Terra Madre

di

Enea Trivardi


Enea Trivardi - Terra Madre
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 204 - Euro 13,50
ISBN 88-8356-959-8

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Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è finalista nel concorso letterario «J. Prévert» 2005


Presentazione

Cosa spinge Bruno Foschi ad abbandonare gli amici per rimanere nell’isola alla fine della vacanza? Forse si tratta di un semplice colpo di testa, ma Olbia direbbe che anche il più inaspettato colpo di testa fa parte del destino di un uomo…


Terra Madre


1

Il tempo non era dei migliori, compatibilmente con la fine di agosto. L’imbarco era previsto per le undici, ma a mezzogiorno meno un quarto nel porto c’era solo un mercantile, e non si vedevano navi all’orizzonte in arrivo.
«Che facciamo, chiediamo? Bru’, vai tu?»
«E a chi chiedo? A quello laggiù?»
«Eh sì, prova con lui. Vedi che sta dicendo qualcosa pure a quegli altri? Sarà lui.»
«Fili’, te comunque per muoverti deve passare il tassì. Ti dovessi stancare troppo.»
«Bru’ ma ti sei alzato male? In caso rimettiti a dormire, o non so che. Mi fa male il piede, ti sei scordato?»
«Ah è vero. Stavolta hai ragione. Però che sei morto di sonno è un dato di fatto. Su.»
«Ma che cosa ti ridi. Vai a chiedere, vai.»
Filippo e Sandro si sono guardati come per confermare l’atteggiamento scontroso di Bruno, che intanto si era staccato da loro per raggiungere la presunta fonte di informazioni. Il vento non era sostenibile con metodi classici, soffiava violentemente ed era intriso di acqua marina; così molta gente che aspettava il traghetto si proteggeva a ridosso di una struttura prefabbricata, distante una trentina di metri dall’inizio del molo. Prima di avviarsi Bruno aveva tirato fuori dal borsone un impermeabile aggiuntivo, stava camminando alla maniera di un astronauta. Si è avvicinato all’uomo puntato prima, tre turisti stranieri alti e biondi cercavano di distillare il significato delle sue informazioni.
«Quindi non posiamo partire occi?»
«Con questa nave veloce no. Niente nave veloce, ma dopo, after, altra nave, per…»
«Dopo quando? Tanta ora?»
«Dis ivining, sera tardi, notte! Ma non qui, non a Golfo Aranci ma a Olbia. Olbia, capito? E poi è per Civitavecchia, non per Fiumicino!»
Bruno si è intromesso.
«Scusi ma quindi dobbiamo andare a Olbia?»
«Guardi, con questo maestrale non si può attraccare a Golfo Aranci. La nave veloce nemmeno è partita, a Fiumicino sta facendo il finimondo. Quella che arriva stasera a Olbia viene da Civitavecchia e starà partendo a minuti, forse è già in viaggio.»
«Grazie. Quindi vanno più lente, oggi?»
«Sì. Gliel’ho detto, da Fiumicino non poteva partire per il mare agitato! Ora s‘è un po’ calmato, sembra, ma hanno deciso di usare Civitavecchia per sicurezza.»
«Sennò c‘è sempre quella notturna che ci mette il doppio, no?»
«Quella resta, sì.»
«Grazie.»
Si è ricongiunto ai due compagni. Ha fatto un riassunto veloce. Intanto lo spruzzo di un’onda fracassatasi sulla banchina ha asperso il gruppetto.
Bruno restava con gli occhi chiusi. Quando li ha aperti sembrava diverso, comunicava un senso di sfida.
«Ragazzi mi sa che io rimango qui. Non torno.»
Sandro ha capito subito che non era uno scherzo.
«Ma che dici, Bru’?»
«Ma che dici, Bru’?» ha spappagallato Filippo, con disinteresse.
«Dico che voi fate quello che dovete fare. Partite stasera, tornate a casa, ricominciate. Io per oggi sto qui. E domani vedrò. Che male faccio, scusate.»
«Questo è scemo, Sa’.»
«Non è scemo, lasciamolo fare. Che male fa, no?»
«Io ti ripeto che questo è scemo.»
Bruno è scattato, puntando un dito contro Filippo.
«E tu non sei solo scemo. Sei anche arrogante perché ti opponi alla mia libertà. Sei grosso e forte ma non sei mai riuscito a insegnarmi niente. Peccato.»
«Dai, Bru’, perché gli dici queste cose? Poi nemmeno ci credi, tanto.»
Filippo rideva, guardando Bruno.
«No, no, fallo parlare, fagli vomitare tutto, al bambinetto.»
Uno sbuffo di vento ha sopperito al silenzio successivo. Le loro facce si sono rattrappite per gli schiaffi d’aria fredda.
«Vabbé, ora sto esagerando. Scusa Fili’ ma se mi provochi io non mi tengo e dico tutto e il contrario di tutto. Tu m’hai detto scemo, e allora…»
«Ma dico per dire, dai! Fai quello che ti pare, fai come ti dice la testa!»
«A me la testa dice di stare un attimo qui a vedere che succede. Il vento è un segno. Mi trattiene. Lo so che voi queste idee sui segni non le avete mai mandate giù. Ma non ve ne faccio una colpa.»
«È un segno… secondo me è solo segno che l’estate ce la siamo giocata!» Filippo ha preso a ridere sguaiatamente, Sandro è intervenuto.
«Dai, ora ricominci? Lascialo stare, ha le sue idee.»
«Le sue manie, giusto. Hai le tue manie, Bru’, diciamolo.»
Bruno stava caricando una parolaccia classica, poi ha guardato in alto verso due gabbiani in volo simmetrico. È tornato a testa orizzontale, più calmo.
«Andate a Olbia. Altrimenti perdete la nave. Ciao Sa’.»
«Ciao che? La nave non la perdiamo, c‘è tutto il tempo. Almeno vieni con noi a vedere Olbia. Magari è carina.»
«Avrò modo di vederla. Quando sarà. Forse domani. Dai, ciao?»
«Sandro, ci sta mandando via, non hai capito? Sei di legno, pure tu.»
«Ma qui sono tutti deficienti tranne te! Lasciami essere di legno. Bruno, che devo dire a tuo padre se domani mi chiama? Non ti…»
«Stai tranquillo che ci parlo io tra un attimo. Non ti telefonerà. Ma se proprio succede digli la verità, no? Che roba è, mica sto in galera o sono morto. E se anche fosse…»
«Sì, ora se anche fosse! Fili’, andiamo?»
«Sei tu che volevi restare, io mi sarei avviato da quel dì. Ciao Bru’, in bocca al lupo, e salutami i sardi. Sono così simpatici.»
«Perché, che cosa t’hanno fatto? E poi in bocca al lupo perché?»
«Vabbè, allora sto zitto e niente.»
«Ciao, Bru’, stammi bene.»
«Sandro ciao.»

