Ero in viaggio per l’India (Dialogo tra mente e natura

di

Erica Ercoli


Erica Ercoli - Ero in viaggio per l’India (Dialogo tra mente e natura
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 220 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-2253

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In copertina: illustrazioni di Stefano Ricci


PREFAZIONE

Un lungo racconto tra sogno e realtà, alla ricerca di un’integrazione con la natura, sotto la guida spirituale di un giovane indiano, che assume ora il ruolo che fu quello di Socrate per i suoi discepoli con il metodo maieutico, ora quello di Virgilio per Dante Alighieri. Il confronto dei contenuti di questo volume con simili “giganti” non è un’iperbole: ne contiene in nuce i principi, che ogni lettore svilupperà individualmente come e quanto sarà capace di fare. Il messaggio del libro, un po’ fiaba, un po’ diario, è chiaro: nulla è come ci appare a un’osservazione superficiale, ma si può arrivare alla conoscenza solo attraverso l’accettazione dei propri limiti, ponendosi in discussione, cercando di migliorarsi e approfondendo le nostre certezze, che spesso non sono tali, ma soltanto il frutto di quello che i mass media e le mode ci propinano quotidianamente.
È sotto la guida di Ravi, il giovane indiano, che la protagonista di questo libro si avventura alla scoperta di un’India che in realtà non esiste: è il simbolo di una terra esotica e sconosciuta, una scusa per ripartire da zero e affrontare la conoscenza della natura e soprattutto di se stessi, accettando la distruzione di quello in cui si crede per poi ricostruirci un mondo, una Umwelt che non sia più individuale ma in comunione con quelle degli altri esseri viventi.
La protagonista di questo lungo racconto è attratta dalla natura, ma soltanto attraverso gli interrogativi che Ravi le pone e i dubbi che sapientemente le sa insinuare arriverà a compenetrarsi in essa, uscendo cambiata da questa sorta di catarsi spirituale e culturale.
Unica nota lievemente umoristica di questo libro è l’abbandono del fidanzato Carlo, che la protagonista “molla” in albergo appena arrivati in India, per lanciarsi alla ricerca della Verità con il giovane indiano Ravi, semplicemente informandolo con un biglietto più o meno rassicurante. Lo rivedrà dopo un’assenza di alcuni giorni da lei trascorsi con Ravi, durante i quali – molto femminilmente – lo ha accusato dentro di sé di trascurarla per il lavoro: non sorprende affatto che, poi, i due interrompano il loro rapporto!
Personalmente mi sono sentito abbastanza vicino a Carlo, ma la mia predizione è che le lettrici staranno invece tutte dalla parte della protagonista e i lettori da quella dell’ex-fidanzato. Uomini e donne, si sa, appartengono a specie animali molto diverse, pur incrociandosi e avendo prole feconda…

Sandro Lovari (Professore Ordinario di Etologia Università di Siena)


Ero in viaggio per l’India (Dialogo tra mente e natura


Alla mia Famiglia
e…

… a te
Essere Umano


LORO

Ho scelto l’amore più semplice,
quello ricambiato.

Irrefrenabile il bisogno di averle accanto,
aver vicino la tenera coerenza
quella chiara logica che ne fa la loro essenza.

Sono le creature della natura
a muovere i miei sentimenti,
sono innocenza pura,
sono essere, semplicemente.

Sembrano non aver dubbi sulla vita,
la vivono come vien servita,
senza pensieri o rimpianti
con accettazione e affanni.

Affascinanti nei diversi modi di amare,
si rendono vulnerabili nel chiedere affetto.
Una zampa nella mano, un muso da toccare,
possono farsi domare
o nell’indole più selvaggia lasciarsi ammirare.

Un accordo che richiede un prezzo,
occhi che non a tutti è concesso guardare,
se vuoi paghi in rispetto.

Fiducia, cauti nel concederla,
può sembrare crudele indifferenza
ma non è altro che loro difesa
e un premio, per chi sa ottenerla.


