 settembre 1944), “L’impegno”, a. XXIV, n° 2, dicembre 2004, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli (http://www.storia900bivc.it).


Storia senza eroi - ottobre 1944 i cannoni di Pontestura


6. Una versione tendenziosa

Tralasciamo per un momento il racconto di Caniggia, e torniamo ad occuparci del testo di Rollino. Abbiamo già riscontrato notevoli discordanze tra queste due fonti: il senso di marcia dei mezzi ed il numero dei cannoni; per ciò che riguarda poi i tempi dell’azione, abbiamo trovato che il Dutùr di Rollino, in un ipotetico dialogo del primo pomeriggio di lunedì 16 con il Maresciàl, fa risalire genericamente l’accaduto a «la scorsa settimana, adesso non so dirti se martedì o venerdì. È una cosa di qualche giorno fa134». Questo accenno, volutamente vago per mettere in evidenza la scarsità di informazioni di prima mano in possesso dei due interlocutori, in realtà ha una sua ragione d’essere anche nell’economia del racconto di Rollino: infatti permette di sostenere la credibilità di un precedente colloquio che invece, alla luce della testimonianza di Caniggia, nella realtà non potrebbe essere avvenuto all’ora indicata dall’autore de “I dì del Puciu”. Infatti, mentre secondo Caniggia i cannoni non sono ancora in mano partigiana, secondo Rollino da qualche parte già ci sarebbe chi si preoccupa del “dopo”.

Siamo a Pontestura, prima dell’alba del 16 ottobre, intorno alle cinque del mattino, ed il Maresciàl riceve una visita. È un uomo di nome Pinìn: «uno che conosceva i movimenti degli eserciti nella zona», un uomo «notoriamente legato ai partigiani» che si servono di lui «per trasmettere informazioni, portare messaggi, e perché no, all’occorrenza anche gettare il discredito135». Un ritratto breve, che tuttavia ci dà immediatamente una connotazione negativa del soggetto. Notiamo anche come l’Autore, curiosamente, non dia alcuna indicazione circa la formazione di appartenenza; anche nel resto del suo romanzo-rievocazione egli non vi farà mai accenno esplicito. A quali partigiani costui sia legato, il Rollino non lo dirà mai, in nessuna pagina del suo libro; in compenso ci suggerisce subito la sua fede politica: «lui rosso come il sangue»; e quattro righe più sotto: «lui rosso136». Pinin riferisce al Maresciàl: «ti vuole il comandante, mi hanno detto che hanno bisogno di te al comando partigiano137». Dobbiamo qui anticipare che si tratta del comando della brigata cui appartengono coloro che han preso i cannoni, e che già si preoccupano di trovare qualcuno che di cannoni s’intenda. Segue una animata discussione, nel corso della quale il Maresciàl afferma: «[…] faccio del mio meglio per il mio gruppo, per il quale sono pronto a qualsiasi sacrificio, e ne condivido le idee e la politica. Non voglio più aver a che fare con elementi dissennati come quelli della tua brigata138». Alle rimostranze di Pinìn, il Maresciàl replica: «[…] Quelle teste calde dei tuoi amici, per il potere, il potere politico, per avere l’egemonia anche sul nostro territorio sarebbero pronti a spararci addosso. Altro che fratelli patrioti, vi servite della lotta di liberazione per i vostri interessi politici. Chi non la pensa come voi è un nemico, fratelli patrioti un accidente139». Tanto più se messe in relazione con il «rosso» di cui sopra, è difficile pensare che le parole del Maresciàl non alludano ad un gruppo di comunisti, anzi: ad una “brigata” di comunisti140. Nell’ottobre ’44, Luigi Rollino (il Maresciàl, padre dell’Autore de “I dì del Puciu”) faceva parte, con funzioni di collegamento, della formazione Patria: con tutti i distinguo del caso, la Patria era una formazione autonoma, come autonoma era la Monferrato; e anche se certamente qualche elemento tendenzialmente «rosso» militava nelle file di entrambe… suvvia: neppur troppo velatamente, Rollino non fa nulla per non lasciar intendere che i dissennati, le “teste calde” in questione, fossero comunisti; ed ecco che i lettori concluderanno: «Garibaldini», pensando in ciò di trovare anche conferma ai fiumi di luoghi comuni circa le motivazioni dei partigiani militanti nelle Garibaldi e dei loro comandi, somministrati loro da certa letteratura scaltramente votata alle operazioni commerciali più redditizie. Chiunque legga quelle poche ma pesantissime righe senza conoscere assolutamente nulla di questa storia – e si badi bene che il racconto è destinato in particolare a costoro141 – ne sarà inevitabilmente condizionato; il lettore di Rollino non si sognerà minimamente di domandarsi quale formazione abbia “provocato” la tragedia di Pontestura quand’anche, ultimata la lettura, malauguratamente gli accadesse di notare che l’Autore mai l’ha nominata. E forse è proprio per rinfrescare la memoria di un lettore eventualmente troppo di­stratto che Rollino, giusto nell’ultimo suo capitolo, dipinge la figura di un commissario politico, anche costui appartenente alla brigata che detiene i cannoni, che ostacolerebbe la missione del Maresciàl: «la gente come lui, imbottita di dottrina politica tanto da perdere il senno, sa soltanto scrivere editti farneticanti. Il nemico di qua, i traditori di là, eccetera eccetera142…». Uno che scrive, par di capire. «Quanto a far qualcosa, te lo raccomando. Se fosse costretto a combattere, sparerebbe con la macchina da scrivere143!». Un indiretto riferimento a questo personaggio Rollino l’ha già fatto, appena quattro pagine prima: anche lì, caso strano, si cita una macchina per scrivere: «a volte mi chiedo se al posto del cervello quei dissennati hanno una macchina da scrivere144». Per una singolare coincidenza, è un ritratto che ben potrebbe adattarsi a Vincenzo Coppo (Enzo), il commissario di guerra (è la denominazione esatta: solo in un primo tempo gli uomini che ricoprivano tale ruolo erano definiti “commissari politici”) della allora LXXIX brigata Garibaldi Val Cerrina ed in seguito della X divisione Italia: tipografo, cofondatore del foglio garibaldino Scintilla, redattore del mirabolante Diario Storico della X Divisione Garibaldi Italia, giornalista della Gazzetta del Popolo nel dopoguerra. «È malato di protagonismo e di ideologia: a volte mi chiedo se la differenza tra i politici stia esclusivamente nel colore della camicia, per gli uni nera, per gli altri rossa, ma la sostanza sia sempre la stessa145». Addirittura un accenno alla camicia rossa: il segno distintivo dei garibaldini.
Dopo aver ricevuto la visita antelucana del suddetto Pinin, intorno alle due del pomeriggio dello stesso giorno il Maresciàl si reca a Camino dal proprio cugino, il Dutùr. Ricordiamo che Serrafero, nel quale si identifica il Dutùr di Rollino, in ottobre ’44 faceva parte, come ufficiale sanitario, della formazione che aveva per comandante Oreste Spinoglio (Pedro). Il Maresciàl riferisce del colloquio avuto con l’emissario dei partigiani che detengono il cannone: «il Pinin, il comunista, […] mi ha detto che il comando partigiano del suo gruppo mi sta cercando, il comandante vuole parlarmi, tu sai a chi mi riferisco146». Una volta di più si mette in evidenza la fede politica di questo Pinìn, ma si tace il nome del suo comandante e soprattutto la formazione di appartenenza di quest’ultimo; e siam convinti che, se non fosse stato per un brutto effetto grafico nella pagina, la parola “comunista” sarebbe stata scritta in grassetto e sottolineata. Per ciò che riguarda invece quel commissario, forse siamo troppo sospettosi, e veramente si tratta soltanto di una coincidenza: può benissimo darsi che il Maresciàl, partigiano della Patria, mai abbia conosciuto il commissario di guerra, o politico che dir si voglia, dei garibaldini della Val Cerrina, e neppure abbia mai saputo della sua esistenza. Però non possiamo fare a meno di sottolineare che nella banda di Nardo mai nessuno ricoprì quel ruolo147, e che nelle formazioni autonome, almeno inizialmente148, non era prevista la figura del commissario politico. Infine, quasi ci dimenticavamo, Luigi Rollino, il partigiano non combattente Paolo, riferimento pontesturese della brigata Patria, noto in paese anche come Maresciàl, il 15 novembre 1944 passò alla 181ª brigata Piacibello (della X Divisione Garibaldi Alessandria), la nuova denominazione della LXXIX brigata Valcerrina.

