Opere di

Emanuele Marchesini

Con questo racconto è risultato 6° classificato – Sezione narrativa alla XIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2009


Questa la motivazione della Giuria: «La storia di un vagabondo che desidera essere invisibile, quasi a nascondersi in mezzo alla gente. Seduto sulla sua panchina ad “annusare la notte”, disperso nelle sue continue peregrinazioni come ad “andare randagio per il mondo e misurare l’infelicità con le lacrime raccolte in una bottiglia” fino all’incontro casuale con una ragazza e la tragica fine. Un racconto che mette in evidenza l’umanità, la fragilità dell’Uomo che può ritrovarsi ramingo per il mondo eppure portare ancora con sé la capacità di avvicinarsi all’animo dell’Uomo, di comprenderlo nelle profondità, di conoscerlo per ciò che veramente». Massimo Barile


Vienevà

Una giovane ragazza trovò un cartoncino (un pezzo di scatola 
di biscotti) tra i giornali accatastati sulla panchina di un parco. Aveva i margini strappati con cura e riportava un brano scritto a matita, in corsivo. C’era anche una firma cancellata quasi per intero, illeggibile. Iniziò a leggere.

DOCUMENTO DI IDENTITà

Maledetto, misero mondo. Ah, ma io ti frego, non sto qui ad aspettare che mi rifili altri dispetti. Io mollo tutto e vado. Dove? Chi lo sa, chi lo saprà mai?».
Pronunciai queste parole all’alba di un giorno molto lontano, quando vagavo nelle notti fresche e scure dell’autunno morente. La mia vita aveva subìto un colpo durissimo al quale non seppi reagire se non vagando, errando. E vagando, errando, va da sé che divenni un randagio.
Amavo stare nell’ombra, nascondermi, spiare. Non volevo essere osservato, perciò mi defilavo. Non volevo essere ascoltato, perciò non parlavo. La gente mi vedeva, ma mi ignorava ed evitava con scostamenti circolari. Li guardavo in viso, loro non facevano altrettanto.
Credo che non fossi piacevole da vedere. Effettivamente credo che la bicicletta carica dei miei averi apparisse come un ingombrante vettore di sporcizia. Era molto tempo che non parlavo con qualcuno e sarebbe stato sempre di più, sempre di più, ma accadde qualcosa. Accadde che l’esperienza di errabondo fece evolvere in me questa capacità di nascondermi in mezzo alla gente in pieno giorno. Qualche volta mi pareva persino di vederli sparire tutti e di rimanere solo. Fino al momento in cui sparirono per davvero. A meno che non sia stato io a sparire.
La sparizione è un’altra dimensione, parallela a quella dove stavo prima. La gente probabilmente c’era e continuava a vedermi, ma io non vedevo più loro. Non vedevo più gli uomini, ma solo strutture ed elementi architettonici. La panchina, per esempio, il mio divano.
Dell’altro mondo non mi restavano che memoria e foglie secche mosse dal vento dell’autunno morente. Niente altro. Piangevo e non c’era bisogno di nascondersi. Ero solo. Piangevo e capii che la lacrima era l’unico tramite concreto, tangibile, tra l’adesso e il prima.
Raccolsi da terra una bottiglia di vetro, trasparente. Me la legai al collo con i cordoni di scarpe che trovai nei cassonetti. Dovevo conservare quella lacrima. “Mollare tutto e andar randagio per il mondo, e misurare l’infelicità con lacrime raccolte in una bottiglia”, pensai.
E così fu. Da allora piango le cose che mi danno tristezza raccogliendo le lacrime nella bottiglia. Ho perduto i miei documenti molto tempo fa e, prima di dimenticare chi sono, scrivo questo attestato per ricordarmelo.
In fede,
xxxxxxx xxxxxxxx

Profondamente commossa, la ragazza si abbandonò al pianto. Un pianto intenso, sommesso. Mentre ripiegava il cartoncino per metterlo nella borsa alzò gli occhi verso un grande pioppo che frusciava alla brezza fresca del mattino.

Il giorno prima.

Vienevà stava seduto su una panchina ad annusare la notte. La gente del quartiere lo conosceva, lo vedeva arrivare con l’autunno, nelle sere precoci di metà settembre. Il pestolìo del suo incedere rompeva il silenzio, mentre affaccendate signore si allungavano sul davanzale per sbrattare le tovaglie dopo il pasto caldo. Passava le notti all’addiaccio e lo si poteva scorgere sotto la pensilina dell’agenzia viaggi. Poi, con l’arrivo dell’inverno, se ne andava insieme alle ultime foglie. Lo avrebbero rivisto l’anno successivo, sempre uguale, solo un po’ più curvo, per via della bottiglia che teneva al collo. Per queste migrazioni lo avevano soprannominato Vienevà.