PROLOGO

Ero in viaggio per l’India, quello stato dell’Asia meridionale, quella penisola bagnata dall’oceano Indiano, dal mar Arabico, dal golfo del Bengala a est. Al nord, invece, è governata dalle impetuose vette della catena Himalayana, oltre di esse l’Asia si estende per ampie terre affascinanti, leggendarie, mitiche.
L’India, terra ricca di fauna e vegetazione incredibili, dal clima tropicale monsonico, misteriosa nei suoi infiniti rumori, odori, colori, delicata nella calura estiva, quasi assopita nell’afa del sole bollente e spietata, crudele, affamata tra le vette ghiacciate delle alte montagne.
Era proprio lì che mi dirigevo, proprio nella terra de “Le mille e una notte”, una terra che, inconsapevolmente, nei giorni della mia adolescenza e nelle serate solitarie o nei momenti più malinconici, aveva custodito molti dei miei sogni. Era da lei che la mia mente correva, e su di essa costruiva appassionate storie d’amore o di leggendario eroismo o di entrambe le cose. In quei viaggi, in quei luoghi non esisteva il tempo, non c’erano regole né delusioni.
Nel posto accanto al mio era seduto il mio fidanzato Carlo, stavamo insieme ormai da due anni.
Era un bravo ragazzo, non pretendeva molto da me, solo gentilezza e discrezione per i suoi affari. Per fortuna! Perché ero legata a lui solo da un semplice affetto, l’amore era una parola che non faceva parte del mio vocabolario. Stare con lui, però, mi aveva dato la possibilità di girare il mondo! Ero stata in America, Inghilterra, Spagna… ed ora l’India!
Sapevo essere una terra diversa dal mio occidente, molte persone me ne avevano parlato, c’era chi era rimasto incantato dalla vita calma, vissuta quasi in sordina, e chi invece aveva visto oltre l’apparenza del turista e superare ogni giorno a stento aveva fatto crescere in loro il desiderio di non tornarvi mai più.
Ora, però, toccava a me visitare quei posti, vivere la mia di esperienza, la consideravo un po’ la prova della vita, di fronte a una dura realtà che nasconde straordinarie meraviglie, come me la sarei cavata? Questo era un pensiero che mi eccitava.
D’un tratto una voce si fece alta all’interno dell’aereo, per avvertire i signori passeggeri che da lì a poco saremmo atterrati.
Sarei finalmente scesa e solo l’idea mi emozionò, iniziai ad agitarmi sul sedile, a guardare fuori dall’oblò con sfrenata curiosità, con insaziabile desiderio di vivere. Carlo doveva essersene accorto, i miei occhi, penso, brillassero più del sole, perché non riuscì a dire niente, si limitò a sorridere dolce, come era suo solito, e ad accarezzarmi la mano.
Atterrammo dopo circa mezz’ora all’aeroporto di Bhopal, nello stato del Madhya Pradesh che si trova quasi al centro dell’India. Fu un atterraggio morbido, quasi un sussurro, in fondo fu paragonabile a tutto il viaggio, tranquillo e senza troppe turbolenze, questo fatto mi aveva esaltata perché lo avevo preso come buon auspicio per tutta la mia permanenza.
Ero così, quando l’euforia si impossessava di me mi divertivo a trovare buoni segni in ogni evento; forse era una cosa stupida, ma poteva aiutarmi ad aumentare il coraggio necessario per affrontare le novità, e ormai era diventato un atteggiamento spontaneo che mi rendeva più felice.
Scendemmo dall’aereo e un’auto era lì, pronta per portarci al nostro albergo al centro della città, ed io potei dare un breve assaggio alle strade che avrebbero accompagnato le mie giornate.
Mi sembrava di essere in uno di quei vecchi libri di fiabe, quelli grandi con le copertine rigide, pesanti, rifinite con cornici in risalto e con i colori più sfavillanti, erano copertine importanti, perché il loro compito era importante: custodire una storia. Le pagine poi, ve ne erano alcune solo per le illustrazioni, e tra quelle sottili linee nere che contornavano sontuosi abiti colorati, o i volti più umili, la mia fantasia rischiava di perdersi per ore, fin quando la curiosità non la richiamava per andare avanti con la storia e scoprirne il finale.
