Fateless - La libertà inizia adesso

di

Elizabeth Cooper


Elizabeth Cooper - Fateless - La libertà inizia adesso
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
15x21 - pp. 242 - Euro 14,00
ISBN 978-88-6587-3144

Libro esaurito

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In copertina: «Close to freedom» di Anna Fanchin


Un destino segnato.
Un amore maledetto.
Una vita dannata.
Una lotta eterna arrivata
alla fine.
Tutto si è spezzato.
Angeli o demoni,
chi vincerà?

Lilith è una ragazza che frequenta il liceo della cittadina di Escondido, in California, insieme ai suoi amici ma non sa che la sua vita sta per cambiare.
L’incontro con un demone le farà ricordare il suo passato. Un angelo le farà rivivere un amore perduto nei secoli.
E una maledizione, scagliatale molto tempo fa, si spezzerà per far concludere una guerra millenaria che persino l’uomo ha scordato.

E tu, da che parte stai?


Prefazione

Il mio romanzo ha preso vita solo grazie ad una domanda: che cosa sono gli angeli?
Ci sono espressioni e modi di dire in moltissime lingue che contengono questa parola; basti pensare anche solo alle canzoni oppure a tutte le religioni che esistono al mondo.
Ho fatto moltissime ricerche ma più pensavo di avvicinarmi a comprendere la loro natura più sentivo che quest’argomento mi sfuggiva dalle dita, lasciandomi insoddisfatta.
Non sono sicura di essere riuscita a padroneggiare una credenza così vasta e diffusa in tutto il globo ma ho fiducia nel fatto di essere stata capace di racchiudere un po’ di questa vastissima tradizione, che risale alla notte dei tempi, nel mio libro.
La mia opera è ambientata nel XX secolo e ha lo scopo di sconvolgere la nostra perfetta realtà attraverso l’uso di creature sovrannaturali che fanno parte da sempre del nostro bagaglio culturale.
A parte questo, non ho la presunzione di parlare di angeli veri nella mia opera. Gli angeli di questo libro sono diversi da quelli descritti nelle religioni. Sono creature quasi leggendarie, come gli esseri che popolano le storie dei bambini, che riempiono la mia fantasia.
Questa storia è un invito ad un metaforico banchetto, con i miei personali angeli, con lo scopo di poter condividere l’universo racchiuso dentro di me.
Influenzata da credenze cristiane, non ho completamente slegato la natura di queste creature dal loro contesto primario anche se ne ho apportato opportune modifiche.
Che creda o meno in Dio non è un problema che si deve affrontare leggendo la mia opera perché per fidarsi dei miei angeli, basta solo avere tanta fantasia e voglia di avventura.
Voglio lasciare alle persone l’opportunità di confrontarsi con se stesse e decidere da sole in cosa credere. Lo scopo che mi propongo è quello di portare la natura ultraterrena degli angeli e dei demoni a livelli più umani e comprensibili a tutti, facendoli diventare creature magiche ed affascinanti.
Inoltre, voglio far capire che l’uomo può essere parte del divino e che quindi può arrivare ad assumere un ruolo centrale anche nella vita quotidiana, facendo del bene per il prossimo.
Per esprimere queste mie idee e convinzioni non ho voluto ricorrere a lunghe disquisizioni, ma ho inventato una storia e dei personaggi che mostrino il mio pensiero attraverso le loro azioni.
Ognuno di essi non è altro che un’allegoria più vasta di ognuno di noi. Tre pezzi di un puzzle che formano il nostro stesso essere umano.
Credo proprio di non dover aggiungere altro perché il mio libro parlerà al mio posto.
Calatevi in questa avventura ultraterrena e non abbiate paura di conoscere gli angeli e i demoni che popolano questa mia storia.
Posso solo augurarvi buona lettura e ringraziarvi di aver considerato meritevole di attenzione questa mia modesta opera.

Elizabeth Cooper


Fateless - La libertà inizia adesso


Alla mia famiglia,
con tutta la mia
gratitudine.