Mentre esaminava il percorso fatto in quegli anni, sentì da dietro provenire fiochi rumori di ghiaia calpestata. Ne diede colpa al vento, artefice di suoni. Quel rumore però persisteva e sembravano proprio dei passi. Si voltò e vide una sagoma in fondo al camminamento di sasserelli che avanzava verso di lui.
Dunque era vero, non era illusione. Era la terza volta che la incontrava quella sera. Alle prime due non aveva creduto, dando la colpa alla fame e al vento. Provò un forte imbarazzo.
Era una ragazza, singhiozzante, con le lacrime agli occhi. Da quanto tempo non gli capitava di avere a che fare con le persone? Rimase immobile davanti a quella visione così sconvolgente. Voleva domandarle se ci fosse qualche problema. Non sapeva però come farsi avanti. Crebbe l’imbarazzo, ma era un evento troppo importante, non poteva perdere l’occasione di avere risposte ai suoi perché, uno in particolare: dove sono tutti?
Quando lei si accorse della sua presenza, non accusò spavento, tanto meno remora, e proseguì quel cammino disperato. “Così tanto triste da non spaventarsi?”, rifletté.
Così Vienevà le rivolse la parola, con tono cordiale, umile, rassicurante.
«C’è qualche problema, signorina?»
Lei, fra le lacrime, gettò uno sguardo di sfuggita girando appena il viso e, con la mano davanti alla bocca, rispose con altrettanta cordialità.
«No, grazie».
Quella risposta, malgrado la sua semplicità e il sussurro con cui fu pronunciata, gli suonò così bella che tutto ciò che riguardava sé stesso, i dubbi e le domande per capire cos’era successo alla sua miserabile vita, scomparvero. Egli non ebbe riguardo che per lei.
«Perdoni la mia insistenza, signorina, ma sono già molte volte che la incontro e mi sto preoccupando per lei. Vorrei aiutarla».
Questa frase lo rinfrancò, gli parve uscita bene. Effettivamente l’intervento ebbe il suo effetto, perché la ragazza si fermò, asciugandosi le lacrime prima di parlare.
«Niente di quello che può pensare, la ringrazio. Ho bisogno di stare sola».
«Oh certo, – fece imbarazzato – mi perdoni. Sa, anch’io un tempo, quand’ero di buon e discreto aspetto, ho avuto di che soffrire. Solite storie, si è giovani e forti, ma pur ci si scopre tutti immaturi e fragili. Quella notte scappai di casa e l’unica persona che incontrai fu una prostituta, benedetta donna. Mi avvicinai a lei per avere il conforto del dialogo…».
Nel parlare notò che la ragazza era incuriosita e proseguì con piglio.
«…così le domandai: “Le va di parlare?” Lei mi guardò seria e… – ha presente quando al bar si ordina una cosa e ne portano un’altra? – …ecco, quella donna mi rispose: “Scopare?” Sa, fu allora che perdetti i capelli!…».
La ragazza sorrise di quella disavventura e il suo volto parve rasserenato. Quell’omiciattolo così terribile a vedersi quanto tenero a sentirsi, che non aveva accennato ad avvicinarla, le fece provare compassione.
«…Le replicai: “No, no! Voglio parlare!”, ma lei era determinata, e disse: “No parlare, scopare!” Effettivamente sul lavoro si deve lavorare, non parlare. Me ne tornai a casa, a rivoltarmi nel letto…».
“Forse, qui, ad avere veramente bisogno d’aiuto è quest’uomo soltanto”, pensò la giovane.
«…Ecco, era per dirle che avere qualcuno con cui sfogarsi può essere prezioso – le disse in ultima, ancora imbarazzato – Beh, ora me ne torno alle mie cose. Le auguro che il brutto momento passi velocemente. Arrivederci».
«Arrivederci – gli disse – Stia bene anche lei».
Lo guardò camminare a sghimbescio nel buio, quindi riprese la sua strada.

Fu così che l’unico barlume di umanità se ne andò lontano nella via e Vienevà ritornò ad essere solo, nel suo cantuccio. Si raggomitolò nella coperta consunta, poi si coprì di giornali, quindi di cartoni. Un filo di vento muoveva le foglie tenaci sui rami del grande pioppo e la chioma prese a frusciare. Era un grande, profondo respiro dell’amico albero, un respiro la cui grazia fece dimenticare al nostro la precaria condizione fisica. Sentì anche dentro di sé quello zefiro di purezza pervadergli tutto il corpo, fino alla testa. Allietato da tanta pulizia riandò con il pensiero all’incontro di quella sera. Gli sarebbe piaciuto rincontrarla, per scambiare due chiacchiere. “Ma quando mai?”, pensò.

All’improvviso sentì un rumore, una latta scalciata. Il cuore prese a battere forte. Era lei? Era tornata? Già si produceva in sentimenti di gioia e commozione quando, voltatosi per dar credito alle illusioni, vide tre sagome scure avanzare verso di lui. Avevano i profili disegnati da lingue di fuoco rosso. Quali creature erano costoro? Si spaventò, Vienevà, un empito di paura gli impedì di muoversi, incantato da quella visione irreale, orrenda.
Le tre creature gli erano ormai vicine, quando attaccarono a urlargli brutture, bestemmie, improperi. Le loro voci erano grandiose, avvolgenti. Poi una alzò il braccio brandendo una sbarra.

Accadde in un istante che Vienevà perse il contatto anche con quel mondo parallelo, col mondo della sparizione e non sentì più nulla, né vide alcunché. Qualcuno lo prese per mano e lo trascinò in volo e fu bellissimo. Lo pervase una nuova sensazione di benessere, saluberrima ventata che mai aveva provato prima. Si commosse e fu l’ultima volta. Furono lacrime di gioia che andarono a colmare l’ultimo piccolo spazio vuoto della bottiglia, come se in ultima fosse stato destinato a loro. Poi il cordone che la teneva legata al collo diventò cenere e si dissolse, si smaterializzò, lasciando cadere la bottiglia nel vuoto.
Egli la guardò volteggiare silenziosa e spandere il liquido mentre inesorabilmente precipitava lontana. La osservò fino a quando scomparve nel profondo delle canute nubi e quella sensazione lo rinfrancò.
Vienevà si sentì pulito, libero. Libero! Chiuse gli occhi e si abbandonò alla mano che lo scortava in quel luogo così meraviglioso.


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