Per me erano i templi della fantasia, costruiti esclusivamente per quella storia, ed ogni particolare, ogni disegno, ogni parola aveva la giusta importanza. Come quando decidiamo di dedicarci a qualcosa che ci piace fare, tutto di quello svago ha un valore, e il tempo che gli dedichiamo deve essere solo per lui. Non come i libri di oggi, dove in un volume ci sono più di dieci racconti, con disegni piccoli e in bianco e nero, o a volte senza, libri dove alle storie è stato tranciato qualche pezzo perché ritenuto insignificante, buono solo ad occupare spazio, spazio prezioso perché non devono esserci più di un certo numero di pagine.
Una violenza alla fantasia.
Dedicarle invece pagine grandi, rifinite, protette da una copertina sontuosa significava dare valore alla storia, ed ora, io, volevo dare valore alla mia di storia, ora volevo viverla! Ero io la protagonista di una di quelle fiabe, delle mie tante favole, l’avventuriera piena di entusiasmo alla scoperta di meraviglie, e guardando dal finestrino della vettura le strade, i vicoli, le piazze, la gente, riuscivo già ad immaginare i colori che avrei visto, i rumori, gli odori che avrei sentito.
Ah… avrei… avrei sicuramente scoperto cose stupende, passeggiando tra le affollate strade delle città, visitando monumenti e fotografando templi, avrei comprato souvenir e spedito cartoline, poi avrei parlato con la gente del posto e avrei scoperto i loro cibi, le loro abitudini, il loro pensiero… ero certa che avrei scoperto le cose più belle, sì, ne ero certa!
Gli avvenimenti, però, sarebbero cominciati il giorno successivo, perché eravamo arrivati nel tardo pomeriggio, e l’avventuriera si sentiva stanca.
Una volta in camera Carlo si congedò da me accarezzandomi le spalle e baciandomi lievemente il collo, per andare subito a preparare i suoi affari. Sin da piccolo era stato educato a non perdere tempo, suo padre, direttore di un prestigioso giornale, era un uomo molto severo e aveva sempre trattato il figlio come uno dei suoi dipendenti rendendolo uno fra i migliori dello staff. La gentilezza, invece, gli fu data dalla madre, una bellissima donna dotata di grande pazienza.
Io rimasi in camera e lasciai disfare i bagagli alla servitù che ci eravamo portati dietro, e buttandomi sul letto, presi in mano il mio itinerario: il primo appuntamento con la guida era per la mattina seguente, avrei fatto un giro per Bhopal, capoluogo del Madhya Pradesh.
Bhopal, quali meraviglie custodiva? Quali segreti avrebbe tentato di celarmi? Quali stravaganti episodi mi stava preparando? Sì, mi sentivo felice, viva, presente lì in India e anche l’India doveva sapere che ero arrivata, ed ero pronta a scoprirla.
Mi affacciai alla piccola finestra della stanza, era il tramonto e il cielo libero, pulito da ogni nuvola faceva tetto a strade ancora rumorose sotto il mio sguardo, strade che da lì a poco non avrebbero avuto più alcun mistero per me.
Per quel giorno dovevo essere nel pieno delle mie forze, decisi allora di farmi un bagno caldo, cenare presto e andare subito a dormire. Ero così esaltata dalle previsioni che mi ero fatta, che sognai tutte le mie aspettative del giorno dopo: mi sognai raggiante, avvolta da veli delicati girare tra le affollate vie della città, sorridevo ai passanti, e compravo ogni oggetto che mi interessava o che mi incuriosiva, la guida, un signore anziano e molto magro, mi spiegava in inglese la storia del Madhya Pradesh, le guerre, le carestie, ed io lo ascoltavo affascinata dalla passione che metteva nel spiegare la sua tanto amata India.
Mi scoprii a imparare l’hindi e a parlarlo con i venditori, tutta gente cordiale che ricambiava i miei sorrisi. Poi mi girai sentendo qualcuno chiamare il mio nome, era Carlo, che veniva verso di me con un sorriso dolce, innamorato… lo chiamavo Carlo, ma il viso era di un altro uomo, un uomo mai visto prima, ma con un volto incantevole!


