Opere di

 Epittèto


INCIPIT

1- Se niun ti noma

Se niun ti noma,
nulla memoria
sarà di te.

Metrico idioma
sorte e storia
dirà di me.


L’INFANZIA


2- Palèo

In salto alla sferzata
la trottola s’avvita,
di forza caricata
vibrando va impettita.

Poi stanca si fa lenta,
in tondo ahi barcolla,

tremante il giro stenta,
di pancia a terra crolla.

O quanta nostalgia
d’un gioco d’età mia,
che par sparito sia!


3- Mezzodì

Nel fervor del gioco,
il quadrante spunta
oramai la mezza.

All’intorno olezza,
in sinuosa punta,
la gratella al fuoco.

Vinto il gioco dal camino,
per la fame un languorino,
tutti in panca a cercar posto
per amore dell’arrosto.


4- Suicidio

“Stasera ‘l dirò al genitore!“
urlava gongolando la tiranna,
gustando il piacer del suo clamore.
Il poverel si vide l’ombre agli occhi,
al suo destin crudel non v’eran sbocchi.

Decisa allor la fin d’ogni timore,
in alta dose il sonno si tracanna,
cedendo tosto al feral sopore.
Si ridestò in letto d’ospedale:
la sorte avea respinto il funerale.


5- La lippa

“Ciàncol!“, “Venga!“ . Volava nella corte
il fuso, còlto da provetta mano,
tra giovanili accordi.
Noi pivellin ai bordi
il tifo si faceva in gran baccano,
attenti a coglier punti e mosse storte.


6- Magic moment

O Salgàri, o Salgàri,
gli occhi persi in ciel d’ardesia,
sogno giungle di Malesia
e i pirati di quei mari.

Poi d’un tratto, in mente assorto,
volo in spirto a quelle plaghe.
Son frazion di tempo vaghe:
tal vision non ho più scorto.


7- La dodicenne

Lucia, Lucia, Lucia,
curiosità morbosa
cercavi in me settenne.
E fu per colpa mia,
che in casa dir mi venne
“con me fa la morosa”,
se tu di bòtte piena
corcasti senza cena…


8- Lorenzo

Lorenzo all’osteria
la paga si giocava,
in gran spavalderia.

A sera non tornava,
fu questa diceria,
perché l’ostessa amava.

Se mezzo era di vino
picchiava i suoi, persino.


9- Indegnità paterna

Dov’eri, padre, quando lei picchiava
il pargolo indifeso, in angol stretto,
violenta di furor sino alla bava,
al  pianto sorda ed al tremor  del petto?

A sera mescolava la scodella
e pane e latte a lagrimose perle,
ma tu avevi gli occhi sol per quella
e forse ben sapevi delle sberle.

Non fosti padre, mai giocasti il ruolo:
perché allor facesti tanta scelta?
A generar soltanto pena e duolo?

Così ponesti man ad un tormento,
cui ricercossi invan cesura svelta,
che reca a fine vita ancor lamento.


10- 5^ Elementare

Deciso ch’era giunto il mio momento,
a scola del maestro fui mandato,
com’usa borghesia, da privato.
Era costui inver assai contento

perché, in classe pubblica impegnato,
potea con nuovi soldi empir la tasca.
Ma è qui, come dir, che l’asin casca:
in vece sua metteva l’affidato

in man della consorte gran manesca.
La birba pretendeva ch’io studiassi
a suon di scapaccioni e lor ripassi;
ma un dì pensai di far cessar la tresca

e più non mi recai a quel supplizio.
Per giorni in un androne rifugiai:
men vennero per questo forti guai.
Scoperto dal passar d’un certo tizio,

a casa fui riempito d’altre botte.
E cadde ancor più fitta la mia notte.


11- L’aguzzina

La mano tua vigliacca
alzavi sul bambino:
con odio, dal mattino
fin quando luce fiacca.

Fu sterile quel grembo,
il corpo tracagnotto,
assidua nel rimbrotto,
di gragnuole un nembo.

Piangeva l’infelice
gridava a suo soccorso,
ancor v’è chi lo dice.

Rideva a muso duro,
menando a dritta, a dorso,
cozzandolo sul muro.


12- Malafemmina

O femina perversa, malaffetto
natura mescolò nelle tue vene
dal dì natale, come pur l’aspetto
fu opra monca di maligno gene.

Dell’odio figlia, masticavi fiele,
ottusa mente di sapere vòta,
coi forti furba eri tutto miele,
coi picciol sol virago trista e nota.

Straniera, al focolar fosti padrona
dell’uomo imbelle ai tuoi piè prostrato
in sorta di devoto a sacra icona.

Così domasti pur l’invisa prole
con un sottile oprare scellerato,
che tolse al genitor senno e parole.


