L’anestesista e altri racconti

di

Ermanno Gelati


Ermanno Gelati - L’anestesista e altri racconti
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 154 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6037-9757

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In copertina: fotografia dell’autore


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è segnalata nel concorso letterario Jacques Prévert 2010


Motivazione del presidente del premio letterario «J. Prévert» sezione narrativa:

«Raccolta di racconti brevi eppure intensi e toccanti. Dall’amore immenso tra una donna e un uomo, alla storia enigmatica e nostalgica di un musicista jazz, fino alla vicenda di un anestesista in un istituto che fa esperimenti su cavie animali. Ermanno Gelati offre racconti realistici e, al contempo, ammantati da una visione sognante e sospesa nel tempo».

Massimo Barile


«Allora di che discutiamo questa sera?» Mi osservò misteriosa.
Ebbi subito la netta impressione che la sua espressione preludesse ad una richiesta precisa.
«Lo vedi questo soffitto? Costa una fortuna. L’ha voluto mio padre così com’è. È opera di uno scultore famoso. Che te ne pare?»
«Be’…» risposi, «non so, è insolito. Ecco… mi sembra… sì quel gioco di pazienza: lo shangai!
Tutti quei bastoncini… l’abilità di toglierli uno ad uno senza fare tremare quelli che rimangono… ma qui appare sospeso… è inquietante.»


Premessa

Immaginate una lampada ad incandescenza che si accende, nel tempo, a fasi alterne… quasi avesse all’interno dei suoi filamenti attorcigliati un cuore pulsante… una propria volontà, un oggetto alquanto bizzarro e mutevole, il cui nucleo incandescente non si è mai spento completamente nel corso degli anni, alternando brevi cenni di vita a lunghissimi periodi di inattività.

Se mi è concesso dal lettore indulgente un esempio così contorto, è più o meno questo il rapporto intercorso tra me e lo scrivere per tutta la vita: un improvviso infiammarsi di parole scritte e poi cancellate.

È risaputo: le vendette contro il tempo sono, generalmente quanto inesorabilmente, battaglie perse in partenza, ma non in questa occasione.
Non quando mi sono ritrovato in un ufficio postale con una voluminosa busta gialla imbottita tra le mani, incerto se fosse proprio il caso di spedirla alla 16a edizione del concorso letterario “Jacques Prévert 2010”.
Non quando, dopo alcuni mesi e con inimmaginabile stupore, ho ricevuto una lettera dall’Editore che mi comunicava una Segnalazione della Giuria con Attestato di merito ed una proposta di pubblicazione.

Quello che il lettore paziente si accinge a leggere non è altro che il contenuto di quella voluminosa busta gialla imbottita.

L’autore


L’anestesista e altri racconti


Non raccontate mai niente a nessuno.
Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.

D. Salinger


L’anestesista

Michael fissava assorto qualcosa che gli stava davanti e lo faceva giacendo nella posizione abituale: supino sul letto, le mani sotto il capo, i gomiti alzati, il cuscino piegato in due a sostegno della nuca.
L’oggetto di tale interesse era una minuscola mezza sfera di vetro posata sulla cassettiera di fronte.
Si trattava di un comunissimo souvenir fermacarte.
Un oggetto banale che imprigionava nel vetro un paesaggio invernale in miniatura; capovolto e riportato nella posizione originale, faceva cadere gli innumerevoli frammenti bianchi che un istante prima si trovavano tranquillamente adagiati sul fondo.
Questo semplice movimento creava la breve illusione di una improvvisa e abbondante nevicata.
Lui aveva acquistato la piccola chincaglieria in un mercatino dell’usato, quando aveva preso in affitto l’appartamento due anni prima, assieme ad altri oggetti e diversi arredi.
Sul lato piatto dell’oggetto c’era ancora l’adesivo con stampato il prezzo, il nome dell’articolo e la data.
Non era possibile leggere, poiché stava sotto, la località turistica rappresentata, ma a lui andava bene così, essa poteva trovarsi in qualsiasi parte del globo e questa incertezza gli piaceva.
Quella stessa mattina l’istituto di ricerca in cui lavorava, era avvolto da una nebbia sottile.
La boscaglia che lo circondava sembrava fosse stata anestetizzata.
Appariva così immobile e gelidamente pulita da sembrare artificiale.
Per questo, in quell’istante, ricordando gli avvenimenti recenti, lui la stava associando a quel souvenir di vetro.
Gli alberi cristallizzati sopportavano inerti il contatto gelido della brina ma poi… quell’urlo…
I rami furono scossi violentemente dai corvi che vi erano appoggiati e che, spaventati, spiccarono improvvisamente il volo. Fu come se tutte quelle piante, per effetto del contraccolpo improvviso, si trovassero all’interno di quel banale souvenir, coinvolte in quella ingenua e illusoria dinamica: capovolte, rigirate, liberate finalmente dalla fredda oppressione di quegli aculei che si disperdevano nell’aria per poi ricadere lentamente sul terreno gelido.
Subito dopo un silenzio agghiacciante… seguito da un brusio crescente.
Era il respiro profondo dell’intera struttura che si svegliava bruscamente per effetto di quel grido stridulo e improvviso: indubbiamente qualcosa di grave doveva essere successo…
Ma… meglio esporre i fatti cronologicamente e come in realtà si svolsero.