I

La mattina seguente mi alzai di buon’ora, e anche di buon umore. I sogni della notte prima erano svaniti del tutto ma quel cielo azzurro, che intravedevo dalla piccola finestra come segno di una buona giornata, incoraggiava il mio entusiasmo.
Mi vestii, mi pettinai e diedi un’ultima occhiata allo specchio prima di uscire, accertandomi che anche il mio aspetto fosse impeccabile per rappresentare al meglio la protagonista di quella storia.
I miei lunghi capelli biondi erano stretti in due trecce raccolte dietro la nuca, anche se qualche leggero boccolo usciva vicino le orecchie, e la frangia ordinata contornava gli occhi chiari e vispi. Indossavo una camicetta di seta infilata dentro a pantaloni di lino e ai piedi non avevo sandali, per paura che potesse darmi fastidio la polvere delle strade, e una volta insinuatasi nei piedi mi avrebbero irritata tutto il giorno, indossai, quindi, scarpe di pezza ben chiuse. Trucco leggero e profumo delicato.
Impugnai la borsetta, come un soldato impugna l’arma per una battaglia, mi sentivo pronta per la mia avventura e stavo per uscire quando il mio sguardo si posò sul cellulare spento, rimasi a guardarlo per qualche istante, poi decisi di non prenderlo per non essere disturbata nella mia passeggiata, tanto sarei rimasta in città, e poi le avventuriere non si attaccavano certo a simili sicurezze materiali.
Sapevo benissimo che Carlo era già immerso negli affari, in giro tra hotel e ristoranti con tutto il suo seguito a testare l’efficacia dei soggiorni per turisti, e con altrettanta certezza sapevo che mi aveva lasciato del denaro, nella mia borsetta, sicuramente già convertito in rupie, per spenderlo in ciò che mi avrebbe resa più felice.
Scesi alla reception e chiesi se mi aveva cercata qualcuno. L’uomo grassoccio, con lunghi baffi neri e il grosso viso scuro imperlato di sudore, mi indicò un giovane appoggiato allo stipite della porta d’ingresso.
Mi voltai a guardarlo, e mi sorprese subito la sua semplicità, o forse banalità ai miei occhi.
Aveva indosso una camicia lunga e tutta sbottonata, dei pantaloni larghi, che forse un tempo erano stati bianchi, che non arrivavano alle caviglie, i capelli lunghi fino alle spalle, neri come la notte, e leggermente mossi. Portava diversi bracciali, forse di rame, che brillando al sole del mattino facevano risaltare il colore delicato della pelle e altri tipo cuoio. Ma la cosa alla quale feci più caso era il fatto che fosse scalzo.
Stava a braccia conserte a guardare la strada, si voltò verso di me senza staccare la spalla dall’appoggio con la porta, evidentemente si era accorto che lo stavo scrutando. Mi avvicinai a passo deciso, alzai davanti ai miei occhi l’itinerario per leggere ancora una volta il suo nome e scandii bene le parole
– Tu_sei_la_mia_guida… Kamal? – Gridavo come se quello che era davanti a me avesse seri problemi di udito, persino le persone fuori, che passavano in strada, si girarono a guardarmi incuriosite.
Io non ci badai, lui rimase immobile e mi fissò, con un velo di riluttanza
– Sono Ravikiran. – Continuò a guardarmi per pochi secondi, poi scivolò fuori e s’incamminò per la strada con passo spedito. Io ero rimasta colpita dal suo inglese perfetto, ma mi ripresi subito e gli corsi dietro sotto il sole già alto.
– Bene! Io sono Alexandra, ed è un piacere conoscerla. Perché sul foglio che ho io c’è scritto che lei si chiama Kamal? –
– Kamal non è potuto venire. –
