Il Capitano Orlandi (la vera storia del Distaccamento Fox)

di

Ermanno Ronco


Ermanno Ronco - Il Capitano Orlandi (la vera storia del Distaccamento Fox)
Collana "Le Querce" - I libri di Saggistica e Diaristica
15x21 - pp. 284 - Euro 16,00
ISBN 978-88-6587-0969

Libro esaurito

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In copertina e all’interno fotografie dell’autore e, dove indicato, fotografie Archivio Torielli di Casale Monferrato


Le memorie di Rinaldo Ronco, a suo tempo noto in tutto il Monferrato casalese come Capitano Orlandi, costituiscono il filo conduttore di questa biografia che attraversa la storia della prima formazione partigiana della Valcerrina, dalla fondazione del suo nucleo originario alla liberazione di Casale Monferrato ed alla successiva smobilitazione.
Una ricca documentazione – di particolare interesse quella riguardante i soprusi e le violenze nel comune di Mombello Monferrato durante il fascismo – e l’abbondante ricorso a citazioni autorevoli contribuiscono a delineare un racconto che si sviluppa cronologicamente senza perdere di vista un contesto storico più ampio.
Episodi inediti e rivisitazione di fatti spesso travisati non mancano di creare spunti per chi volesse avviare un’indagine più approfondita su aspetti poco noti della storia dei garibaldini della Valcerrina.
Luoghi e volti della Resistenza nella documentazione fotografica, ed in chiusura un originale indice degli pseudonimi, completano il volume dedicato alla memoria di Rinaldo Ronco nel centenario della nascita.


Introduzione

Ho sentito parlare della Resistenza, posso dire, fin da quando son nato. Monte Sion, le staffette, Maroli, Pierin d’la Müla, la Brigata Piacibello, la nonna Vittorina, Bondesan, Ozzano, Leandrin… le persone, i luoghi, i fatti: tutto dell’esperienza di mio padre mi è familiare. Certo da bambino non potevo che cogliere, disordinatamente, soltanto qualche frammento di quei racconti che udivo in famiglia; ed anche in seguito, attratto più dagli interessi propri di un adolescente che non dalla necessità di metter ordine nella mia conoscenza, il quadro di quegli avvenimenti rimase per me a lungo confuso. Poi, negli anni Settanta, presi ad accompagnare mio padre a quelle pubbliche manifestazioni cui intendeva partecipare: discorsi commemorativi, rievocazioni. Ascoltavo; man mano, a qualche episodio, che il più delle volte per sommi capi già mi era noto, si aggiungeva ora un nome, un volto. Potei così conoscere di persona alcuni personaggi del mio immaginario di ragazzo affascinato da quell’epopea. Andavo poi a cercare sul Diario Storico della X Divisione Garibaldi “Italia” quei fatti e quei nomi, e ponevo domande a mio padre. Ma, a fronte delle parole che trovavo scritte su quell’opuscoletto, egli spesso rintuzzava in me l’entusiasmo e l’ammirazione per alcuni dei dettagli là descritti, bollandoli evasivamente come esagerazioni; per contro, metteva piuttosto in risalto le sofferenze ed i sacrifici della popolazione, ed il contributo tanto determinante quanto oscuro che essa diede alla Resistenza. Più che delle imprese dei Billy, dei Morgan, dei Lilla e dei Cian-cian, egli mi raccontava dei primi suoi partigiani venuti sulle colline da Palazzolo Vercellese, del loro coraggio e della loro abnegazione, di come alcuni tra loro fossero padri di famiglia già avanti negli anni, senza alcun obbligo di leva; mi parlava delle staffette come il nostro compaesano Silvio Perotti; di Ernesto Cavallo, anch’egli di Mombello, non combattente ma che fu tra i primi organizzatori della banda Fox; di Celestino Gabiano, contadino, picchiato a sangue dalle camicie nere, il quale tuttavia aveva continuato a sfamare e nascondere partigiani. Gente, anche quella, che aveva rischiato la vita: eppure gente dimenticata.
Mio padre era un abile ed apprezzato oratore; spesso invitato a prender la parola nelle commemorazioni, parlava a braccio, e sapeva toccare le corde giuste, suscitando sapientemente ora commozione, ora entusiasmo. Ma nei suoi discorsi ben poco spazio lasciava all’esaltazione dei fatti d’arme e, tratto questo suo caratteristico, nessuno all’autocelebrazione. Poneva sempre l’accento piuttosto sulla tragicità di quella guerra, non diversa da tutte le altre, col suo strascico di brutalità e di morte, di sofferenza e di sacrificio. Poco alla volta, però, e non credo per sua scelta, la sua presenza in quella veste andò diradandosi, fino a scomparire del tutto. Nel frattempo, ad una trentina d’anni ormai da quegli avvenimenti, le rievocazioni che mi accadeva di ascoltare nelle manifestazioni, o che comparivano sui giornali, per la maggior parte ancora ricalcavano, nei toni, la stessa prosopopea che ritrovavo nel Diario Storico, o ne La Croce sul Monferrato durante la bufera. Mi tornavano alla mente i miei libri di scuola: gli eroi della Storia, i martiri del Risorgimento… ma, mi domandavo, chi aveva potuto udire Amatore Sciesa pronunciare il suo tiremm innanz, chi i fratelli Bandiera gridare il loro viva l’Italia, se non soltanto i loro carnefici? Incominciavo soltanto allora a distinguere ciò che ogni vero studioso penso riconosca a colpo d’occhio.
Sebbene compilato da alcuni degli stessi protagonisti, ed immediatamente alla fine del conflitto, paradossalmente già nel Diario Storico si trovano i germi responsabili di quella corruzione della realtà che nel tempo ha reso arduo il districarsi tra contraddizioni, incongruenze, palesi menzogne ed improbabili verità. Se per un verso può apparire comprensibile, alla fine del conflitto, l’aver ceduto all’euforia del momento, meno accettabile è l’aver perseverato, negli anni, nell’avallare certi fatti così come furono allora descritti. Non mi riferisco alla retorica, agevolmente riconoscibile e dunque di nessuna rilevanza, che pure abbonda in quell’opuscolo; il Diario Storico, ad un attento esame, presenta ingenue contraddizioni ed evidenti forzature al limite della menzogna – ed in qualche caso anche oltre quel limite – tali da aver sortito, ritengo, il duplice effetto di aver da un canto allontanato dalla formazione garibaldina l’interesse dei ricercatori, con il conseguente ma esagerato ridimensionamento del suo ruolo; e dall’altro di aver creato tra gli stessi protagonisti una sorta di reciproco omertoso ricatto tale da autorizzare in un certo senso il diffondersi impunemente di personalissime versioni, assai addomesticate, della verità.