La Signorina Francesca, Francesca Lotti, da tutti chiamata dottoressa Lotti, Franci per pochi… si trovava nel suo ufficio e stava per chiamare la sua assistente quando l’interfono, con il suo fastidioso viva voce, precedette automaticamente il movimento delle sue dita:
«Franci, puoi venire nel mio ufficio adesso?»
Finalmente poté interagire con l’apparecchio e rispondere:
«Sì, Orfeo, ti raggiungo tra un momento.»
Orfeo Tribus era il Direttore Generale dell’istituto: di origini austriache era bilingue e molto temuto per le violente e improvvise collere. Era stimato grazie alle sue due lauree: una in farmacologia e una, spiazzante nel suo curriculum, in filosofia, senza contare gli innumerevoli brevetti farmaceutici. Era anche odiato per quel suo voler essere, immancabilmente, nel bel mezzo della scena con quel carattere e corporatura ingombranti che si ritrovava e per il suo costante intromettersi in problemi di ordinaria gestione che avrebbero dovuto essere delegati ad altri, gerarchicamente molto al di sotto di lui.

«Eccomi!»
Franci entrò placidamente in quell’ufficio dove quasi tutti, prima di aprire la porta, si facevano, mentalmente, il segno della croce.
Era stata, forse, l’unica collaboratrice capace di instaurare con lui un rapporto di disinvolta cordialità: un miscuglio di humor e reciproco rispetto.
Il suo carattere forte, unito ad una intelligenza ben al di sopra della media e alla assoluta libertà mentale avevano avuto la meglio sulla sua femminilità prorompente e ben visibile che, a prima vista, poteva disorientare e confondere. C’era nella sua persona una componente virile che si mescolava senza contraddizione al suo aspetto decisamente conturbante. Conoscendola meglio, ci si rendeva conto, da parte maschile, che l’aspetto ingannava, tutto così si scioglieva ed emergeva la persona reale: scattava quindi una sorta di cameratismo che permetteva al lavoro di liberarsi da condizionamenti esteriori e procedere.
«Ciao!» Esordì Tribus, «scusa la fretta ma ho diversi appuntamenti stamani e vorrei sbrigare questa seccatura prima.»
«Seccatura? E così passi a me la patata bollente?»
«Su… non aggredire subito per favore: che sia o no una seccatura tocca a te, non sei l’amministratrice di questa baracca?»
«Va bene, va bene… non si può scherzare con te… dovrei saperlo. Su, da bravo… sputa il rospo.»
Il vecchio Orfeo scosse il capoccione e la chioma lunga e bianchissima vibrò fino all’ultimo capello, così i baffi e le folte sopra ciglia; il naso affilato si dilatò un poco, quasi desiderasse più aria nei polmoni per proseguire.
«OK! Sai… ho saputo per via traverse che il nostro anestesista… sì quello delle cavie, non so neppure come diavolo si chiama…»
«Zaro, Stefano Zaro si chiama», lo interruppe Franci…
«Ecco sì, giusto lui.»
«Come ti dicevo so per certo che tra breve riceverai le sue dimissioni: ci lascia per la concorrenza il traditore!»
«Siamo in un libero mercato mi pare» lo interruppe di nuovo Francesca con espressione rilassata.
«Se fosse vero, non lo considererei un tradimento. Si pone comunque un problema: sostituirlo oppure tentare una trattativa al rialzo con la sua retribuzione.»