La macchina si è allontanata lottando contro il maestrale e la pendenza del cavalcavia; Bruno stava rileggendo la scena con occhi diversi, vedeva una vettura amareggiata e delusa per aver perduto un componente essenziale, uno dei tre pesi che l’avevano massaggiata per due settimane di vacanza apparentemente serena. Si sentiva stupido a mettere l’anima dentro una costruzione meccanica, ma proseguiva.
...Se le macchine ragionassero, se potessero parlare. Quante cretinate sto partorendo. Sto estendendo la sofferenza del mondo anche agli oggetti. Non mi basta percepire gli abissi di dramma negli uomini e in particolare in me. Ora riesco a stare male persino per le macchine degli amici. Come lo uso male, il cervello. Mi hanno messo quest’organo molle come fosse il ponte superiore di un transatlantico. Dal ponte si vede tutto si segue tutto si decide tutto, mentre la nave corre sicura per un mare intoccabile e pericoloso. Hanno costruito un transatlantico potente e ci hanno installato un ponte bellissimo, per tenere la rotta e godersi il panorama. Ma non hanno previsto che mare e cielo da soli possono indurre a perdersi? Non hanno considerato che un radar senza ostacoli da avvistare diventa inutile di ora in ora, di giorno in giorno? Mi sono perso, non ho più punti di riferimento. Ma no, l’hanno previsto, hanno previsto tutto. Anche quest’angoscia che mi spezza i pensieri mentre la nave va…