«Un novello partigiano arriva sulle colline: pensa di trovare gente organizzata, invece trova soltanto tre cani sciolti. Il giorno dopo, al comando di quelli disarma un posto di blocco. Pochi giorni ancora, ed ormai sono in venti. Ad essi si uniscono altri, ed altri ancora: ora quel partigiano comanda la LXXIX Brigata Garibaldi, trecento uomini da Mombello a Fubine e nel sud della provincia01».

Tutto ciò finisce su di un libello di scarsa rilevanza; ma un domani, chissà? Chi leggerà quelle righe sarà in grado di appurare, scomparso ogni testimone, che quell’ardimentoso era semplice gregario in una banda comandata da un altro partigiano poi caduto in combattimento, e che mai comandò la LXXIX, bensì la Brigata Piacibello soltanto dal marzo 1945? Beninteso, l’uomo in questione fu un vero combattente ed un vero comandante; ma quella storia andò in tutt’altro modo. Oggi, grazie alla tecnologia, anche notizie di questo genere possono avere valenza di verità assoluta sul grande pubblico. Su una pagina web dell’ISRAL si legge che nella Val Cerrina furono molto attivi diversi gruppi partigiani aggregati alla Brigata Autonoma Monferrato (e i garibaldini?); che a Villadeati la rappresaglia fu determinata dalle connivenze con i partigiani (non anche dall’uccisione di un soldato tedesco e dalla cattura di un altro, qualche giorno prima, da parte di un gruppo della Monferrato di stanza nei pressi di Villadeati?); che il 12 (23) settembre 1944 un gruppo di partigiani attaccò una colonna di Brigate nere diretta a Camino (cinque partigiani a bordo di un camioncino furono fatti a segno da alcune raffiche di mitra nell’imboscata tesa loro da pochi uomini) e che in tale circostanza cadde il Comandante (caposquadra) Bigliani; che la X Divisione “Italia” era dislocata a Pontestura al tempo della rappresaglia nazifascista in quel paese (la Divisione non esisteva ancora e comunque i garibaldini del Distaccamento “Fox” operanti nella zona erano allora attestati a Casalino, nel territorio di Mombello); che il 28 ottobre le Brigate Nere attaccarono nuovamente Pontestura per distruggere il comando partigiano (a Castagnone due squadre di garibaldini in perlustrazione, dieci uomini in tutto, si fecero ingenuamente sorprendere da forze nemiche; inoltre a Pontestura non ci fu mai un Comando partigiano, di nessuna formazione, né alcun tentativo di rastrellamento successivo a quello del 17 ottobre); che l’attacco fu respinto (otto di quei dieci garibaldini si salvarono riuscendo a sganciarsi grazie al sacrificio dei due capisquadra) e che in quella circostanza caddero il comandante (caposquadra) Guido (Silvio) Bondesan ed il suo compagno Alfredo Piacibello (Ispettore della Brigata d’Assalto “Fox”, nata dall’omonimo distaccamento appena qualche giorno prima); e ancora che l’11 novembre i partigiani della LXXIX Brigata Garibaldi e della formazione Autonoma Patria (una cinquantina di garibaldini della Brigata d’Assalto Garibaldi “Fox”, inquadrata nella X Divisione Alessandria, rinforzata per l’occasione da due uomini della Patria, tre della Monferrato, e da uno della XIX Garibaldi Giambone) tesero un agguato ad una colonna tedesca a Mombello (ad Ozzano). Sarà certamente parso noioso l’essermi dilungato in questo elenco di tante inesattezze e di alcune falsità, e me ne scuso; ma mi premeva rimarcare come se ne contino ben una decina in poco più di una paginetta: eppure oggi i nostri ragazzi sulla rete studiano, fanno ricerche, si informano.
Purtroppo, al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, tali strampalate affermazioni possono fare testo. Cose di poco conto, mi si dirà, i fatti son quelli; e poco importa se i morti ed i feriti furono tanti o nessuno, se quel tale morì mentre diceva questo o quell’altro, se quello comandava una squadra oppure una Divisione, se il cannone – o i cannoni? – l’han catturato quelli della Garibaldi oppure quelli della Monferrato. Eppure, se in qualche apprezzabile caso la ricerca storica è rigorosa, ad esempio quando spinge addirittura a risolvere l’incertezza circa l’esatta scrittura del cognome di Meyer02, non sarebbe auspicabile una maggior attenzione anche nel diffondere tali piccolezze? Per chi non ne fosse a conoscenza, ISRAL sta per Istituto Storico della Resistenza nella Provincia di Alessandria.
Certo non si tratta di cosa agevole, se pensiamo che fin nel Diario Storico le date e le circostanze, la consistenza e gli esiti di molte delle azioni colà riportate non rispondono del tutto al vero. Infatti il Diario, per quanto concerne l’attività delle formazioni garibaldine del Monferrato, ha comunque costituito una delle principali fonti di riferimento per quanti si sono impegnati nella ricostruzione del fenomeno resistenziale nella Val Cerrina. E se è pur vero che gli Autori più attenti ne hanno giustamente preso le distanze, altri, che direttamente o indirettamente hanno attinto da quell’opuscolo, non hanno fatto che involontariamente conferire ad esso, sfoltendolo da ogni orpello retorico, maggior credibilità di quanto non meriti e dignità storica a quelle che sono verità soltanto parziali. Di parte, intendo.

La Resistenza nella Val Cerrina non è che un granello di polvere nella Storia del nostro Paese. La conformazione del territorio, costituito in prevalenza da basse colline scarsamente difendibili, e la consistenza delle forze nemiche che lo accerchiavano rendono ragione delle difficoltà affrontate dal movimento partigiano in quella zona; sostanzialmente esso si limitò, pur con notevoli risultati, ad ostacolare ed a rendere comunque pericoloso per le forze nemiche il transito sulle direttive Casale-Torino, Casale-Chivasso e Casale-Asti. Che tale obiettivo fosse strategicamente rilevante e come esso sia stato perseguito con successo è comprovato dall’impegno nazifascista volto a contrastarlo. Ma, com’è ovvio, nelle opere che trattano complessivamente della Resistenza Italiana non v’è accenno agli episodi, marginali se vogliamo, della Val Cerrina. Avendo ristretto il proprio campo d’interesse, nel Piemonte, essenzialmente alle sole province di Asti e di Alessandria, il testo del Pansa Guerra partigiana tra Genova e il Po accenna diffusamente al partigianato del Basso Monferrato ma, com’è giusto in un’opera di così ampio respiro, non può e non intende trattare ogni dettaglio di interesse meramente locale, come può essere la storia spicciola di una singola formazione. Tuttavia non si può disconoscere, anche proprio in ragione di quelle oggettive difficoltà poc’anzi ricordate, il valore intrinseco di quanti anche nella Val Cerrina seppero opporsi all’occupazione straniera. E gran parte della lotta nella zona fu sostenuta per l’appunto dalla formazione che ebbe origine dalla banda nata spontaneamente nel territorio di Mombello. L’interesse per la storia della Resistenza locale non può prescindere dalla storia della Banda Fox, indissolubilmente legata alla figura troppo spesso dimenticata del suo fondatore, il Capitano Orlandi.