– Ho capito, e quindi lei lo sostituisce, mi può ripetere il suo nome per favore? Temo di non averlo afferrato bene. –
– Ravikiran. –
– Oh… bene… Ravi, posso darti del tu? – Fece un cenno di indifferenza con la mano senza neanche guardarmi. Continuava a camminare spedito, e io provai a stargli dietro cercando di continuare la conversazione.
– Qual è la prima tappa? –
Non rispose, ma voltò bruscamente a destra, facemmo qualche metro e poi girò a sinistra. Ci ritrovammo in una strada abbastanza ampia piena di bancarelle.
Rimasi a bocca aperta e d’improvviso non mi importò più niente del fatto che la mia guida non volesse conversare. Tutti quegli oggetti, quei tintinnii, quei colori… era da smarrimento!
Mi avvicinai a una donna che vendeva gioielli in oro, erano completamente diversi da quelli che ero abituata a vedere. Uno mi colpì particolarmente, somigliava a una catenella che dall’orecchio si agganciava al naso, ma era tutta lavorata e completamente ricoperta di pendagli, che facevano un rumore che mi divertiva. Decisi di acquistarla, e mettendo mano al portafogli confermai la mia idea di possedere rupie… e neanche poche!
Allo stesso modo passai per altre bancarelle parlando da sola perché la mia guida non sembrava disposta a tenermi compagnia
– Guarda che bello questo velo! Ti piace più rosso o arancione? Li prendo entrambi. –
E ancora: – Ma che tappeti meravigliosi! Prendo quello con le antilopi… le tigri mi mettono angoscia. A te no Ravi? Sono sempre così violente, sembra che si divertano ad uccidere. Le antilopi invece sono così graziose, non fanno male a nessuno. Non sarebbe bello un mondo dove le tigri non uccidano? Ma che puoi capirne tu. –
Passai la mattina così, a comprare e a fare monologhi, verso mezzogiorno incominciai ad avere fame e mi feci portare dove potevo mangiare qualcosa.
Mentre mi rifocillavo con una specie di hot dog, che ammetto guardavo con una certa riluttanza come se da un momento all’altro quella carne tornasse ad essere viva, provai di nuovo a conversare perché ero lì per divertirmi e non avrei permesso a nessuno di rovinare la mia vacanza, la mia favola… volevo parlare
– Allora Ravi, tu sei Indiano? –
La sua occhiata interrogativa non è descrivibile, che vergogna che avrei dovuto provare…
– Certo che sei Indiano… vivi in India! – La mia risata palesemente forzata non lo aiutò a sciogliersi con me.
– E dimmi, ti piace stare qui? Voglio dire… cosa del tuo Paese ti piace di più? – Avvertii che nel suo silenzio non c’era indifferenza nei miei confronti ma mancanza di stima, non mi spiegavo il perché… anzi era inconcepibile una cosa simile.
Cambiai del tutto argomento: – Dove mi porti finito di mangiare? –
Ravi indicò una via col mento: – Cosa c’è di bello lì? –
E finalmente parlò: – Un tempio. –
La sua voce era annoiata, distaccata, come se passare le giornate a visitare cose del genere fosse tempo perso.
Volevo conoscerlo, volevo farlo parlare, forse solo per passare il tempo o forse perché quell’individuo mi incuriosiva particolarmente, o forse perché nel sogno della notte precedente era tutto diverso.
Non era come la guida che mi ero immaginata, non parlava, non spiegava, non raccontava, e poi era giovane, stava rovinando la mia giornata da “Indiana Jones” al femminile. Avevo finito di mangiare, quello rimasto lo buttai, e decisi di stuzzicarlo un po’.
– Non lo voglio vedere. –
Mi guardò subito, sospettoso, poi usò un tono serio e sarcastico allo stesso tempo.
– E cosa vuole vedere? –