Non si erano mai fermati a Golfo Aranci, durante quella vacanza. Avevano cercato di girare il più possibile, senza sostare nei luoghi cosiddetti non strategici. Le parole d’ordine erano state conoscere, seguire, conquistare, e Golfo Aranci come Olbia fungevano semplicemente da attracchi veloci per connettersi alla Sardegna, così da dirigersi subito verso le terre gremite di turismo e di teoriche avventure mondane, impegnandosi quotidianamente a tutto raggio per tornare infine alla base, a Roma. Conoscere, seguire e conquistare. Filippo era entusiasta di questo motto, lo aveva decantato col suo tipico vocione in diverse occasioni, prima di partire per il campeggio. Sandro non ne era così convinto ma aveva confidato nelle capacità comunicative dell’amico. Purtroppo i risultati non si erano visti affatto, e se ne tornavano a casa abbastanza sconsolati e confusi. Bruno no, nessun motto lo sfiorava. Era confuso già da prima. Lui non era venuto qui per trovare tesori, piuttosto per gettarne via uno, un gioiello risultato improvvisamente falso.
Il vento adesso era sceso a un livello accettabile, il viavai dei turisti in retromarcia per Olbia si era annullato; erano stati tutti informati e ormai dovevano trovarsi laggiù, nel grande porto dell’Isola Bianca, pronti per la traversata notturna.
Bruno si è diretto verso la stazione ferroviaria, malgrado avesse già deciso di fermarsi a Golfo Aranci almeno fino all’indomani. Voleva vedere un binario, un sentiero preciso, una strada sicura anche senza il treno presente. In cinque minuti ha raggiunto l’edificio. La semplicità delle strutture lo ha appagato. Anelava a quel silenzio, aveva bisogno esattamente di quella scenografia e di quelle tinte per curare l’infiammazione resa più acuta dalla vacanza trascorsa. Troppo viaggiare, troppo parlare, ora invece pace.
Fissava i due binari immacolati, testimoni di interazioni lontane. Ha cominciato a percorrerli con un vagone immaginario, fino al loro svanire; poi è tornato indietro, ipotizzando una velocità impressionante. Poi ancora su e giù, varie volte. Quell’esperimento virtuale lo consolava, era come sgrassare la mente con uno strofinaccio che correva dal subbuglio presente a un orizzonte pulito, e viceversa, con la stessa straordinaria velocità.
Un telefono pubblico gli ha rammentato di avvisare casa. La casa era il padre, soltanto. Ha composto il numero.
«Pronto?»
«Ciao papà.»
«Brunetto! Sei già a Roma?»
«No. Rimango un altro po’ in Sardegna. Gli altri arriveranno domani mattina.»
«Come, gli altri? Che fate, vi siete separati?»
«Sì.»
«Ma avete litigato?»
«No. Sono io che voglio stare buono e calmo qui.»
«Per caso ce l’hai ancora con me?»
«Per caso. Ora per caso. Quello che hai fatto resta, certo. Ma voglio…»
«Ma vuoi che? Tu non hai capito niente! Te l’ho detto, non è così come pensi, cosa ne sai di come…»
«Papà fammi andare. Io resto un po’ qui e poi vediamo.»
«No, tu sei un disgraziato, soltanto disgraziato! E a Migliorini che gli dico? Te lo sei scordato?»
«No. Mi pare che non sono rimbambito. Migliorini se ne trovi un altro. Il mondo è pieno di ragazzi come me che vorrebbero fare quel lavoro.»
«Che disgraziato. Ma che ti prende, ti butti via, tu sei pazzo. Bruno, per favore, fammi il piacere, vacci a parlare, torna quanto prima e parlaci!»
«Parlaci tu, te l’ho detto. Ora non mi va. Non mi va! Non voglio, non ci voglio pensare.»
«Bruno!»
Non sapeva attaccare il telefono durante la conversazione, ma per la prima volta in vita sua l’ha fatto. Poi ha alzato gli occhi, concentrandosi su una frasetta volgare impressa a penna sul muro. Non era la frase che voleva, sembrava troppo scheletrica e riduttiva per le esigenze complesse del suo momento interiore. Però quella dozzina di parole gli faceva compagnia.
...Lo so, non si imbrattano i muri. Ma ormai questa scritta c‘è. E mi assiste. E quando l’imbianchino la cancellerà a me ormai non servirà più. Me la sono goduta adesso. Anche se è sporca e chi l’ha scritta è un deficiente. Vorrei sapere dov‘è la salvezza. Dov‘è l’equilibrio. Nelle mani semplici e viventi di quel vandalo imbrattatore innamorato non ricambiato o piuttosto nella mia morale disintegratrice? Lui almeno un sentimento chiaro l’aveva. Ha esternato un pensiero coerente…