«Neanche per sogno! All’inferno!» Ribatté accigliato Tribus, «starà qui il tempo necessario per addestrare il sostituto che… ho già scelto.»
«A sì? E chi sarebbe il nuovo aguzzino di quei poveri animali? Immagino avrai scelto un sadico…»
A questo punto il vecchio professore si alzò di scatto in tutta la sua imponenza: era altissimo e corpulento e stava per avere uno dei suoi attacchi improvvisi di collera.
La voce diventava stridula, le guance paonazze e nei suoi occhi blu si scatenava la tempesta.
La situazione non era affatto rassicurante eppure Franci rimase tranquillamente seduta, languidamente ironica.
«Suvvia Orfeo! Ma cos’hai questa mattina… sei intrattabile… continua e scusami» disse, celando all’ombra delle lunghe ciglia truccate, un sorriso quasi divertito.
«No!» E tornò pesantemente a sedersi, «il fatto è che so bene come la pensi… tu e quei maniaci della “LIMAV”: sembra che il loro unico scopo nella vita sia quello di far conoscere l’esistenza di istituti di ricerca che non fanno uso di cavie animali. Per il momento non possiamo fare a meno di quei roditori e questo lo sai. Potremmo utilizzare dei ratti come fa la maggioranza dei nostri concorrenti, invece delle cavie, ormai quelle bestie sono considerate quasi come cani e gatti e quindi intoccabili. Sai anche che finito il programma di ricerca attuale verranno sostituiti.»
«Ma perché mi ostino a ripeterti sempre le stesse cose, tanto…»
Pronunciò quest’ultima frase quasi a se stesso con tono lamentoso ed ad un cenno di mal celata insofferenza divertita della sua interlocutrice proseguì:
«Dicevo… si tratta del fattorino… come si chiama…» continuando la sua personalissima battaglia con i nomi dei suoi sottoposti.
«Michele Baldi», lo soccorse per l’ennesima volta Franci, che aveva, invece, una memoria prodigiosa.
«Ecco proprio lui Michael! È così che lo chiamano tutti no?»
«E perché proprio lui? Non è un paramedico, se ricordo il suo curriculum… cosa ne sa di anestetici?»
«Be’… sai…, sempre dalle mie fonti, pare sappia tutto sulle cavie… non chiedermi come ma è così.»
«Comunque ho deciso» tagliò corto Orfeo.
«Ed ora se permetti… ho quegli appuntamenti da onorare, vedi di parlargli e di fargli capire che non può rifiutare.»
Francesca sapeva che era giunto il momento di congedarsi.
Si alzò con il suo metro e settantacinque più dieci centimetri di tacchi: era un suo vezzo come il trucco poi fece un cenno d’assenso e si voltò per uscire, abbastanza di scatto da far oscillare i folti capelli bruni scolpiti con taglio corto e sapiente.

«Naturalmente regolati tu per il passaggio di categoria e l’aumento di stipendio…»
La voce di Tribus la colse alle spalle, quando era ormai davanti alla porta, lievemente, come un’eco lontana… lei stava già pensando ad altro.

«Naturalmente-e-e-e…»
Rispose maternamente la dottoressa Lotti, e uscì senza voltarsi.

Per Francesca non era una buona giornata.
Neanche ieri, domenica, era stata esaltante: non aveva voglia di nulla, trascinandosi languidamente in vestaglia, da un locale all’altro, osservando quasi ossessivamente per l’intero giorno, dalla finestra del suo lussuoso appartamento, il giardino sottostante.
Unica eccezione a questo pigro deambulare, il termine della rilettura delle “anime morte” di Gogol e l’ascolto di Satie e Debussy per piano solo.
Un miscuglio di malinconica rassegnazione la pervadeva e la pigrizia della natura invernale circostante, accompagnata da quel particolare sottofondo musicale, la coinvolgeva a tal punto da non farle combinare niente.
Forse la causa era nelle tensioni accumulate la settimana precedente e le incomprensioni di lavoro, inevitabili per il ruolo che occupava nell’istituto.
La sua libertà di single, pervasa da un futuro sentimentale possibile e ancora da decifrare, la rivestivano costantemente di una patina glamour: è così che la vedevano tutti, non senza invidia.
Interiormente però, anche lei aveva sofferenze e lacrime: in fondo era una trentacinquenne che inevitabilmente cominciava a fare bilanci e, forse inconsciamente, ad avere a noia il profumo stimolante della libertà.
Nell’ambiente di lavoro, intorno alla sua vita solitaria, si agitavano le cattive lingue. L’esposizione a quelle chiacchiere che velatamente percepiva, in realtà sino ad allora non le erano mai importate, ora cominciavano ad avere un peso: stavano corrodendo poco a poco, come uno spiritello maligno, il suo aspetto barocco e imperturbabile.