13- L’uovo

“Bastardo, su trangugia l’ovo fresco,
che altro non vi è da merendare!“.
“Nol  posso, mi fa l’ovo vomitare” ,
piagnucolava il figlio di Francesco.

Pam!  ratto al capo ‘l colse un gran ceffone
che tutto alla sua destra ‘l  fè piegare.
“Quest’ovo è marcio, non si può mangiare…”
e il ragazzin rifugia sul balcone.

Poi da pedate e pugni rintronato,
il poverel a forza l’ebbe a bere:
godea la serva, al ciel il braccio alzato.

E da quel dì del greve suo castigo,
e chiare e tuorli crudi al sol vedere
gli torcon le budella, in sudor frigo.


14- Calzoncini corti

Il verno duro ed aspro
stendea la bianca coltre
su orti, campi e oltre,
in un calar silente.

I figli del contado
in gruppi di monelli
tiravano tondelli
di neve sulla gente.

Igloo a man scoperte,
pupazzi, su slittini,
bei giochi di bambini
coi calzoncini corti.

La sera alfin gli addii:
scaldati dal camino,
geloni color vino,
poi a letto, stanchi morti.


15- Cinema – teatro Rubini

Al teatrin del borgo,
nel film di cappa e spada,
v’è pur un Torquemada
senz’ombra di pietà.

Fa ognun la fin del sorgo,
levato alla tortura:
chi guarda più non dura
a tale crudeltà.

Moccioso, la mia vista
sottraggo a quell’orrore
né celo il mio tremore
accanto a chi mi sta.

Fidando nella svista
e scivolato a terra,
vescica più non serra
il liquido che ha.


16- Che padre

Di calde terre figlio e di lor genti,
sciamano d’Esculapio e pur seguace
di formule e scongiure al ciel frequenti,
nolente ai tempi suoi vestì l’orbace.

Di morte in punto, a scambio d’altro spiro,
iurò un nome al nato in cor spregiato;
inver di verbi il suo non fu un raggiro,
ché, tratto in salvo, il patto fu onorato.

Fu solo un voto, non un sentimento:
mai s’ebbe un cenno di paterna guida
che fermo lume desse a quella vita.

L’nfante visse sempre in gran tormento,
respinto e domo da sevizie e grida,
tenèbra nella mente ognor scolpita.


17- La madre negata

Dei tempi verdi mal facesti uso
in ebra voglia di piegare il mondo,
agli occhi tuoi di splendor diffuso,
discente acerba d’un amar giocondo.

Posando qua e là su virgulti in fiore
volasti allegra nell’andar degli anni,
cadendo presto in genital errore
che brusco l’alma rivestì d’affanni.

Sbocciato il frutto nel solingo seno
negasti al pianto la materna voce,
il nom tacendo con rifiuto pieno.

In procelloso mar da te sospinto,
il viver fu per me terrena croce,
da duro remigar piegato e vinto.


18- Terrore

Si sparse a terra il riso in ampio getto
scurendo al fantolin la vista e mente;
un’altra punizion quell’innocente
avria nella segreta ancor ristretto.

Nel regger schiavo le mansion di casa,
il miserel in urto andò per caso
e i grani tutti ruppero dal vaso:
il volto dal terror si fé di brasa.

A cogliere carponi egli si mise
ad uno ad uno i chicchi, a saltellìo,
ma la brutal donnaccia nol permise:

“Tu giochi, bestia. Tiè questo bastone!“,
ed a scontar di tale colpa il fio
più volte  ‘l  misurò sul suo groppone.


19- Mattazione

Affastellar di legna,
sul foco gran pignatte;
fermento intorno regna,
sen van le donne ratte

in casa e giù nell’aia.

E’ giunto il sior norcino
armato fino ai denti.
Accolto in suo cammino
da rispettosi accenti,

s’infila in porcilaia.

Lo strido belluino,
poi fiotti dalle vene,
sul tavolo il suino
raschiato vien per bene:

buon Dio, oh quanta grazia!

S’allegra il contadino
pel pane assicurato.
Pur là ristà un bambino
che muto e raggelato

a tale vista strazia.


20- Storie

Giungea il cozzar dell’armi in onda spenta
all’alme meste,in casolar dispersi,
intorno a sobri deschi di polenta,

il guardo immoto fuor dei vetri tersi
a svelar tracce di passar foresto
lungo i broli nella neve immersi.

Di prima sera, al ficcar molesto
del verno, in stalla fan riparo,
ai lor vicini aprendo in mutuo gesto.

La paglia fresca, in lato delle vacche
son le comari e i bimbi, a lor di fronte
le giovin voci, dal giocare stracche.

Ed anche i vecchi, sovra tutto fonte
di storie di briganti e di fantasmi,
terror d’ogni mortal a valle e a monte.

A notte fonda, dibatteva in spasmi
il frugolo sospinto a forza a letto:
seguito da risate e da sarcasmi,

ogn’ombra gli parea di bieco aspetto.