Sarebbe andato via col treno delle otto e venti, il giorno dopo. Ora cercava un posto per dormire, un letto d’albergo anche costoso, ma necessario come il letto di un ricovero ospedaliero. Un cuscino e quattro pareti, una porta da chiudere. Esigenze banali, ma rispetto al materassino dentro a una tenda erano il massimo, in quel frangente. Durante tutta la permanenza non era riuscito a dissolvere le tensioni fisiche e mentali, adesso avrebbe rinfrancato almeno il corpo.
Una stradina dietro alla stazione conduceva al centro abitato vero e proprio. C’era estremo silenzio. Svoltato l’angolo due bambini davano calci a un pallone sgonfio in mezzo alla via. Si sono fermati a guardarlo, il più piccolo gli ha sorriso.
«Ciao, vuoi giocare con noi?»
«Sì. Dai tira.»
«Come ti chiami? Io Giuseppe.»
«Io cinque lettere. Finisce con la o e c‘è una u.
«Ugo! Come me!» ha fatto l’altro.
«Cinque lettere. Ugo è di tre.»
«Allora Ughino!»
«Dai, giochiamo. Mi chiamo Bruno. Ma c‘è un albergo per dormire, qui vicino?»
È intervenuto Giuseppe.
«Nostra mamma lo sa. Lei sa tutto di qua.»
«Per forza. Io pure so tutto delle parti mie. No?»
«Che parti tue? Sei di Sassari?»
«Ma non senti come parlo? Più lontano.»
«Ugo, che c‘è dopo Sassari? Il mare?»
«Fesso! Io ho capito, è del continente.»
«Bravo, vengo da Roma. Ma perché fesso? È solo inesperto. Per favore mi chiamate vostra madre, così le chiedo se posso…»
«Buongiorno! Cerca qualcuno?»
Doveva essere lei. La parte superiore del corpo robusto ma dinamico emergeva dalla tendina della porta semiaperta, a tre isolati da loro. Aveva capelli neri folti tipici, sguardo gentile e teso al tempo stesso.
«Mamma, vuole l’albergo! Diglielo tu.»
«Mi dica, cosa cerca, un albergo? Per stare quanto?»
«Buongiorno.» Si è avvicinato. «Forse una notte sola. Tutt’al più due. Lei sa se…»
«E si accomodi da noi. Abbiamo una cameretta. Se vuole posso farle anche la colazione. Di Roma, è?»
«Si sente molto?»
«Sa, qui siamo abituati, ormai riconosciamo i turisti subito. Venga, si accomodi. Piacere, Antonia.»
L’arredamento interno era dominato dall’azzurro: la credenza in cucina, le cassapanche del salottino, i sanitari, gli infissi e gli archetti di legno tra una stanza e l’altra. Le porte invece erano di colore grigio chiaro, come le mattonelle del pavimento e la maglia a mezze maniche della donna. Bruno si stupiva di provare conforto.
Antonia gli ha mostrato la camera; era diversa dalle altre, il rosso mattone la percorreva dal soffitto di cotto ai mobili in ciliegio alla moquette folta. Il legno pallido del letto odorava di pulizia, anzi di delicatezza, di correttezza; le lenzuola sature di fiorellini davano il loro contributo. Tutto era gradevole. Bruno avrebbe voluto nascere e crescere lì dentro, si è tuffato in una fantasia fugace abbandonata, ha reagito subito, ha ringraziato, ha pagato e si è steso dopo aver salutato, lasciando i piedi fuori dal letto.
... Eccomi qua. Un bel pianto ci sta davvero bene adesso. Ma perché esigerlo? E poi perché un pianto e non un sorriso rivolto verso la finestra sul mare? Vorrei sapere perché devo oscillare sempre verso il polo negativo. Perché non dico sì alla vita all’esistenza a Golfo Aranci che mi assiste alla mia salute all’intelligenza a quest’aria così densa e unica…