Ricorrendo quest’anno il centenario della nascita di Rinaldo Ronco, ho sentito, da figlio, la personale esigenza di tributare alla sua memoria questo mio modesto lavoro, il quale altro non è stato che il tentativo di ordinare cronologicamente gli appunti ritrovati tra le sue carte, associandoli al mio personale ricordo dei suoi racconti, a frammenti presi a prestito da testi di vari Autori, ad articoli, a testimonianze ed a documenti in qualche modo relazionabili con quegli stessi appunti. Tuttavia quell’esigenza non costituisce l’unica ragione del mio impegno.
Sovente, nella letteratura del settore, non ho ritrovato la stessa verità tal quale mi è stata raccontata da mio padre. Ritengo possa avere un qualche interesse, per quanti si occupino della Resistenza in Val Cerrina, anche il punto di vista del comandante Orlandi.
Quest’ultima ragione, insieme con l’occasione della ricorrenza centenaria, mi ha spinto a pensare di svolgere questo lavoro. Ma l’abbandono definitivo di ogni esitazione mi venne da un piccolo fatto, che tuttavia mi convinse della mia personale necessità di compiere questo passo, a rischio di non dimostrarmene all’altezza.
Tra le pagine di un saggio di recente pubblicazione, che tratta della Resistenza nel Casalese, si trovano citati, quali stimati ex patrioti, due personaggi a me ben noti. Avevo voluto assistere, una sera dell’anno passato, alla presentazione di quel volume. Ricordo che in chiusura, dopo ch’ebbe illustrato sotto ogni aspetto la sua opera, l’Autore ringraziò, tra gli altri, proprio uno di quei due per la sua collaborazione in veste di testimone. Tra il pubblico, quella sera, erano presenti numerosi giovani e certamente, se si trovavan lì, eran giovani interessati a saperne di più, ad imparare la lezione della storia del nostro pur piccolo territorio; a conservarne le ragioni, gli insegnamenti, i moniti. E certamente avranno guardato, e forse guarderanno, a siffatti personaggi come a uomini esemplari, modelli di impegno, campioni dell’epopea della quale son stati protagonisti. Com’è ingannevole la memoria dell’Uomo! L’uno, sedicente partigiano emerso dalla sua protetta e comoda tana a giochi ormai fatti, mai partecipò ad azioni di guerra né con la Garibaldi né con altre formazioni; l’altro fu combattente, sì: ma si distinse insieme con altri per ben differenti motivi.
Forse oggi la parola del Capitano Orlandi vale quanto la loro, ma tant’è: per parte mia, mi accontento anche soltanto di sperare che almeno, quando si trovino ancora osannati tra le schiere garibaldine, anziché quello della camicia che l’uno non ha mai indossato e che l’altro ha disonorato, il rosso sia il colore della loro vergogna.

E. R.
Settembre 2010


Le denunce e le dichiarazioni datate 1945, riportate come citazioni nel presente volume, sono parte del materiale raccolto dal C.L.N. di Mombello Monferrato a seguito delle disposizioni ricevute riguardo alle epurazioni. Di tali documenti sono in mio possesso le copie autentiche, dattiloscritte e con firme autografe, ed in qualche caso anche gli originali. Tuttavia esse sono da considerarsi con cautela, non essendo possibile escludere a priori, a monte delle stesse, rancori personali o tentativi di autodifesa dei denuncianti o dichiaranti. In ogni caso tali denunce e dichiarazioni non costituiscono, e non possono costituire, prova di alcunché in quanto tutte vennero in seguito ritirate dai latori delle medesime. Per contro, ho giudicato detta documentazione, nel suo complesso, un utile strumento per comprendere il clima dell’epoca cui si riferiscono.

Per quanto riguarda il materiale fotografico qui riprodotto, rivolgo un ringraziamento particolarmente sentito al signor Pierangelo Torielli per la sua disponibilità e per la gentile concessione delle immagini attinte dall’Archivio Fotografico Torielli di Casale Monferrato.

l’Autore


Note:

01 Cfr. AA. VV. Ieri cone oggi contro il fascismo per la libertà, Ed. Circolo Gobetti, Casale Monferrato 1972, pp. 20.22 (libero adattamento)

02 Di tale questione si è recentemente occupato Sergio Favretto, Autore ampiamente citato nel presente laboro.


Il Capitano Orlandi (la vera storia del Distaccamento Fox)


7. Ozzano

«Nel pieno autunno del 1944 il Basso Monferrato, soprattutto il territorio attorno a Casale, fu messo a ferro e fuoco, ma la ferocia del nemico servì solo ad inasprire la lotta.
Il 3 novembre una squadra volante della LXXIX Brigata Garibaldi1 attaccò una pattuglia tedesca alla periferia di Casale, compiendo poi una rapida incursione contro la sede del comando germanico2».

«Forse per la prima volta sentivo venir meno la baldanza ch’era solita nei miei uomini; momenti difficili ne avevamo passati altri, durante quei mesi di guerra, ma mai come ora il loro morale era sceso così in basso. Enzo ed io cercavamo di spronarli, di restituire loro fiducia. Ma avevamo perso Piacibello e Bondesan; il nostro campo di Maroli era stato distrutto; ed ora anche Cenzo… le parole non sarebbero servite a nulla. Ci voleva un’azione. Un’azione di guerriglia che mostrasse che contavamo ancora molto.
L’occasione mi si presentò presto. Un confidente che aveva a che fare con la precettazione del bestiame mi informò che la mattina dell’undici novembre ci sarebbe stato il “raduno” a Gaminella, e che lì sarebbe venuta una grossa scorta di militi della RSI e con essi anche soldati tedeschi. Non dovevo lasciarmi sfuggire l’occasione di tender loro un’imboscata. Se fosse riuscita, avrei ottenuto due risultati: di impedire che venisse portato via il bestiame ai miei compaesani, e di sollevare il morale dei miei uomini.
Ci pensai su, e scelsi quel tratto di strada tra San Giorgio ed Ozzano che, subito dopo l’imbocco della galleria, si fa assai ripido ed è stretto tra due collinette. Li avremmo attaccati lì.
Il rischio era grande, pochissime le munizioni. La possibilità di un buon esito stava tutta e soltanto nella sorpresa.
Chiesi rinforzi senza rivelare dove sarebbe avvenuta l’azione. Guaschino e Venier, della Patria, mi mandarono due uomini; Gabriele, della Monferrato, tre; un altro ancora mi arrivò dalla XIX Brigata Garibaldi Giambone3».

«[…] Poiché non disponevamo di armi automatiche, richiedemmo un mitragliatore della XIX Brigata Garibaldi ed un altro della Divisione Monferrato: in tutto una sessantina di uomini, di cui 50 della nostra brigata, al comando di Orlandi. Verso le ore 2 […] partimmo per la località salita di S. Giorgio, luogo da noi scelto per l’agguato. Alle 5 di mattina avevamo già disposto le armi automatiche ed i fucilieri4».