– Non so qualcosa che faccia perdere il fiato, sono certa che tu saprai trovarmelo. – ero altezzosa e provocatrice.
– Per Lei non c’è niente qui che fa perdere il fiato. –
– Non è vero sono una persona che sa apprezzare molte cose, forse sei tu che non conosci i posti giusti dove portarmi. –
– Si sbaglia. –
– Oh no caro, io non sbaglio quasi mai, e il quasi è esclusivo di quelle rare occasioni in cui mi trovo a parlare con persone più elevate di me – feci una risatina beffarda finendo la frase quasi sottovoce, – e non è certo questo il caso. –
Vidi distintamente una luce andare via dai suoi occhi e lasciare il posto a qualcosa di più tenebroso, più profondo.
Il mio tono era antipatico, lo sapevo benissimo, ma doveva servire a smuoverlo, a fargli fare la guida! E poi mai nessun uomo era riuscito a dire di no al mio naso all’insù o alla mia voce soave.
Mi si avvicinò spingendomi verso il muro, piantò i suoi occhi marroni dentro i miei e li fissò così intensamente che piano piano il mio sorriso sfrontato svanì, cacciato da un sentimento che non provavo da anni… la vergogna.
Sì, quello sguardo sembrava poter entrare così in profondità da vedere i miei pensieri più nascosti, e mi vergognavo a doverli mostrare, ma fu un attimo, perché subito la sua voce, che non ammetteva obiezioni, mi richiamò alla realtà: – Andiamo al tempio. –
Rimanemmo a guardarci per alcuni secondi, lui era serio, io confusa… perché si era irritato a quel modo? Volevo solo scherzare un po’.
Lentamente scostò il suo volto dal mio, allontanando anche i suoi occhi castani e si voltò per imboccare la strada che pochi minuti prima mi aveva indicato.
Io rimasi qualche secondo ancora ferma lì, cercando di realizzare cosa fosse successo, poi staccai la schiena da quei mattoni e, ancora sconcertata, cercai di muovermi per seguirlo ma in quel frangente un grido mi destò del tutto, e voltandomi vidi il terrore.
Era lì, a due passi da me, negli occhi neri di una giovane donna che corse via tagliandomi la strada.
Come fossi in un film vidi persone sfrecciare in ogni direzione. Uomini che scappavano guardandosi di tanto in tanto alle spalle, venditori che trascinavano la loro mercanzia per allontanarsi il più in fretta possibile, ragazzi fuggire senza far caso a ciò che trovavano sulla strada, donne che correvano con i loro figli in braccio o per mano. Era come se un mostro gigantesco fosse piombato su Bhopal per uccidere tutti.
Ed io ero rimasta lì, immobile, con le buste della spesa che mi tenevano le braccia lunghe, non capivo cosa stesse succedendo, ero rimasta lì, senza sapere cosa fare, udivo il rumore di bancarelle distrutte, cocci infranti, grida, animali che correvano spaventati.
Accadde tutto in pochi frangenti, mi ritrovai immersa in quel caos, in quel tumulto di persone e lo smarrimento mi pervase come un brivido… ed ebbi paura. Paura di non so che cosa, sapevo solo che era da per tutto, che tutti ne avevano e come qualcosa di contagioso la paura prese anche me, ma al contrario di tutti, io non riuscivo a muovermi, non sapevo cosa fare.
D’improvviso mi sentii afferrare un braccio e, non riuscendo a fare alcuna resistenza, mi ritrovai a correre anche io.
Era Ravi, sicuramente sapeva cosa stava accadendo, e si era rigirato per prendermi e portarmi via.
Correvamo in una strada in cui non ero mai stata e d’un tratto lui mi spinse verso una jeep, parcheggiata sul ciglio, gridando: – Sali! –
Ci saltò dentro, ed io, senza pensare, feci lo stesso.