«Sono sul lungo fiume… sì… ma guarda… c’è un gatto che non riesce più a risalire… ma no, non è un cucciolo è adulto… sì… ci sono i pompieri che stanno per fare qualcosa, sì… sì, addirittura i pompieri…»
Michael incrociò quella donna che urlava dentro ad un cellulare.
Stava raggiungendo il fiume che attraversava la Città e non poté fare a meno di ascoltare quella conversazione. Non riuscì a non considerare che solo i ragazzi sanno usare bene quelle piccole trappole elettroniche: le tengono incollate alle orecchie e parlano tra di loro con un nuovo idioma, bisbigliato, quasi avessero un silenziatore nella voce; gli adulti, come quella donna, sembrano fare comizi attraverso un megafono.
Uscì da queste astrazioni per entrare sulla via che costeggiava il fiume e vide il trambusto.
Il corso d’acqua in quel punto, per un lungo tratto, era imprigionato da due muri diritti alti circa quattro metri. Erano stati appena ultimati i lavori di consolidamento, nella zona centrale della Città, per evitare possibili esondazioni, come era successo parecchie volte in passato.

Gli argini erano stati rialzati notevolmente ed il fiume scorreva come in fondo ad una trincea.
C’erano tanti curiosi assiepati lungo quei muri e sul ponte addirittura i pompieri: due in cima e uno sotto vestito come un palombaro arancione con un vistoso casco. Quest’ultimo si trovava nella striscia di terraferma, larga circa un metro, che costeggiava la corrente.
A poca distanza dal suo inseguitore, un gatto nero bagnato fradicio avanzava penosamente, tenendo però a distanza il palombaro. Ogni tanto si sdraiava di lato con una posa innaturale e si guardava attorno.
I suoi occhi gialli, spalancati e accesi come fanali, risaltavano sulla pelliccia scura: doveva essere esausto… affamato…
Chissà da quanto tempo si protraeva quella lotta per la sua salvezza.
Senza aiuto non sarebbe mai riuscito a risalire, era evidente.

Michael osservò diversi tentativi di cattura e si rese conto di quanto fossero vani e imprecando: «Imbecille! Così non lo prenderai mai…»
Si decise quindi ad intervenire.
Al di là del ponte si ergeva imponente un grande e scintillante centro commerciale e fu lì che si diresse a lunghe falcate.
Dopo pochi minuti uscì e si diresse verso i due pompieri che stavano impalati vicini ad una scaletta di corda srotolata sull’argine e fissata, all’altro capo, al camion rosso di servizio parcheggiato.
Prima che i due si accorgessero, era già a metà della scala:
«Ma… chi è quello? Torni immediatamente indietro! Cosa sta facendo? Non è autorizzato!»

Superò il palombaro che, avvolto com’era da quella sorta di armatura, quasi non si accorse della sua presenza e si avvicinò al povero animale, poi si chinò, rimanendo accovacciato, ad una distanza di sicurezza per rassicurarlo, infine estrasse dalla tasca il sacchetto di gustosi bocconcini per gatti che aveva appena acquistato.
Dopo alcuni lanci, il felino affamato si avvicinò… sempre più… prima annusò circospetto poi si decise, finalmente, a mangiare direttamente dalla sua mano.
Fu allora che lo afferrò decisamente con l’altra mano.

Nel frattempo i due pompieri in alto, che avevano seguito sbigottiti la scena, calarono velocemente con una corda una gabbia: fu, questa, l’unica azione sensata della giornata.

Quella domenica mattina Michael fece qualcosa di diverso dal solito girovagare senza meta per la Città.

Michele Baldi si trovava in uno dei laboratori di mezzo e stava sistemando accuratamente ed in ordine di dimensione, una serie infinita di provette, appena uscite dall’autoclave di sterilizzazione, negli appositi contenitori.
La ricercatrice alle sue spalle, di tanto in tanto lo sbirciava spudoratamente: vedeva un uomo giovane in camice bianco, molto alto, snello, dalle spalle larghe e curiosamente spioventi – formavano infatti una sorta di “V” allargata – il collo lungo ed il capo regolare, mascherato dalla plastica anti batterica, lasciava intravedere una massa compatta di folti capelli castani.

Piaceva, quel giovanotto taciturno.