«Un gran malcontento si era diffuso a Mombello Monferrato. I contadini avevano già consegnato il grano all’ammasso, ed ora dovevano consegnare anche il bestiame: i fascisti ed i tedeschi lo esigevano, e non si poteva rifiutare. In mattinata, per strade e per viottoli, dal capoluogo e dalle frazioni sarebbero scesi al piano, ciascuno conducendo le proprie bestie; ed avrebbero atteso di consegnare, al raduno di Gaminella, quell’animale che avevano allevato con tanta cura. Ma a notte fonda, mentre il pur stanco contadino era travagliato dal pensiero della nuova grave imposizione, noi garibaldini eravamo in marcia, al lume delle stelle, per impedire ai tedeschi di sottrarre il bestiame alla gente che tanto ci aiutava. Armati più di fede che di armi, con molta cautela procedemmo verso il luogo prescelto.
La strada della Val Cerrina, che congiunge Casale Monferrato con Torino, tra San Giorgio ed Ozzano sale gradatamente fino all’imbocco della galleria ferroviaria; poi si arrampica fra due ripide collinette. Verso le cinque, su quelle ci appostammo in attesa del nemico, dopo aver piazzate le armi automatiche. Era il giorno di San Martino. Faceva freddo, ed il tempo sembrava non passare. Sebbene fossimo una sessantina, non si sentiva una parola. Verso le sei comparve l’albore, poi l’aurora. Qualcuno di tanto in tanto si alzava in piedi, per il freddo, ma non si allontanava dal proprio posto. L’attesa era snervante. Spuntò il sole.
Per la strada aveva incominciato a passare gente che andava in direzione di Casale, ed a Casale avevano sede il comando tedesco e quello della Brigata Nera; ciò ci preoccupava assai. Se qualcuno avesse riferito che noi eravamo appena a qualche chilometro dalla città, avremmo potuto essere attaccati da più parti. Tale considerazione assillava non pochi, e tra gli uomini serpeggiava un certo nervosismo. Il commissario politico mi suggerì che forse sarebbe stato meglio tornare alla base. Un altro mi propose di autorizzarlo a spostarsi con alcuni uomini un poco più in alto, con il pretesto di una visuale migliore della strada.
– Restate ai vostri posti – fu la mia risposta.
Tra le nove e trenta e le dieci un polverio apparve subito dopo l’ultima casa di San Giorgio. Erano loro. Il cuore mi batteva forte. Da su la rupe che sovrasta la strada, tenevo gli occhi fissi sui due autocarri che avanzavano verso le nostre postazioni. Non appena anche il secondo fu nella lieve curva fra le due collinette mi alzai in piedi.
– Fuoco! – gridai.
Colti di sorpresa, i nemici saltarono giù dai camion; qualcuno cadde colpito a morte, altri cercarono riparo stendendosi a terra, sui lati della strada. Il fuoco incrociato continuò finché non ordinai il “cessate il fuoco”. Ritto in piedi, gridai e rigridai:
– Arrendetevi! Arrendetevi! –
Ma non venne alcun segno di resa; anzi, un affannarsi intorno ad una mitragliatrice, e qualche raffica di mitra. Un momento perduto può capovolgere una situazione. Perciò ordinai ai miei di fare ancora fuoco. Gli istanti, micidiali, si susseguivano; i colpiti aumentavano, ma le nostre munizioni erano scarse: bisognava affrettarsi. Ordinai l’assalto. Così, col mio moschetto ormai scarico, presi a correre giù dalla rupe, imitato da tutti i miei garibaldini. Dopo alcuni istanti, una cinquantina di repubblichini ed alcuni tedeschi erano in mezzo alla strada con le mani in alto. A terra giacevano dieci o dodici corpi inanimati. Non era tempo di cure, né per i vivi né per i morti: è l’amaro frutto della guerra. Sulla via del ritorno, tra canti giulivi e lamenti, un giovane soldato italiano mi supplicò:
– Non uccidetemi, signor capitano. –
Tornai con i miei partigiani e con i prigionieri a Gaminella, dove la gente si apprestò a ricondurre a casa quel bestiame ch’era costato tanto sangue; e nel mio cuore non c’era soltanto gioia per la vittoria, ma anche tanta tristezza5».

«[…] Attaccammo di sorpresa alle porte di Casale una colonna nazifascista di circa 80 uomini […] Venne catturata al completo, lasciando sul campo una decina di morti […] Ricordo quel giorno l’eroismo del comandante Rinaldo Ronco, che con i suoi uomini catturò il comandante tedesco in testa alla colonna6 […]».
«[…] una settantina di uomini furono bloccati e messi nella incapacità di fuggire. Una decina fu uccisa durante il combattimento, altri morirono durante il tragitto; il resto in maggior parte feriti. Il nemico perdette una mitraglia pesante, tre leggere ed una cinquantina di Mauser, e un numero rilevante di bombe e pistole. Tra i prigionieri vi furono cinque tedeschi di cui un ufficiale superiore.
La brillante azione suscitò grande entusiasmo nella popolazione dei paesi di tutta la Val Cerrina7».

«Era l’azione più notevole messa a segno dalle formazioni monferrine a partire dall’estate8».

Con Decreto del 29 marzo 1952, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, il Presidente della Repubblica concesse a Rinaldo Ronco la Croce al Valor Militare.

Nella motivazione si legge:

«Combattente della lotta partigiana, già segnalato per capacità di animatore, di organizzatore e di capo, si distingueva particolarmente nel condurre con 60 uomini un deciso attacco contro una colonna motorizzata tedesca, infliggendo sensibili perdite, catturando prigionieri ed impossessandosi di armi e materiali. Ozzano (Alessandria), 11 novembre 19449».
«Condurre tanti prigionieri a Cascina Bertola, ad un tiro di schioppo dalla provinciale della Val Cerrina e non lontano da Casale, da Asti e da Trino, sarebbe stato da irresponsabile; perciò li consegnai alla “Monferrato” di Gabriele, la quale era ben armata e dislocata in luoghi più adatti alla difesa10».

«L’Abschnitt-Kommandantur di Valenza ordinò di attaccare subito le formazioni della Val Cerrina per liberare i prigionieri e rendere sicuro il transito delle truppe sulle strade ai due lati del Po11».