    • *

Viaggiammo per circa un’ora, o forse più, il tempo in quei luoghi sembrava diverso, sembrava scorrere in altre direzioni. Non era lo stesso della città, ci stavamo inoltrando in un altro mondo e lì, il tempo, veniva come rapito da quei posti con la vegetazione rigogliosa, da quei suoni fatti di legno e di uccelli, di acque scroscianti e di altri animali di rara bellezza.
Tutto ciò faceva sembrare il tempo unico e tipico dell’India.
Ma non riuscii ad apprezzare ciò che vedevo, i miei occhi stavano ancora guardando impauriti le strade di Bhopal, davanti a me c’era confusione, e dentro mi sentivo sconvolta, non sapevo cosa fosse successo. Era tutto tranquillo, la gente passeggiava, c’era un vociare piacevole, c’erano tintinnii e risate, gli schiamazzi rendevano quel posto sospeso in un’altra realtà, della felicità e fantasia e subito dopo, in pochi istanti, persone che scappavano come impazzite, frastuono, urla, mi sentivo come se fossi stata catapultata in un altro mondo, di cui bisognava avere solo paura e del quale non conoscevo le regole.
Parlai senza staccare gli occhi dalla strada sterrata che stavamo percorrendo e da quelle immagini che non volevano abbandonarmi, il mio tono era lievemente angosciato: – Cosa è successo prima? –
Lui esitò prima di rispondere, so che mi guardò, forse per assicurarsi che non fossi troppo turbata, che non fossi nel panico, poi si rigirò verso la strada e rispose con calma, la freddezza che aveva usato durante la passeggiata era svanita: – È una lotta tra bande di quartiere. Di tanto in tanto l’uno attacca l’altro per impossessarsi di quel poco che hanno. Di solito accade più nelle periferie, ma comunque quando succede non c’è riguardo per nessuno, quello che avviene in quei frangenti… –
Lo interruppi alzando una mano, non volevo che continuasse, il terrore su quei volti valeva più di mille parole ed io non volevo ferire ancora di più la mia anima.
Non avevo idea di dove mi stesse portando, vedevo solo la foresta sfilarmi di fianco, ma non avevo voglia di chiedere, perché in quel momento ogni posto per me andava bene, purché non fosse il centro di Bhopal.
Ricordo poco di quel viaggio, la mia mente era troppo scossa, ma fu inevitabile rendermi conto che avevamo abbandonato totalmente la città e tutto quello che la riguardava, più la vettura camminava e più il paesaggio diventava incontaminato, quasi surreale… come se si potesse viaggiare verso un’altra dimensione del pianeta Terra.
In lontananza vidi filtrare tra l’erba alta un luccichio di acque.
– È un lago? – Chiesi indicando la direzione degli zampilli di luce.
Ravi non si girò per vedere dove indicavo ma rispose: – È un fiume… il fiume Pench. –
Quando la jeep si fermò era il tramonto, lo vedevo sfumare di pallido rosso il cielo alla mia destra, mentre lo osservavo Ravi scese dalla vettura e si diresse verso un gruppetto di abitazioni fatte di legno. Tutt’intorno era solo Natura, c’erano alberi alti con fronde cariche di foglie verdi e brillanti, colline che sembravano immergersi all’orizzonte portando con sé fiori e terra che liberavano un profumo inebriante, sotto a tutto questo riposava un vasto tappeto di soffice erba, e sopra, dominava un cielo limpido, velato di rosa. Era incantevole… l’unico essere vivente davanti i miei occhi era Ravi che stava entrando in una casa, ed io, non volendo rimanere sola, lo seguii.
Parlò con una donna in una lingua che io non conoscevo, probabilmente l’hindi, poi prese due ciotole di legno, le più semplici che avessi mai visto, e mi fece segno di seguirlo. Lo feci come fossi un automa perché mi trovavo sperduta, incapace di pensare, di prendere decisioni, e lui era l’unico che potesse prenderle per me.
Questo perché non avevo idea di dove mi trovassi, parlavano una lingua che non capivo, la mia unica compagnia era un ragazzo sconosciuto ed ero appena uscita da un’esperienza traumatizzante che non avevo capito e che soprattutto non mi sarei mai aspettata di vedere.
Ma a tutto questo cercai di non pensare, scacciai con forza quei pensieri e lo seguii in silenzio.
Ci arrampicammo su un rialzo di terra che copriva quelle casette come un’alta montagna protegge i pascoli dai venti, e ci sedemmo ai piedi dell’unico albero presente, si trovava quasi al centro della montagnetta. Era alto e anche se il suo tronco non era enorme lo trovammo ugualmente comodo per appoggiare le nostre schiene.
Mi sistemai con la ciotola in mano e un profumo pulito, fresco, incisivo, mi invase, mi rilassò quasi del tutto; allora appoggiai anche la testa al legno, chiusi gli occhi e ascoltai il lento frusciare delle fronde sopra di me, ascoltai il vento che dolce rinfrescava il mio corpo e quando li riaprii lo spettacolo che avevo davanti mi lasciò senza fiato: il tramonto!
Non lo avevo mai visto così, sembrava estendersi all’infinito, colorava di rosa le nuvole spinte all’orizzonte quasi volessero seguire il sole, che lasciava filtrare tra loro ancora qualche timido raggio.