I suoi occhi azzurro chiaro vagamente assorti ed il suo viso da bambino cresciuto, suscitavano immancabilmente, nel gentil sesso, un’inspiegabile, preciso desiderio: entrarci e senza pudore, in quell’abisso liquido e trasparente.
Per tutto l’Istituto era Michael e comunque… al di là dell’aspetto… un semplice factotum: un jolly tappabuchi insomma.
Non possedendo alcuna specializzazione era esposto ad incarichi sempre diversi e spesso poco gratificanti.
Questa situazione ambigua corrodeva, giorno dopo giorno, la sua ostinata volontà di rimanere in quel luogo.
Era lei, la sua presenza, che lo tratteneva…
In realtà niente più di un sogno, certamente irrealizzabile.

Non poteva immaginare che, in quell’attimo, pur seguendo vie impervie, il destino stava lavorando alacremente per lui.
Si stava manifestando veloce, attraverso dei comunissimi e insensibili cavi elettrici: quelli che collegavano l’ufficio della dottoressa Lotti a quel laboratorio.

Il suo nome, scandito dall’altoparlante interno, lo colse di sorpresa, la provetta che stava manipolando cadde e si ruppe in una miriade di frammenti.
Michael guardò con espressione disarmante chi lo stava osservando quasi fosse un bambino dispiaciuto, poi raccolse velocemente i minuscoli cocci e, togliendosi i guanti sterilizzati ed il copricapo, uscì in fretta.

L’odiato interfono disse alla dottoressa Lotti, con la voce della sua assistente, se poteva far entrare il Signor Michele Baldi e lei acconsentì rimanendo in attesa.
Puntualmente, la settimana precedente, come le era stato preannunciato da Orfeo, si trovò sulla scrivania le dimissioni del Signor Stefano Zaro e quindi la temuta patata bollente si materializzò, come temeva, con quella lettera.
Quella mattina lei aveva letto e non senza sorpresa, tutte le notizie possibili sul giovanotto.
Il vecchio Tribus aveva infatti l’abitudine, prima di far assumere qualcuno, di indagare sul soggetto, anche sulla sua vita e non solo lavorativa.
Emerse che Michael aveva alle spalle un vissuto doloroso e molto particolare.

Il giovanotto rimase orfano da ragazzo per un drammatico evento che sconvolse e segnò la sua vita: entrambi i genitori morirono in un orribile incidente stradale nel quale lui, unico figlio, si salvò miracolosamente: fu sbalzato fuori dall’auto che si stava capovolgendo prima di incendiarsi.
La tragedia ebbe luogo a Johannesburg in Sud Africa.
Fu in questa parte dell’Africa australe che il ragazzo nacque e passò gli anni più spensierati della sua vita.
Suo padre, italiano, funzionario di una delle innumerevoli multinazionali di quella parte di mondo; sua madre, francese. Dopo la tragedia per lui ci fu l’orfanotrofio, l’adozione, l’arrivo in Italia e, come unico bagaglio, l’ottima conoscenza di quattro lingue.
Ma le tragedie non finirono qui, ci fu la morte per malattia dei genitori adottivi e la consapevolezza, nell’ormai adolescente, di una costante nella sua vita: essere preso per poi essere abbandonato.
Ora era un uomo di trent’anni, perdutamente innamorato di quella donna che stava seduta dietro una vasta scrivania, al di là di quella porta che si accingeva, non senza emozione, a varcare.

La dottoressa Lotti si alzò e, dopo averlo salutato gli tese disinvoltamente la mano.
Una volta tanto non dovette abbassare lo sguardo verso l’uomo che le si trovava davanti: lui, infatti, la sovrastava di almeno cinque centimetri nonostante lei portassi i soliti tacchi a spillo.
«La prego Signor Baldi si metta comodo.»
«Michael» Rispose impacciato.
I profondi occhi nocciola sapientemente truccati, che lo fissavano dall’altra parte della scrivania, rimasero impassibili.
Con questo sguardo, abitualmente, metteva dei paletti invisibili tra lei e i suoi interlocutori, facendoli stare così al proprio posto.
Lui se ne accorse:
«Qui mi… mi chiamano tutti così…» E si morse la lingua.
«Dunque Signor Baldi, le volevo comunicare a nome della direzione, che si è deciso di affidarle un nuovo e definitivo incarico. Riguarda le cavie e la loro preparazione, attraverso anestesia, prima dei test di laboratorio. La cura degli animali rimarrà affidata, come sempre, alla Signora Negri.»
«Ma…» fece per ribattere,
Francesca lo precedette fulminea:
«Sì il Signor Zaro ci lascia, ho qui davanti le sue dimissioni. Abbiamo deciso di sostituirlo con lei. Naturalmente la affiancherà per il periodo necessario ad un addestramento adeguato. Spero che lei sia d’accordo… ne avrebbe tutti i vantaggi: sia come categoria che come retribuzione.»
Aggiunse:
«È un lavoro delicato, che richiede sensibilità verso le sofferenze di quegli animali: una anestesia adeguata limiterebbe, almeno durante i test, il dolore.»
Michael la fissava interdetto e quasi balbettò: «Ma io non…»
«Sappiamo», tagliò corto la sua interlocutrice, «che lei conosce a fondo le cavie… non è così?»
«Ma come fate a…» Poi, riacquistando sicurezza:
«È una lunga storia…»
«Me la vuol raccontare?» Rispose Franci ansiosamente.
«Da bambino, in Sudafrica, desideravo tenere un animale, i miei genitori pensavano ad un cane o un gatto ma io avevo visto in un negozio, esposti, due porcellini d’india, cavie appunto, non sapevo per quale motivo ma li volevo assolutamente: o loro o niente.»