[12 novembre 1944]:
«[…] Terminata la funzione, andai sollecitamente al Comando Tedesco. Trovai là gli Ufficiali Tedeschi di Casale e tutte le autorità repubblicane locali attorno al Colonnello Beker venuto da Valenza. […]
– Voi ricordate, Eccellenza, – mi disse – che io vi avevo promesso di avvertirvi tutte le volte che fossero state in pericolo le vostre popolazioni. Ora, dopo i gravi fatti di Ozzano, devo dirvi che noi abbiamo decretato di fare un rastrellamento in grande stile in tutta la Val Cerrina. In qualunque paese o gruppo di case noi troveremo resistenza, punteremo i cannoni e spianeremo le case senza pietà e, naturalmente, le persone vi saranno coinvolte. Pensate voi a difendere le vostre popolazioni. –
– Difenderle! – dissi io – È una bella parola. Ma come? Con quali mezzi? –
– Cercate di mettervi a contatto con le autorità dei paesi – mi rispose – e, se potete, coi capi dei partigiani. Avvertiteli delle nostre intenzioni, di modo che essi non facciano resistenza armata. Perché, ve lo ripeto, dovunque troveremo resistenza noi spareremo e distruggeremo.
– Lo farò – risposi – Ma io non ho neanche una macchina a mia disposizione. Forse dovrò fare il giro a piedi. Quanto tempo mi date? –
Egli si strinse nelle spalle, e s’accontentò di dire: – Io vi ho avvertito. Fate quello che sta in voi. –
Il colloquio terminò qui.
Appena a casa, mi misi alla ricerca di una macchina. Per fortuna, la generosità dei fratelli Palli mi mise a disposizione la propria macchina per tutto il tempo che mi occorresse. Combinammo di partire subito il lunedì mattino, cominciando da Ozzano (Giuseppe Angrisani, vescovo di Casale12)».

«Il colonnello Beker non attese che l’Angrisani portasse a compimento l’incarico: ne precedette persino l’inizio13».

«All’alba del 13 novembre, un migliaio di uomini (tedeschi e fascisti, fra cui un reparto della Muti) partirono da Verrua Savoia verso Moncestino e da Rocca delle Donne verso Gabiano.
La II brigata della Monferrato e la brigata Patria a Coggia di Moncestino e a Gabiano sostennero l’urto nemico sino al primo pomeriggio poi si ritirarono verso l’interno delle colline sotto il tiro dei cannoni piazzati al di là del Po14».

[13 novembre 1944, mattino]:
«La popolazione di Ozzano, ben conscia di ciò che la attendeva, contava le ore con angoscia. Io avevo chiesto al Colonnello Beker:
– E a Ozzano cosa intendete di fare? Voi sapete bene che in quel paese non vi sono neanche delle formazioni partigiane! –
La risposta implacabile fu questa:
– Se saranno restituiti i prigionieri, Ozzano sarà risparmiata, se no, faremo la rappresaglia. –
Urgeva dunque cominciare il giro da Ozzano, perché là era più prossimo il pericolo. […] Ma speravo che le tremende giornate della rappresaglia non sarebbero scoppiate troppo presto, dandomi tempo di trovare i capi responsabili ed ottenere la resa dei prigionieri, per evitare l’estrema rovina. Perciò continuai subito il mio giro per la valle (G. Angrisani15)».

«Lunedì 13, insieme con una decina dei miei uomini, ero a Gaminella. Non ricordo l’ora esatta, ma di certo era di mattina, quando si fermò accanto a noi un’auto: era Mons. Angrisani, il vescovo di Casale. Stava compiendo una missione difficile e pericolosa in quei luoghi: far sì che venissero rilasciati i prigionieri tedeschi, per evitare che i nazisti portassero a compimento la strage che minacciavano di fare ad Ozzano. Mi esortò a comportarmi in modo da non rendere ancora più difficile il suo incarico. Non era più di mia competenza decidere della sorte dei prigionieri, ma gli promisi che non avrei in nessun modo compromesso la sua missione16».

[13 novembre 1944, mattino]:
«Tra il Gambarello e Cerrina trovo un buon nerbo di Partigiani comandati dal comandante Ronco. Mi fermo e riferisco, esortando il Capo e i suoi gregari a voler evitare una difesa impossibile ed una inutile strage a danno delle nostre popolazioni. Ronco trattò cortesemente e assicurò che i suoi si sarebbero spostati in modo da non dare noie né provocare rappresaglie (G. Angrisani17)».

Ne La Croce sul Monferrato durante la bufera, Mons. Angrisani così prosegue:

«Forse è a quest’incontro che si riferisce lo scrittore di un foglio socialista, il quale – mi fu riferito – tempo fa, raccontando l’incontro del Vescovo coi Partigiani, scrisse che il Vescovo li aveva esortati a tornare alle loro case e che essi avevano risposto: “Monsignore, voi badate a fare il Vescovo e lasciate che noi facciamo il Partigiano!” Ora, può darsi benissimo che così abbiano detto dopo la mia partenza; ma a me personalmente in faccia, queste parole non le hanno dette mai. Se anche, però, me le avessero dette, esse avrebbero servito magnificamente ad inquadrare l’azione del Vescovo nei suoi giusti termini18».

Rinaldo Ronco affermò sempre che le parole cui fa cenno l’Angrisani non furono mai pronunciate, né dal comandante né da alcuno dei suoi uomini.