È necessaria però una precisazione. Con le considerazioni di cui sopra non s’è inteso metter in dubbio la possibilità che un comunista come il citato Pinìn (un nome fittizio dietro al quale Rollino certo vuol celare la vera identità del personaggio149) possa aver contattato il Maresciàl a nome dei partigiani autonomi detentori del cannone, né che il commissario politico d’una formazione d’ispirazione comunista, fosse anche l’Enzo della allora LXXIX Brigata Garibaldi, possa aver voluto dir la sua in merito: specialmente nell’autunno del ’44, in tutto il Basso Monferrato i contatti tra le bande, anche tra quelle più distanti tra loro per ispirazione, erano molto più stretti di quanto una lettura “politica” di quel periodo storico lasci immaginare. Ma, il Maresciàl certo lo sapeva, a requisire i cannoni non furono i garibaldini, bensì gli autonomi; e ci dispiace che Rollino non l’abbia confidato ai propri lettori, facendo invece di tutta l’erba un fascio. E, trattandosi di partigiani, non era proprio il caso.


note:

134 M. Rollino, op. cit., p. 71.

135 ivi, p. 34.

136 ibidem.

137 ivi, p. 35.

138 ibidem.

139 ibidem.

140 Se il Pansa verosimilmente è stato tratto in inganno dal Diario Storico della X Garibaldi (vedi cap. 4, nota 10), non può essere accaduto altrettanto a Marco Rollino, la cui fonte principale è il proprio padre, Luigi.

141 M. Rollino, op. cit., pp. 229-230.

142 ivi, p. 217.

143 ibidem.

144 ivi, p. 213.

145 ivi, p. 217.

146 ivi, p. 69.

147 Archivio E. Ronco, Testimonianza di Franco Uberto, registrazione audio/video.

148 Soltanto in seguito la VII divisione Monferrato ebbe in Renato Corrado (René) il proprio commissario di guerra.

149 Il personaggio in questione è facilmente identificabile con Luigi Cattaneo, detto Bigìn, collaboratore dei garibaldini della Valcerrina (nel Diario Storico della X divisione Garibaldi è citato come staffetta ed informatore): in realtà «il comando partigiano del suo gruppo» non aveva nulla a che vedere con i cannoni.

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