Nei minuti successivi, la dottoressa Lotti seppe tutto quel che è possibile sapere su quegli animali: la loro storia, il loro impiego nei rituali religiosi sulle Ande, il nome “porcellini d’india” dovuto ad una vaga somiglianza, in scala ridotta, a maialini… la gestazione molto lunga di ben 72 giorni…
«e…»
Continuò dissertando: «A questo proposito, non capisco perché non le sostituiate con i ratti che hanno una gestazione più breve e maggiori qualità; convengo, tuttavia, che le cavie rimangono per la ricerca “organismo modello”: uno dei pochi animali che come l’uomo non è in grado di produrre vitamina C, ma deve assumerla…»
«Benissimo!»
Lo interruppe la dottoressa Lotti, frastornata da quella valanga di nozioni e anche turbata dal timbro di voce e dall’aspetto gradevole dell’uomo che aveva di fronte, «ritengo che la scelta della direzione sia opportuna!»
E continuò:
«Lei è disposto dunque ad accettare l’incarico?»
L’espressione di Michael passò da meditabonda a leggermente ironica, l’abisso liquido e trasparente dei suoi occhi investì in pieno Francesca. Essa lo fissava aspettando una risposta che non tardò ad arrivare:
«Perché? Avrei forse alternative?»
La donna ignorò, impassibile, la frecciata:
«Se ho inteso bene… accetta quindi!»
«L’ho appena fatto…» rispose lui, e lo disse con un sorriso timido e trasparente.
La conversazione era finita e, dopo i saluti, anche l’incontro.
Almeno così pensava Franci.

Davanti alla porta lui si voltò, con l’espressione di chi ha dimenticato qualcosa:
in quel momento, nel più profondo del suo essere, sapeva che non avrebbe più avuto un’altra occasione… anche il foglio nella tasca del camice glielo stava urlando e ritornò eroicamente sui suoi passi…

«sì…?»

La donna lo stava guardando,

«Ecco… le lascio questo foglio, è il programma di un concerto che si terrà il mese prossimo, è stato difficilissimo trovare due biglietti già adesso…»

Poi si voltò e uscì precipitosamente.

La dottoressa Lotti, che si stava dibattendo tra paletti che non funzionavano e turbamenti repressi, ne lesse il contenuto: era il programma di un concerto per pianoforte solo.
Il nome del pianista ed i brani elencati la fecero sobbalzare: la serata prevedeva essenzialmente composizioni di Satie e Debussy.

“Ogni cosa in noi è illuminata dai ricordi, restano incollati sulla pelle e sono gli occhi a rifletterli, attraverso la nostra espressione.
È una matrice che contraddistingue ognuno di noi… ci rende unici…”

Francesca si stava inabissando sempre più in questo genere di riflessioni: la sua mente fervida le produceva continuamente con naturalezza.

Quella notte non riusciva proprio a prendere sonno e non potendo fare altro pensava.
Forse la causa era la leggera febbre causata da una raffreddamento stagionale ma c’era altro che si sommava: qualcosa che finora le era ignoto.
Non possedeva anticorpi per un turbamento che non aveva mai sperimentato.
Si era insinuato in lei dal giorno dell’incarico al nuovo anestesista, sotto forma di una sottile inquietudine che si stava diffondendo come un virus.
Il viso di quell’uomo le era rimasto impresso: faceva trasparire tutte le sofferenze vissute in un arco temporale relativamente breve.
Tutto ciò che aveva letto su di lui e che rappresentava esperienze devastanti, era troppo pesante per trovare spazio in pochi fogli stampati.