Dalle case lì sotto riuscivo a vedere solo una tiepida luce, ma da lassù… era proprio davanti a me, il mio sguardo poteva superare tutte le teste calve delle colline e seguire quella luce. Ma non fu il suo aspetto ad affascinarmi davvero, più che altro fu l’effetto che ebbe su di me dopo una giornata come quella… come fosse il sorriso di una persona amata, per un attimo, fece svanire ogni pensiero, ogni preoccupazione.
Ravi si girò verso di me: – Staremo qui per un po’, finché le acque non si saranno calmate. Queste cose non si sa mai come vanno a finire e i postumi non sono un bello spettacolo – si guardò attorno – questo è un posto sicuro. –
Gli sorrisi appena, per ringraziarlo per avermi voluto risparmiare altre brutte esperienze e perché cercava di proteggermi da quello che avevo visto, ma poi mi voltai e cenammo in silenzio.
Lui mangiava con le mani quella specie di riso, io ero troppo stanca per fare domande e, anche se con riluttanza, appoggiai le labbra alla ciotola e provai a berlo. Lo lasciai quasi tutto, il mio stomaco era chiuso da un forte nodo che non voleva far passare nulla.
Il panorama era un susseguirsi di colline verdeggianti, imponenti che, ora, si nascondevano nell’oscurità imminente. Non erano silenziose, dalle mie orecchie si stavano allontanando sempre di più i rumori della città, delle auto, le chiacchiere delle persone, per far posto a quelli della sera, che in quei luoghi venivano ampliati dai richiami degli uccelli; dovevano essercene di svariate razze perché i loro versi portavano ognuno sinfonie diverse. Dalle urla delle scimmie, di tanto in tanto vedevo muoversi qualche fronda degli alberi e immaginavo la scimmia in mille piroette. Forse, anche se lontano, sentivo lo scrosciare delle acque del fiume Pench, o probabilmente era solo la mia immaginazione che unita alla stanchezza stava prendendo il sopravvento; ma quello stato di inconscio fu rotto da qualcosa che era simile a un tuono che destò in modo brusco la mia mente, ed ebbi di nuovo paura.
Mi voltai a guardare Ravi accanto a me che aveva finito di mangiare e stava fissando le colline.
– Cosa è stato? –
– Una tigre. – fu la risposta semplice e diretta.
Sgranai gli occhi, quella giornata ancora non era finita?
– U… una tigre? –
Mi guardò senza rispondere.
– E me lo dici così che era una tigre? Come se fosse un… un gatto? –
– Siamo nella riserva della Tigre del Pench… mi sembra ovvio che ci siano tigri. –
Guardando questo ricordo con gli occhi del futuro penso che si divertì a vedere la mia faccia sconvolta e incredula, anche se in quel momento non ci feci proprio caso. Non so per quanto mi fissò con un sorriso nascosto, ma poi volse di nuovo lo sguardo alle colline.
Quella pace mi tranquillizzava, ma qualcosa dentro di me voleva che il mio animo si agitasse, perché Carlo era sicuramente in pensiero e lo ero anche io visto che mi trovavo in un luogo lontano, con uno sconosciuto e circondata da tigri.
– Vorrei essere in albergo. – fu come un pensiero detto ad alta voce e Ravi si girò in tempo per vedermi stringere le braccia attorno alle ginocchia.
Per la prima volta accennò un sorriso: – Non eri pronta a tutto pur di vedere qualcosa che faceva perdere il fiato? –
– Beh… io non ho detto a tutto. E poi non so niente di te, non so dove sono, non ho il cellulare, Carlo sarà preoccupato e poi ho paura delle tigri. –
Si alzò: – Domani farò portare un tuo messaggio in albergo, così starai più tranquilla. Per quanto riguarda le tigri devi sapere che questa riserva copre circa ventiseimila ettari di terreno, ma gli esemplari di tigre non saranno più di cinquanta, non credo avremo la fortuna di incontrarne una. – C’era sarcasmo nella sua voce.
– Fortuna? E sarebbe una fortuna? –
Mi sorrise di nuovo, ma forse più che a me rideva alla mia ingenuità.
– Ne parliamo domani, vieni. –
Con le ciotole in una mano porse a me l’altra per farmi alzare. Ci incamminammo verso le casette, entrammo in una di queste e lui posò le ciotole su un ripiano. Poi mi portò in una stanza vicina dove c’era un materasso in terra, mi diede una coperta e mi fece cenno di sdraiarmi, poi, abbassandosi verso di me, mormorò: – Scrivi un biglietto per il tuo fidanzato, glielo farò recapitare domani mattina presto. –
Presi il foglio con la matita che mi porgeva e mi sussurrò ancora: – Dormi tranquilla. – poi se ne andò lasciandomi sola.
La casa era spoglia, fredda, a prima vista sembrava che oltre alle pareti e a delle tende non ci fosse altro, ma una cosa mi piaceva, una volta spente le candele o altro che facesse luce, il bagliore della luna entrava e silenzioso si spargeva sulle pareti, sul pavimento, sugli oggetti, su di me… riusciva ad insinuarsi in ogni angolo senza fatica. Niente avrebbe impedito la sua passeggiata perché la faceva quando tutti dormivano.

[continua]


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