21- Le catene del camino

Trascinando le catene
per le strade polverose
si facevan luccicar.
Giochi ingenui, il solo bene
di bambini senza cose
pel continuo guerreggiar.


22- La servente

Invaghito io settenne
m’ero d’una dodicenne
rossa, sana, campagnola.
Poi scomparve, da servente
in famiglia brianzola.
Lo sconforto fu cocente.

Ma passato neanche un mese
altro amor in cor mi prese.


23- Il cerchione

Col cerchion di bicicletta
giù correvo a rompicollo.
Rotolando vieppiù in fretta,
ahi ! ne persi ogni controllo
per un piè che misi in fallo.
Tra le zampe d’un cavallo
che passava col carretto
a imbrogliarsi andò purtroppo.
Se le ruppe il poveretto:
io fuggii al gran galoppo…


24- La iena

Alle terme a passar l’acque
in settembre noi s’andava,
ma alla iena mai non piacque
il minor che s’aggirava:
fin da quando quegli nacque
le sue mire disturbava.

Eravamo solo in tre,
padre, serva, oltre a me.

In presenza del padrone
era tutta latte e miele,
non un torto, sol ragione,
ma di dentro l’odio e fiele:
“Farai i conti alla magione…”,
gorgogliava l’infedele.

Eravamo solo in tre,
io d’entrambi alla mercè.

Giunse un giorno, molto scuro,
del ritorno, e alla stazione
lei in disparte, a muso duro:
“ Ho serbato una razione
di nerbate, te lo giuro!”.
Lì mi colse un gran magone.

Eravamo solo in tre,
io e quei due senza fè.

Dentro casa, è storia vera,
poi mantenne le promesse.
Non cedetti alla megera,
fino a quando più non resse.
Mentre lui, e mane e sera,
facea finta non sapesse.

Eravamo solo in tre,
io tra i due,  Dio sa perché.


25- Ribellione

Vigorito s’era il soma,
già col pelo, un po’ di baffi,
alto un metro e poi settanta
e la voce grossa e bassa.

Sta la serva in sen mai doma
di menare e pugni e schiaffi,
d’esser forte ancor si vanta
e vuol fare la gradassa.

Ma la vittima l’atterra,
per la vita ben l’afferra,
poi a mò d’attorta lasca
fè a gettarla nella vasca
in giardino d’acqua piena,
a ripian d’ogni sua pena.

Da quel dì la vil fantesca
cessò d’essere manesca.
Si diè allora con furbizia
a tramare con malizia.


26- Epilogo

Qui si chiude l’avventura
dei prim’anni d’un pischello,
prigioniero tra le mura
in sperduto paesello.
Nutricato alla bruttura,
sottoposto a vil flagello
d’una serva ormai padrona,
bestial forma, non persona.


LA GUERRA


27- Il reduce

“E’ tornato! E’ tornato!“
buccinava l’isolato.

Gran fermento,
gran momento.

Era vecchio, era stanco,
nel contar teneva banco.

Che stupore,
che valore!

Strani mondi, la prigione,
de la Patria gran passione.

Lacrimoni,
sospironi.

Al fiorir delle ginestre
più nol scorsi alle finestre.

Là, sotterra,
gli occhi serra.


28- La guerra è finita

Fatta pace,
tornavan gli sfollati
ai natii casati
in lieto conversar.

Tra lor tace
la madre ch’ebbe in cura
un nato d’altre mura
esposto sull’altar.

“Mamma!  Mamma!...”, 
correva dietro il barroccio
in lacrime il bamboccio,
le mani tese invan.

Novo dramma
s’apriva a quella vita:
violenza inaudita
di mercenaria man.


29- Allarme aereo

Al Forno era sfollato:
tre case a mezzo il monte,
tra grotte in roccia piena.
Al suon della sirena,
d’un balzo oltre il ponte
fuggiva spaventato.


30- La fame

Per voler di Maramaldo
in oltralpe, dolce suolo,
Ciccio armato, bocca a orciolo,
era ito a guerreggiar.

Ma nutrire la famiglia
con la tessera del pane
più non puotesi stamane,
va la moglie a brontolar.

Ecco allor la gran pensata:
poniam chicchi sul poggiolo
e i colombi scesi in volo
prigionieri li facciam.

Bam! rinchiuse le finestre,
tutti addosso alle bestiole;
però zitti, il far parole
fa i vicini curiosar.

Quant’è triste la bisogna:
or uccidere i piccioni
par un fatto da birboni.
V’era guerra, tanta fam!


31- Madonna della Rocca

A nord la via dell’Alpi,
a valle la ferriera,
paese tra riviera,
cime, strette e pian.

I caccia a vol radente,
in quota od in picchiata,
costretti alla virata,
miravan sempre invan.