Il giorno successivo la dottoressa Lotti era al suo posto, dietro la grande scrivania, a fare quello che faceva di solito.
Ci voleva altro, non certo una banale influenza, per farla rimanere a letto.
All’unisono con il suo battito cardiaco pulsava una fibra ascetica, un che di monastico che la rendeva cieca e le faceva trascurare quelle che lei considerava, né più né meno, piccole debolezze.
Comunque la febbre era aumentata e doveva ricorrere sempre più spesso a svariati fazzoletti di carta e poi era arrivata la tosse.
Si dovette sistemare parecchie volte il viso, ci teneva molto al trucco. Aveva un cassetto con tutto il necessario.
Lo aprì spesso quel giorno per passarsi una buona dose di rossetto sulle labbra carnose e tutte le volte si trovava inchiodata davanti a quel foglio con il programma del concerto.

Il giorno dopo dovette cedere e rimanere a letto.

Quella semplice influenza aveva vinto la sua caparbietà trasformandosi in bronchite.

«Oh, ecco arrivato il mio bel dottorino!»

Era la voce della signora Negri che salutava con il solito repertorio, rigorosamente senza variazioni, il nuovo anestesista.
Michael, entrando, le sorrise e non rispose.

«Sempre molto loquace, vero?» E continuò,
«So che mi ami alla follia… lo so… è per questo che non me la prendo, i tuoi adorati roditori sono pronti: puliti e nutriti, immagino che tu non veda l’ora di stare solo con loro.»
«La ringrazio signora, è vero, l’amo alla follia ma vede… ecco… il mio è un lavoro delicato… non mi posso distrarre.» rispose platealmente ironico Michael che non vedeva l’ora di levarsela di torno.
Fu accontentato perché la signora stava già uscendo, con il solito bagaglio di rifiuti e uno strascicato: «ciaoooo!»

In fondo quella donna gli era simpatica, anche se invadente.
Teneva con lei un rapporto semplice e scherzoso rimanendo però sempre e saldamente sul suo pianeta: impossibile entrare nella sua mente e, a volte, capire del tutto i suoi comportamenti per una donna di quella natura.

Ormai era già una settimana che lavorava da solo in quel laboratorio, gli erano bastati pochi giorni di tirocinio con il signor Zaro per sapere esattamente cosa doveva fare con le dosi e come somministrarle, il resto lo fece la conoscenza profonda della razza.

Ma, malgrado le apparenze e la soddisfazione della direzione per la scelta azzeccata, c’era un problema ed era proprio, paradossalmente, la sua predilezione per quegli animali.
Conosceva ormai bene quelle cavie, soprattutto una.
Era una femmina e le aveva dato un nome: “Billie”.
Quella mattina la trovò in condizioni peggiori: il gonfiore sulla schiena era aumentato visibilmente e più che muoversi si trascinava.
Da una settimana si stavano accanendo su di lei con una serie di test e i risultati si cominciavano a vedere. Per quel giorno, comunque, sarebbe stata risparmiata: fortunatamente non faceva parte della lista che aveva tra le mani.
La guardò con una stretta al cuore e controvoglia cominciò il suo lavoro.

Michael aveva deciso.
Non poteva più aspettare: le condizioni della cavia Billie, che durante la settimana aveva subito ulteriori sevizie, erano peggiorate e anche altri compagni di prigionia non se la passavano meglio.
Sì, quegli ultimi giorni erano stati pesantissimi per quei poveri animali.
Il piano gli era maturato lentamente nella mente insinuandosi in tutti i suoi complicati meandri, tanto da farlo sentire come fosse un angelo vendicatore predestinato: colui che era stato messo lì dal destino per porre fine a quelle sofferenze.
Aveva calcolato tutto: bastava realizzare, freddamente e materialmente, quel piano che aveva studiato nei minimi dettagli.