Mi trovai, una sera dell’anno passato, alla presentazione di un volume che tratta della Resistenza nel Casalese. La prima cosa che vidi, entrando in quel salone, fu una grande immagine, proiettata sulla parete, di Monsignor Angrisani, vescovo di Casale ai tempi della guerra di Liberazione. Certo fu un caso, poiché subito mi resi conto che veniva proiettata di continuo, ciclicamente, una serie di immagini relative all’opera presentata.
Tuttavia il Caso servì magnificamente ad inquadrare l’azione del vescovo nei suoi giusti termini.
Infatti, pur affrontando nel suo opuscoletto sostanzialmente un singolo episodio della guerra appena conclusa (la prima edizione è datata 1946), l’Angrisani non perdette l’occasione, nel raccontare la sua personale avventura, di seminare concetti che suggeriscono una chiave di lettura della Resistenza assai discutibile. «l’odio di Caino… triste e feroce guerriglia quotidiana tra fratelli… i fratelli hanno ucciso i fratelli19…» sono frasi pescate qua e là nella Croce; l’insistere su questo aspetto, talvolta sacrificando lo stile sull’altare della Necessità , sarà il frutto del normale punto di vista di un Cristiano? Forse. Ma, piuttosto, non reca in nuce il malcelato tentativo di ridurre la guerra di liberazione a guerra civile, ad una faida tra rossi e neri, con la popolazione presa in mezzo, estranea ed indifesa? La popolazione, appunto. «Di regola i partigiani, fatto il loro colpo, fuggivano. La popolazione, assolutamente innocente, restava e pagava21». Angrisani emette, così, la sua lapidaria sentenza. Si noti la sapiente scelta dei termini. Definisce colpo l’azione partigiana: incominciamo già anche noi, come i tedeschi ed i fascisti, a pensarli banditi nel senso meno etimologico del termine, quasi si trattasse di rapine in banca. E ancora, dire che la popolazione era innocente, non equivale a dichiarare i partigiani colpevoli? Inconsapevole e responsabili, poniamo, non avrebbero certo sortito lo stesso effetto. La popolazione pativa? soffriva? subiva? No: pagava. Si sa quale sia uno dei maggiori dispiaceri per i nostri contadini. Sono scelte casuali? Direi perlomeno sospette, se immediatamente il vescovo aggiunge: «Questa la storia d’ogni giorno, che calcava un fascio di spine ben pesante sul capo delle nostre povere popolazioni; fatto che va tenuto ben presente per dare un giudizio più sereno e spassionato su quei tristi tempi, sull’opera partigiana e sulla parte enorme di sofferenze avuta dalle nostre genti22». Io la chiamerei propaganda. E fin da subito ottiene i suoi effetti; infatti l’anonimo compilatore della noticina alle prime righe del vescovo (scomparsa dalle ultime ristampe), riguardo all’eccidio di Villadeati, pur lasciando il dubbio che intendesse riportare il pensiero dei tedeschi, scrive: «la presunta, non vera, complicità degli abitanti del paese con le azioni dei partigiani23». Non adesione, sostegno, protezione, collaborazione: complicità. Mancava soltanto che scrivesse malefatte in luogo di azioni.
Nella Val Cerrina le imprese dei partigiani furono sostanzialmente azioni di guerriglia, e l’utilizzo delle squadre volanti come strumento tattico ne fu l’espressione più caratteristica. In due soli casi si verificarono scontri in campo aperto, vere battaglie nelle quali, al di là del valore e del coraggio innegabili dei patrioti, la preparazione militare e la perizia tattica dei comandanti partigiani risultò determinante: a Cantavenna il 1° novembre 1944 (Guaschino) e ad Ozzano l’11 novembre 1944 . A tutto ottobre, le popolazioni del Monferrato Casalese e della Val Cerrina erano già state fatte oggetto di numerosi rastrellamenti, incendi, eccidi: Rosignano (11 settembre), Piancerreto e Villadeati (21 settembre), Murisengo (25 settembre), Villadeati (9 ottobre), Pontestura (17 ottobre), Cantavenna (1° novembre). In relazione all’eccidio di Villadeati (9 ottobre), Angrisani scrive: «[…] ferocia di questa gente venuta dal nord, che si gabellava nostra alleata e che ha calpestato freddamente, ferocemente, le nostre cose più sante, le creature più care24». Freddamente, è detto. Comunque motivata, la rappresaglia non era per i nazifascisti una rabbiosa e vendicativa reazione, bensì una precisa scelta strategica tesa a spezzare la collaborazione tra la popolazione ed i ribelli; dunque pianificata, a prescindere dal pretesto che di volta in volta veniva addotto. Eppure il vescovo di Casale pare far discendere dal fatto dell’11 novembre (Ozzano) la totale responsabilità dei garibaldini nella ferocia scatenata in Val Cerrina dai tedeschi, di fatto sollevandone in parte questi ultimi. Dopo aver citato il suo incontro, definito cortese e rassicurante, con Orlandi, Angrisani aggiunge una postilla, a prima vista poco pertinente, nella quale si serve abilmente di una sorta di preterizione: …mi han detto che han detto; non so se l’han detto ma anche se l’avessero detto… Sarà un caso se molti anni dopo, nel gremito Teatro Comunale di Casale, in un venticinque aprile reso indimenticabile dal discorso di Sergio Zavoli, Germano Zaccheo, un successore di Angrisani, volendo ricordarne l’operato, ripropose proprio quel passo e quella postilla? Neppure rispettosi di un uomo di Dio, questi garibaldini: eccoci confezionati i Cattivi. Ai quali naturalmente fa da contraltare il Cavaliere della Madonna e della Patria25, colui al quale gli ostaggi devono la salvezza, nella persona di un Capo degli Autonomi. Non l’ho mai conosciuto, ma penso non abbia fatto un gran piacere neppure a Carlo Gabriele Cotta un panegirico di tale portata. Ora abbiamo tutti gli elementi: i cattivi, il fattaccio, le vittime, l’Eroe; ed infatti, come in un film, alla fine spunta il vero protagonista26. Ma questo ad Angrisani lo concediamo, poiché si tratta pur sempre d’un religioso.
L’ormai solito compilatore anonimo, in appendice alla Croce sul Monferrato, riferisce che «il 16 ottobre 1944, il vice parroco di Pontestura pedala disperatamente fino a Casale e corre dal Vescovo. Lui solo ci può salvare, pensa. E il Vescovo realmente salvò. Si portò subito, col giovane Viceparroco, dal comandante tedesco e ne ottenne un biglietto col quale si ordinava di non spargere sangue. Il buon D. Farello, col cuore diviso tra l’ambascia ed il giubilo, ritornò di volo a Pontestura, portando la vita a circa quaranta uomini27». E certamente di volo doveva muoversi il Viceparroco, dal momento che le testimonianze dei Pontesturesi28 lo vedono invece impegnato nelle trattative con i partigiani (della Monferrato, dunque non garibaldini) che avevano compiuto l’azione presa a pretesto dai nazifascisti per la loro rappresaglia. Abbiamo anche visto come questo non sia stato l’unico aspetto della trattativa29. Angrisani tuttavia non smentì mai il suo zelante collaboratore. Già, qui le parti si erano invertite: il fattaccio era dovuto agli Autonomi; e tra coloro che invece si adoperarono maggiormente per la salvezza degli ostaggi ci fu anche un capo garibaldino, un comunista.
Propaganda, dicevo poc’anzi, roba da primi anni della Repubblica. Eppure mi pare di intravvedere la stessa logica di intenti anche ai giorni nostri, se oggi possiamo apprendere che «il fatto di Ozzano provocò sconcerto, per le modalità seguite e per l’effetto dimostrativo che si volle ottenere30» e che «Non tutte le formazioni partigiane approvarono l’esito dell’azione. Il fatto creò ripercussioni da parte nazifascista per parecchi mesi31». Certo, «l’azione più notevole messa a segno dalle formazioni monferrine a partire dall’estate32», compiuta al culmine di un periodo di grande difficoltà e scoramento per la formazione garibaldina, condotta in modo tatticamente ineccepibile ed a un tiro di schioppo da Casale, ottenne un grande effetto. Mi domando quali formazioni avrebbero approvato un esito diverso di quell’azione. Forse la X Mas, o la San Marco33. Per quel fatto di Ozzano il comandante Orlandi venne insignito della Croce al Valor Militare. Sarebbe bene essere edotti circa le fonti di tali affermazioni – e con ciò non intendo neppur minimamente mettere in dubbio l’obiettività di chi le ha riportate – se non altro per conoscere almeno quali partigiani potevano pensare che fosse meglio non combattere il nemico per evitare guai; guai per se stessi, debbo ritenere, dal momento che la loro sola presenza costituiva già di per sé fonte di pericolo per gli altri. Inoltre, che il fatto di Ozzano abbia creato ripercussioni da parte nemica per parecchi mesi mi pare una forzatura: quand’anche, per assurdo, si volesse riconoscere come conseguenza dell’11 novembre anche la cattura della Banda Tom (13 gennaio 1945), i mesi sarebbero soltanto due; peraltro l’Autore stesso, riferendosi al piano di rastrellamento, poco più avanti scrive: «protrattosi fino a termine mese (novembre34)».
Infine, perché ignorare completamente la cocente sconfitta dei nazifascisti di appena dieci giorni prima, per certi versi ancora più eclatante, ad opera delle formazioni autonome e proprio a Cantavenna, teatro del successivo rastrellamento? Ecco riemergere tra le righe, oggi come allora, il tentativo di addossare ai garibaldini la responsabilità delle azioni nazifasciste.