Conchiusa alfin la guerra,
il popol in salvo tratto
al protettor ritratto
eresse un santuar.

Madonna della Rocca
il loco fu nomato,
dal giorno a Lei votato
gran feste s’attuar.


32- La guerra

In ciel gli arditi assalti,
laggiù i cruenti agguati,
gli uni e gli altri armati
per lor valori alti.

Così i prim’anni dusse
l’infante in petto scosso,
anch’egli al male mosso
da disaffetto e busse.

In crudeltà cresceva,
odiava la natura,
sfogando la paura.

Niuno mai gli aveva
in core distillato
amor pel gran creato.


33- Radio Londra

“Bum, bum, bum… schss… bum, bum, bum“
gracchiava fluttuando,
tra echi sussultando,
l’albionico segnal.

I grandi sospettosi
ristavan orecchiando:
dicea Ruggero Orlando
che tutto andava mal.

E intorno noi marmocchi
in gioco assai noiosi,
ma sempre più curiosi
di tanto riserbar.

“Su fuori, andate fuori…!“:
il vecchio ci minaccia,
nell’aia tutti scaccia,
poi torna ad ascoltar.


34- Mitragliamento aereo

A lato dello sterro,
sul ciglio d’una roggia
coglievo sassi e fior.
Le grida non afferro:
di bossoli una pioggia
mi riempie di stupor.
          


35- Fortezze volanti

Squadriglia su squadriglia
s’inseguon le fortezze,
col carico di morte.
“Gli  rendon la pariglia,
li colman di carezze!“,
ghignavan nella corte.


36- Rifugio antiaereo

La lugubre sirena
spandeva lamentosa
l’avviso senza posa,
ferendo la città.

Già uscendo sulle scale,
la gente nel rifugio
vociando, senza indugio,
sces’era per metà.

E giù, tra i piagnistei
di tutti noi mocciosi,
soltanto i più animosi
sprezzavano viltà.

Ma poi violenti scoppi
squassavan e petti e mura
e in tutti di paura
un guardo: “ O Dio, pietà! “.


37- Pippo

“E’ Pippo, Pippo arriva…!“
gridavano l’un l’altro,
scurendo ogni furtiva
lucerna a quello scaltro.

Poi il ronzo d’un motore
man mano rafforzava.
Ognun perdea il colore,
ognun in cor pregava.

Sol io quel puntolino
vagante e intermittente
assorto rimiravo.

Vist’era d’un bambino
sognante ed innocente:
quant’era bello e bravo!


38- Duello aereo

D’un tratto il ciel sereno
di caccia appar trapunto,
in rapido duello.
Lo scontro mi par bello
e quando a fine è giunto
di bossoli fo il pieno.


39- Bengala di guerra

Il ciel fremeva al rombo
dei messagger di morte:
a formazioni scorte
un replicar di piombo.

Laggiù, all’orizzonte,
fiammeggiano gli incendi,
e forti scoppi intendi
venire da quel fronte.

In ciel, bengala ardenti
quaggiù spediti a frotte,
in lor calar silenti.

E’ il piccin sorpreso:
son bombe un po’ speciali,
bei fuochi artificiali
che tutto fanno acceso.


40- Il bicchiere

“Ce l’han coi partigiani!
Ahinoi, un rastrellamento…“,
il capo tra le mani
scotevano in lamento.

Madri, figlie e spose,
Erinni per amore,
d’un tratto ardimentose
si spargono di fuore.

D’incanto pel paese
un uom più non si trova,
chè ognun i monti ascese
in covi a tutta prova.

Dal fondovalle intanto
su giugne qualche sparo,
al qual in controcanto
risponde un fuoco raro.

Quei puntolini sparsi
son le camicie nere.
E’ stato un mal fidarsi:
fu colpa d’un bicchiere.


41- Regalo paterno

In disparte là sul prato
mi porgesti un uovo crudo,
alto dono in dì di guerra.
Ma di berlo fui schifato
e al ricordo ancor trasudo:
scossi il capo, guardo a terra.


42- Domenica di guerra

Il verno aspro e bianco
svegliava il dì di festa
con luce silenziosa.
Poi nella corte, a spire,
spandeasi un profumo
di ramerino al foco.


43- Giochi in tempo di guerra

Su un assal di legno,
con tanto di volante
e cuscinetti a sfera,
s’andava rumorosi
pei viali di città.

Con puerile ingegno,
ogn’altro ben mancante,
noi si tirava a sera
nei giorni estivi afosi,
spellati per metà.

Poi altri bricconcelli,
in cor ardimentosi,
lattine di carburo
in pubblici giardini
facevano saltar.

Sulle rotaie tondelli
ponevo anch’io copiosi,
spiando al chiaroscuro
se il tram pe’ ciottolini
andasse a deragliar.

La guerra c’era già:

non s’era che a metà.



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