La sera si presentò all’uscita come al solito, timbrò il cartellino come gli altri e poi ritornò sui suoi passi fingendosi visibilmente trafelato, come avesse dimenticato qualcosa di importante nel laboratorio delle gabbie.
Rimase lì, nascosto, lasciando che l’intera struttura si vuotasse.
Più tardi, all’ingresso, ci sarebbe stato il cambio: una guardia notturna avrebbe sostituito il portinaio e più tardi le vivide luci diurne si sarebbero automaticamente abbassate, all’insegna del necessario risparmio energetico per la notte, creando un’atmosfera fioca e colorata d’azzurro, che avrebbe avvolto tutto e favorito il suo piano.
Adesso doveva solo aspettare il lasso di tempo che aveva stabilito con precisione.
Conosceva bene l’itinerario con i tempi di ronda e si mosse, a questo punto, con molta cautela poiché la guardia, ad intervalli regolari, faceva un giro di controllo, timbrando, in vari punti predisposti, una scheda sulla quale rimaneva impressa l’ora; la mattina, poi, l’avrebbe consegnata all’ingresso per eventuali verifiche.
Fungeva, quest’ultima, da prova dettagliata della sua notte di sorveglianza nei punti chiave dell’istituto, uno dei quali era la farmacia.
Le dosi che l’anestesista utilizzava erano stabilite da un computer, la cui quantità si basava sui test che si sarebbero eseguiti nell’arco della giornata: né un grammo di più né un grammo di meno e tutto doveva essere registrato firmato, controfirmato e conservato per gli eventuali controlli, che gli enti preposti, seguendo un preciso protocollo, potevano eseguire a sorpresa ed in qualsiasi momento.
Michael aveva una scheda magnetica personale e poteva aprire quella porta.
Quella notte doveva prelevare la quantità di anestetico che, secondo i suoi calcoli, sarebbe bastata.

Egli si trovava all’interno del suo laboratorio quando passò la guardia. Uscì senza scarpe e la seguì come ne fosse l’ombra.
Dopo la timbratura nel punto di controllo farmacia, la guardia richiuse la porta fischiettando e continuò il suo abituale itinerario mentre la sua ombra scivolava all’interno.
Ora gli rimanevano trenta minuti per prelevare tutto ciò che gli serviva.
Ritornò con dieci minuti di anticipo nel suo laboratorio e si rimise in attesa.
Ripassò la guardia… era il momento di agire.

La mattina seguente la signora Negri, dopo essersi intrattenuta con varie persone, con la sua eloquenza spicciola e rumorosa, entrò con tutto il suo armamentario per le pulizie nel laboratorio delle cavie… non credeva ai propri occhi ed emise in un sol colpo, con tutta l’aria che aveva nei polmoni, un grido altissimo, stridulo e improvviso.

Gli eventi che seguirono quell’urlo raccontarono del professor Orfeo Tribus che, avvertito immediatamente dell’accaduto, arrivò a grandi falcate ansimante, gli occhi cespugliosi in preda alla tempesta, seguito da un nutrito stuolo di leccapiedi che faticavano a tenere il suo passo.

Poi, quello che sul momento appariva come un danno irreparabile, nei giorni successivi si dissolse come una bolla di sapone: i test che si stavano facendo su quei poveri animali, abbattuti quella notte da una overdose di anestetico, erano praticamente finiti, ed il passaggio ai ratti, come animali da laboratorio, era già stato precedentemente programmato; il danno economico fu quindi irrilevante e la direzione si preoccupò piuttosto di insabbiare tutto e non diffondere la notizia visto che c’era in gioco il buon nome dell’istituto.

A Michael, considerato da quel giorno paranoico, fu imposto di dare spontaneamente le dimissioni con la promessa di non sporcare in futuro le sue referenze; non era certo una ricompensa per ciò che aveva fatto, ma per contenere il più possibile, nei confini della struttura, l’accaduto.

La dottoressa Francesca Lotti apprese i fatti nella stanza d’ospedale dov’era ricoverata per una bronchite trascurata.
«Bastava ignorarla “allegramente” ancora un poco perché si trasformasse in polmonite.»
Così, almeno, le fu detto ironicamente dai medici.

Michele Baldi si trovava supino sul letto, nella posizione preferita.
Aveva appena ricevuto una telefonata che confermava la sua assunzione in una multinazionale olandese della quale una filiale operava in Italia che, oltretutto, per un colpo di fortuna inaudito, aveva sede in una città relativamente vicina.
Il ruolo che lui avrebbe svolto era di traduttore nell’ufficio relazioni internazionali, grazie a quell’unico ma prezioso bagaglio che si era portato dal Sudafrica.

Il telefono squillò nuovamente: all’altro capo della linea c’era una giovane donna dalla voce innaturalmente rauca che, tra un colpo di tosse e l’altro gli disse comunque con decisione: «Ti telefono per quel concerto… domani verrò dimessa dall’ospedale e sabato sera verrò a prelevarti con la mia auto… non ho nessuna intenzione di rischiare la vita sul tuo macinino.» E riattaccò di botto.

Il bel viso di Michael si aprì in un sorriso beato mentre il suo corpo si allungava rilassato.

[continua]


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