Alla fine della presentazione, le immagini ricominciarono a scorrere sulla parete, ancora le stesse.

«(…) nel pomeriggio i fascisti ed i tedeschi entrarono in Cantavenna, dove vennero bruciate una sessantina di case e catturati tre renitenti; alcuni civili vennero uccisi presso il rivo Gaminella; ed un altro, che si era nascosto tra gli steli di granturco ancora ritti, venne scovato da cani addestrati, catturato e condotto a Sessana35, dove i tedeschi sostarono tutta la notte; tradotto a Bolzano, venne poi deportato in Germania dove morì: era il diciottenne Adriano Ansaldi, di Zenevreto (Mombello), studente36».

«[…] Ho conosciuto infatti il suo nipote, le dirò anche che era il più caro amico che avessi colà. Lo conobbi a Bolzano poi rimanemmo sempre assieme sino a due giorni prima della liberazione, giorno in cui egli trovò la morte […] Adriano è morto ad Oelsen, a circa 4-6 chilometri da Gottleuba, il giorno 5 maggio 1945; la sua salma è irreperibile poiché venivano improvvisate fosse in qualunque luogo si morisse. È morto di patimenti per le dure fatiche sopportate e per la mancanza di cibo. Prima di morire chiamò a sé me ed un altro mio amico, Toniolo Carlo; mi pregò di andare a casa sua, a Mombello se non sbaglio, per vedere la sua Mamma: ma le dirò che giunto in Italia non ne ebbi il coraggio. Ne diedi però notizia tramite la Croce Rossa di Bolzano. Ora che mi ricordo Adriano aveva colà un cugino, Guido: vidi anche lui morire, povero amico37 […]».

«[…] quindi [il nemico] si recò a Coggia di Moncestino e Gabiano, dove saccheggiò e diede alle fiamme una ventina di abitazioni. Poi, mentre il grosso dei reparti ripassava il fiume, le colonne provenienti da Casale raggiunsero Ozzano. Qui i nazifascisti rastrellarono 150 capi famiglia e, dopo aver sistemato i pezzi di artiglieria, minacciarono di bombardare il paese se non fossero stati restituiti i prigionieri dell’undici novembre38».

Frattanto Mons. Angrisani, dopo aver incontrato Orlandi, aveva continuato il suo viaggio alla ricerca di capi partigiani, e seguendo varie indicazioni, era stato a Murisengo, a Montiglio ed infine ad Odalengo Grande, dove si fermò la notte tra lunedì e martedì. Il mattino seguente raggiunse Gabiano in cerca dei capi della Monferrato, la formazione che deteneva i prigionieri; quindi venne indirizzato a Villamiroglio, dove finalmente riuscì ad incontrarli39.

[Villamiroglio – 14 novembre 1944 – ore 13 circa]:
«[…] arriva il parroco di Ozzano. Era pallido, sconvolto. Con parole rotte dice che i Tedeschi hanno occupato Ozzano, l’hanno circondato con i cannoni e sono pronti a radere al suolo il paese ed a deportare in Germania tutti i prigionieri. Fu provvidenza che i Capi fossero là. Dopo brevi trattative, essi si dichiararono pronti a restituire i prigionieri cha avevano in loro mano, a condizione che i Tedeschi e i repubblicani restituissero alcuni loro compagni prigionieri. Dovettero redigere in duplice copia la loro richiesta, il che importò un dispendio di tempo non indifferente.
Verso le quindici era tutto finito. Prese le loro lettere, io e il Parroco partimmo subito per Ozzano. Non c’era tempo da perdere: alle 16 scadeva l’ultimatum. […] (Giuseppe Angrisani40)».

«Martedi 14, una trentina fra tedeschi e fascisti che provenivano dalla parte di Monte Sion e da quella di Cascine Bosco, giunti che furono ad Ilengo, si divisero in due squadre. Una, dopo aver battuto la campagna del “Bric da Gabi”, andò verso il “pozzo della Grilla” e proseguì fin sulla Casale-Torino; l’altra, con due carretti trainati da cavalli, alle prime case di Mombello imboccò la stradicciola “’ntur al fusà”. Ed al cantone Cascinotto un tedesco ed un fascista entrarono nella casa di Ernesto Perotti, dov’erano rimaste solo le donne. Vista la cesta piena di pane bianco sfornato da poco, ne presero buona parte; ed il tedesco lasciò lì una pagnotta del suo, nero e quasi secco. Poi se ne andarono giù verso il “rio di Pozzengo”.
A Mombello quel pomeriggio non accadde nulla di grave, se non che nei pressi di Gaminella vennero catturati cinque mombellesi: Erminio ed Ercole Godino, Angelo Beccaris, Paolo Mortarotti e Sandro Perotti i quali, saputo che i nazifascisti erano in paese, erano scappati e stavano accovacciati in un fosso, vicino al bivio per Mombello. Ma furono scoperti da un altro gruppo di tedeschi che transitava nella zona. Mentre stavano salendo su una delle tre camionette passò di lì l’avvocato Vittorio Garino di Mombello, il quale, saputo del fermo, scrisse su un biglietto che i cinque fermati erano buoni cittadini ed onesti lavoratori, e che nulla avevano a che fare con i partigiani; e lo consegnò al giovane ufficiale tedesco.
Mentre i mombellesi venivano condotti a Murisengo, gli autisti fermarono i loro mezzi davanti ad un cortile di Cerrina Valle, dov’erano galline e tacchini. Un tedesco e un milite della “Muti” vi entrarono ciascuno con un sacco; e chini e con le braccia tese arraffarono galline e tacchini ripartendoseli in questo modo: due galline nel sacco del tedesco ed un tacchino in quello del fascista; e un tacchino nel sacco del fascista e due galline in quello del tedesco. Compiuta l’operazione, tornarono alle camionette con i sacchi pieni a metà e con la coscienza a posto: avevano fatto una ripartizione ben comparata.
Arrivati a Murisengo, i cinque catturati furono condotti da un tenente colonnello tedesco cui il giovane ufficiale consegnò il biglietto scritto dall’avvocato Garino. Tosto che l’ebbe fatto tradurre dall’interprete, l’ufficiale domandò a ciascuno di loro di dove fosse, e che lavoro facesse; e nello stesso tempo esaminò le loro mani, per vedere se fossero callose o meno. Il solo Sandro se la vide un po’ brutta perché venne ritenuto di leva mobilitata; ma egli sostenne di non aver mai ricevuto la cartolina di precetto, né di averlo mai saputo per radio semplicemente perché non ne aveva mai posseduta una. L’ufficiale li fece rilasciare tutti; Sandro, però, con l’ordine di tornare il mattino successivo con i documenti dei quali era sprovvisto41».

