Opere di

Emanuele Andreuccetti


Brani sparsi

brani tratti da “Dieci personaggi in cerca di un oste, ed. Ibiskos Ulivieri, Empoli 2013



Mi ha sempre colpito una pietra palazzo Bernardini a Lucca che forma lo stipite destro della prima finestra del Piano terra, alla destra del portone principale. È incredibilmente ricurva in avanti senza spezzarsi. La leggenda dice che il diavolo, geloso della venerazione che i cittadini avevano verso un’immagine della Madonna posta proprio in quel luogo, suggerì a messer Bernardini di costruire proprio lì, il suo bel palazzo. Fu, allora, distrutta l’edicola con la sacra icona e, addirittura, per risparmiare, ne furono utilizzati i resti per costruire la famosa finestra. Ma quando i muratori tentarono di fissare la pietra dello stipite, essa si curvò, rifiutandosi di adattarsi alla finestra. Dopo innumerevoli tentativi, tutti rilevatisi inutili, gli operai, terrorizzati e impauriti, si rifiutarono di lavorarci, per cui, ancora oggi, la pietra risulta scomposta. Il detto popolare l’ha così battezzata “Pietra del Bernardini” o “Pietra del Diavolo”.
Per una volta possiamo ringraziare il demonio perché quella pietra è posta lì, a perenne memoria di un’opera rimasta incompiuta. Ferita, per l’appunto. La bella facciata del palazzo ci racconta di come le imprese dell’uomo, quando vogliono distruggere ciò che ci richiama ad un oltre, sono destinate a rimanere incomplete. E a tali ferite si può dare solo una risposta da parte del cuore e dell’immaginazione, cioè possiamo iniziare ad ascoltarle, abituandoci, così, a vederle spuntare dalla “facciata” della nostra vita (…).


«La persona umana è come un prisma.» Mi disse Angelo interrompendo i miei pensieri «Un individuo non è identificabile solo con il ruolo o con l’immagine che riesce a dare di se stesso. Se uno, invece, si lascia attraversare dalla luce della consapevolezza, riesce a scoprire i suoi mille colori, le sfaccettature della sua essenza, delle sue passioni, dei suoi sogni. Certo, all’inizio rimarrà a bocca aperta di fronte all’immensità che gli si sta aprendo e, a malapena, riuscirà a distinguerne i contorni. Forse, scoppierà in una fragorosa risata o in un pianto interminabile, quando altri lo aiuteranno a dare un nome alla realtà che ha appena intuito. Ma poi, col passare del tempo, se riuscirà ad ambientarsi e a focalizzare meglio la novità emersa, avrà la possibilità di iniziare un avventura in questo nuovo mondo scoperto proprio dentro di sé. E, forse, accettando questo paese straniero che sta esplorando dentro la sua interiorità, riuscirà, in futuro, ad accogliere gli stranieri che bussano alla sua porta. Dice Martin Buber che ogni persona, esperienza, lavoro, tutto, racchiude un’essenza spirituale che sta aspettando proprio noi per raggiungere la sua forma perfetta, il suo compimento. Se, invece, ci lasciamo guidare solo dai nostri schemi culturali, dalle nostre paure, rischiamo, anche noi di lasciarci sfuggire l’esistenza autentica, di scambiare dei bufali per degli insetti! (…)


Una persona riesce ad accettare il nuovo, solo quando il vecchio entra in crisi a causa di un evento o di un fatto che subentra improvvisamente. Solo allora, la ferita generata, può diventare feritoia che può far entrare la persona in un nuovo modo di essere. Fino a quel punto ognuno vive più o meno bene con i suoi schemi mentali, perché gli servono per sopravvivere. È difficilissimo che una persona abbandoni un suo modo di vedere o di vivere la realtà, se non viene messo in discussione. E poi non è detto che avvenga sempre.(...)


Quando penso alla relazione tra persone diverse mi viene in mente la lotta tra Giacobbe e l’angelo presso il torrente Jabbok. I due se le danno di santa ragione per tutta la notte. Solo alla fine, il misterioso personaggio giunge a ferire Giacobbe. E a Giacobbe ferito, viene dato un nome nuovo. Vivere nella relazione non è facile perché quando due persone entrano in rapporto, avviene tra di loro una sorta di conflitto-competizione, in cui lo scopo di ognuna è quello di portare l’altra sul proprio terreno e di costringerla ad essere uguale a sé. E, invece, stare nel conflitto è importante perché lascia, in entrambe le parti in lotta, una ferita, un’apertura che le accompagnerà in ogni passaggio del torrente Jabbok, in ogni traversata della vita o di un epoca storica. La lotta, così, potrà “in-segnare” che tra il possedere e l’essere posseduti, tra il mangiare e l’essere mangiati, è possibile trovare, nella relazione con l’altro, una misura, una gamma di sfumature, che permettono a entrambi di vivere un rapporto autentico e libero! E il dialogo è il ponte che unisce le due sponde, non è né l’una, né l’altra ma la relazione che nella distanza le unisce.



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