«Riposato? Si fermi a pranzo, se vuole. O deve visitare il posto?»
Antonia ricamava seduta presso la finestra del salone. Bruno era uscito dalla sua stanza dopo un’oretta, visibilmente ritemprato.
«No signora, grazie per l’invito ma vorrei andare a vedere il mare. Però prima magari mi farebbe piacere una doccia.»
«E me lo deve chiedere? Vada, è tutto pronto, i suoi asciugamani li trova nel cassettone in camera. Non si preoccupi, non sia timido. Lei è una persona troppo sensibile, vero? Si capisce subito. Che lavoro fa? O studia?»
«Mi sono laureato da pochi mesi. Ingegneria. Mi piace l’informatica. I computer. Dovrò decidermi su cosa fare.»
«Complimenti, ed è sposato?»
«Quello mi manca. Non è ancora successo di trovare…»
«Ma uno come lei, è prezioso. Vedrà che qui in Sardegna troverà, mi creda!»
Si è irrigidito, scrutava gli occhi forti di Antonia.
...Mia madre non mi aveva mai guardato con un tale entusiasmo. Con una tale convinzione. Questa donna nemmeno mi conosce e mi copre subito di calore. Quel tipo esatto di calore protettivo…
«Troverò? Che sicurezza, signora… comunque grazie per il complimento.»

Camminava. Il sole si allontanava dallo zenit cominciando a indebolire l’impatto sugli oggetti. Il blu screziato del mare mosso magnetizzava i suoi occhi; i passi obbedivano automaticamente a un impulso liberatorio, si dirigevano con linearità verso la scogliera del porto. Dalla parte opposta, oltre la frontiera dell’acqua, la striscia di costa concludeva il disegno del golfo per andare a nascondersi in una nuova insenatura, da cui probabilmente si sarebbe potuta scorgere Olbia. Il vento non demordeva, ma era nulla in confronto a qualche ora prima.
Aveva fame, di colpo. Gli avanzi della sera precedente ancora resistevano, costretti in una bustina che aveva portato con sé. Ha mangiato in piedi, a tratti appoggiandosi a un masso coperto di muschio che lo proteggeva anche dal flusso d’aria incostante. Vedeva Golfo Aranci come racchiuso in un quadretto; fino ad allora non aveva mai fatto caso al mosaico armonioso delle palazzine basse policromatiche, alla grazia del loro involontario amalgamarsi in un messaggio distensivo e profondo al tempo stesso.
...Sarà così anche Olbia. Ma anche La Maddalena. No, durante i giorni passati troppe cose da fare. Altro che fermarsi davanti alla bellezza dei paesini. Solo bellezze femminili, di rigore. Mi vergogno. Mi viene da chiedere scusa al silenzio di questo pomeriggio non programmato. E comunque non durerà. Domani tornerò materialista come sono sempre stato. Avrò bisogno della passeggiata al centro col frastuono delle automobili, vorrò ricontattare i miei quattro-cinque amici e addio favoletta temporanea della fuga in Sardegna. Perché alla fine io sono materialista come tanti altri, pure se covo certi pensieri strani. Strani, come diceva mamma. Alla fine mi scorderò di tutto. Di papà che ha fatto quello che ha fatto, della finestra sul mare, dell’anima che voleva aprirsi e volare via in queste ore miracolose di permanenza prolungata. Di tutto…
Piangeva, mordeva il freno per arginare rabbia e senso di impotenza; con la stessa intensità avrebbe potuto mordersi le mani, fino al primo sangue sulle nocche. Piangeva sempre più forte. Poi le parole.
«Aiutami! È bellissima la tua creazione, bellissima! Ma io sto fuori da lei? Perché mi hai fatto così? Tu hai la chiave, io da solo non riesco a trovarla, Dio! Un segno, ti prego un segno che tu sei presente vicino a me, mandamelo! Un’onda, un gabbiano a bassa quota che mi voli sulla testa!»

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