[Ozzano – 14 novembre 1944 – ore 16 circa]:
«[…] Giunti sulla piazza del Municipio, vediamo un gran numero di uomini e giovani rastrellati, muti e chiusi come pecore condannate al macello. Nella sala del Municipio vi sono i comandanti tedeschi ed alcuni capi repubblicani di Casale. Il comandante è un maggiore dell’antiaerea di Casale Popolo, ma chi dirige la conversazione e tratta le condizioni della resa è un capitano dal volto di fanciullo, dall’anima assetata di sangue. Costui legge la lettera del comandante della Monferrato con le condizioni dello scambio dei prigionieri. Appena ha preso visione dello scritto, scaglia sul tavolo il foglio e grida come un forsennato:
– Niente scambio dei prigionieri! Devono rendere i nostri, senza condizioni! Se entro le 9 di stasera non avranno reso i nostri prigionieri, il paese domattina sarà distrutto ed i 150 uomini deportati in Germania. – (Giuseppe Angrisani42)».

Sembrava una richiesta impossibile da esaudire. L’Angrisani giunse ad offrire la propria vita in cambio del rilascio degli ostaggi. A fronte dell’intransigenza dei fascisti il vescovo si recò un’altra volta dai capi della Monferrato, riuscendo a convincerli a liberare i prigionieri tedeschi senza condizioni. Tornò a Casale verso le nove di sera, e assicurò che il giorno seguente avrebbe lì condotto personalmente i prigionieri tedeschi. Anche i repubblicani però reclamarono i loro; il vescovo li convinse ad accettare, nel loro caso, eventuali richieste di scambio.
Il giorno seguente, mercoledì 15, il vescovo ripartì per Vallegioliti; questa volta con due automobili. Prese in consegna i tedeschi promettendo ai capi della Monferrato che sarebbe tornato a prendere anche i prigionieri repubblicani portando con sé sicure garanzie circa il rilascio di alcuni partigiani catturati43.

[mercoledi 15]:
«[…] Davanti alle due macchine abbiamo messo due grossi fazzoletti bianchi per evitare noie dagli altri partigiani disseminati lungo la Val Cerrina. La gente di Ozzano, che si è riversata tutta al Lavello e che sa della spedizione, vedendo arrivare le macchine, esplode in un urlo di gioia […] (Giuseppe Angrisani44)».
Mons. Angrisani ed i soldati tedeschi rilasciati arrivarono a Casale la sera del 15; gli ostaggi di Ozzano (che erano stati trasferiti a Casale Popolo la sera del 14) furono liberi di tornare alle loro case che raggiunsero il giorno seguente. Restava da definire la questione dei prigionieri repubblicani. Angrisani trascorse il giovedì nell’attesa di avere assicurazioni concrete circa lo scambio che si era prospettato. Non tutto era definito, ma il vescovo, temendo che un’attesa prolungata pregiudicasse la sorte dei prigionieri stessi, venerdì 17, partì ugualmente per Vallegioliti. Ma non poté incontrare i capi della Monferrato perché, già dal mattino del 16, eran dovuti fuggire: tutta la zona era sotto un poderoso rastrellamento45.


Note:

1 Della Brigata d’Assalto Garibaldi Fox: la X Divisione Garibaldi Alessandria era già stata costituita.

2 G. Pansa, op. cit., p. 287.

3 Rinaldo Ronco, Appunti.

4 AA.VV., Diario Storico, cit., p. 36.

5 Rinaldo Ronco, L’agguato.

6 Vincenzo Coppo, La Gazzetta del Popolo, 23 aprile 1965.

7 Cfr: AA.VV, Diario Storico, cit., p. 36 (Bollettino n° 65 di prot. della X Divisione Garibaldi e Bollettino di guerra partigiana in Piemonte).

8 G. Pansa, op. cit., p. 287.

9 Roma, 18 aprile 1953. Presidenza del Consiglio dei Ministri, n° d’ordine 1735, decreto del Presidente della Repubblica 29 maggio 1952. Registrato alla Corte dei Conti il 14 novembre 1952, Registro Presidenza 69 foglio 343; pubblicato nel Boll. Uff. 1953 disp. 16 pag. 1689.

10 Rinaldo Ronco, Appunti.

11 G. Pansa, op. cit, p. 287.

12 G. Angrisani, La Croce sul Monferrato durante la bufera, Opera delle Vocazioni, Casale 1949, pp. 14-15.

13 Rinaldo Ronco, Appunti.

14 G. Pansa, op. cit., pp. 287-288.

15 G. Angrisani, op. cit., p. 16.

16 Rinaldo Ronco, Appunti.

17 G. Angrisani, op. cit., p. 17.

18 Ibidem.

19 G. Angrisani, op. cit., passim.

20 Ivi, p. 17.

21 Ivi, p. 16.

22 Ibidem

23 Ivi, p. 5.

24 Ivi, p. 11.

25 G. Angrisani, op. cit., p. 25.

26 Ivi, p. 23. In ultima analisi, il vescovo attribuisce alla Madonna di Crea la salvezza degli ostaggi di Ozzano.

27 Ivi, p. 40.

28 La Grande Famiglia – anno XXIV n° 9 – settembre 1975.

29 Vedi “Pontestura in fiamme”, pp. 81-86.

30 S. Favretto, Resistenza, cit., p. 102.

31 Ivi, p. 76.

32 G. Pansa, op. cit, p. 287.

33 I caduti di Ozzano appartenevano alla X Mas ed alla Divisione S. Marco.

34 S. Favretto, Resistenza, cit., p. 105.

35 Frazione di Gabiano.

36 Rinaldo Ronco, Appunti.

37 Dalla lettera indirizzata ad un familiare di Adriano Ansaldi, datata 11 luglio 1947 (per gentile concessione della famiglia Ansaldi Testa Luciana, Vercelli).

38 G. Pansa, op. cit., p. 288.

39 Cfr: G. Angrisani, op. cit., pp. 17-20 (libero adattamento).

40 Ivi, p. 21.

41 Rinaldo Ronco, Appunti. Il racconto è basato sulla testimonianza di Sandro Perotti.

42 G. Angrisani, op. cit., p. 22.

43 Cfr: ivi, pp. 22- 28 (libero adattamento).

44 Ivi, p. 30

45 Cfr: G. Angrisani, op. cit., pp. 30-32 (libero adattamento).


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