Prologo

Che sia per spada o per il crudele imperversare del tempo il destino dell’uomo è sempre stato quello di morire.
Nessuno sfugge alla morte e non ci sarà mai un per sempre.
Ma io non sono e non sarò mai umana.
Forse avevo impiegato troppo tempo per capirlo ma, arrivata a questo punto, nulla ha più importanza.
Bianco o Nero.
Giorno o Notte.
Bene o Male.
Dicotomie antiche come il mondo.
Ognuno di noi deve decidere da che parte stare. Ma siamo veramente liberi di farlo?
Le scelte sono tagli talmente profondi che lasciano sempre un segno.
Come facciamo ad andare avanti quando cominciamo a capire che non si torna indietro?
Ero addolorata, ferita, stavo soffrendo e piangendo come se sanguinassi.
Le dita di coloro che mi stavano giudicando, mi indicavano come se fossero miliardi di luci bianche. Non c’era un solo angolo buio dove potessi nascondere la mia fragile vita.
Ma, fra quelli che mi stanno accusando adesso, non c’è nessuno che si sia trovato al mio posto. Guardandomi dalla loro posizione sicura, mi stanno rimproverando, brandendo un bel codice morale creato dalla loro stessa paura.
Un codice rigido che, come un filo spinato, mi avvolge e mi ferisce facendomi stillare sangue per la salvezza dell’umanità.
Qualcuno mi sta difendendo ma è troppo tardi.
L’amore era stato la prima cosa che avevo appreso e sarebbe stato l’ultimo dono che avrei ricevuto nella mia esistenza.
Lampi e tuoni sferzavano il cielo con tale forza che le nuvole sembravano gridare per il dolore che si abbatteva sulla terra.
Le guerre non sono mai belle. Quella che dovevo affrontare io però aveva un sapore antico, di un sommesso rimpianto, carico di un odio devastante e umiliante.
Una battaglia epica che nessuno riusciva a vincere.
Io non avevo fatto la mia scelta. Non mi era stato concesso.
Tutti sapevano che stavano solo rimandando l’inevitabile ma solo io ne ero pienamente consapevole.
Sono un’anima senza destino e lotterò per riaverlo.
Nessuno può togliermi il diritto di vivere, nemmeno una maledizione.


Capitolo 1

Lacrima di sangue

Il sole mattutino filtrò oltre le tende bianche e mi solleticò il viso, facendomi raggomitolare sotto le lenzuola nel tentativo di rimettermi a dormire.
Alcuni rumori disturbavano il mio sonno: persone che litigavano per la strada, clacson di auto e grida di bambini che passavano sotto la mia finestra. Come se non bastasse, il telefono cominciò a vibrare prepotentemente scuotendo tutto il comodino.
Mi levai le coperte e a tastoni presi il telefonino maledicendo la persona che mi stava chiamando.
«Pronto?» grugnii, tentando invano di trattenere uno sbadiglio.
«Credo di aver sbagliato numero. Per caso, signor Grizzly, sa se c’è la mia amica Lilith lì da lei?» scherzò la voce squillante di un ragazzo dall’altro capo della cornetta.
«Gabriel!», esclamai ancora un po’ intontita mentre mi alzavo dal letto. «Spero tu abbia una buona scusa per chiamarmi a quest’ora!».
«Certo. Sappi che sono le dieci e mezzo e che hai quindici minuti di tempo per vestirti e farti trovare pronta all’ingresso, altrimenti faremo tardi a lavoro.»
Rimasi in silenzio pochi secondi, la risata fresca e mattutina del mio migliore amico rimbalzò nella mia testa mentre chiudevo il telefono e mi precipitavo in bagno imprecando contro me stessa.
Mi feci una doccia veloce per togliermi la stanchezza di dosso e poi corsi in camera a vestirmi. Presi un paio di jeans, la mia maglietta rossa preferita e indossai le scarpe da ginnastica. Scesi al pian terreno a fare colazione con una tazza di cereali inzuppati nel latte e ritornai in bagno con l’ultimo boccone ancora in bocca.
Mi avvicinai allo specchio e districai i nodi dei miei capelli color castano chiaro per poi raccoglierli in una coda di cavallo. I miei occhi azzurri brillarono colpiti da alcuni raggi di sole mentre correvo in camera a prendere la borsa e il portafogli.
Ritornai in cucina per bere un sorso d’acqua e il suono di un clacson mi fece quasi andare di traverso quello che stavo sorseggiando.
Agguantai il mazzo di chiavi, che tintinnava dentro la borsa e il mio giubbetto in jeans, appeso all’attaccapanni, e uscii chiudendomi la porta alle spalle. In velocità attraversai il vialetto dell’abitazione per raggiungere l’auto posteggiata dall’altra parte della strada.
Da dietro il finestrino scorsi il volto di Gabriel che si aprì in un ampio sorriso mentre aprivo la portiera del suv argentato.
«Ce l’hai fatta!» esclamò, stupito, mettendo in moto la macchina.
«Uomo di poca fede» borbottai, lanciando sul sedile posteriore la borsa e la giacca. «Comunque grazie per avermi svegliata. Se non fosse stato per te sarei ancora nel mondo dei sogni».
«Di nulla, Principessa. Se non fossi una sveglia per te perderei la mia utilità nel mondo» scherzò mentre si beccava un leggero pugno sulla spalla.
Gabriel aveva capelli ricci color dell’oro che, scompigliati dall’aria che entrava dal finestrino semi aperto, ricordavano un campo di grano accarezzato dai dolci raggi del sole.
Dietro gli occhiali neri i suoi occhi blu come gli abissi marini scrutavano la strada concentrati; era impossibile non sentirsi ammaliati da quello sguardo carico di sofferenza e di saggezza, come se avesse già compreso tutto ciò che la vita gli aveva riservato.
Una maglia bianca e dei jeans strappati facevano risaltare il suo fisico scolpito e la pelle leggermente abbronzata; i suoi modi sempre pacati e gentili erano delicati e talmente dolci da essere quasi malinconici.
La musica ci teneva compagnia mentre ci allontanavamo dalla città e ci addentravamo, seppur di poco, nel deserto del Mojave. Poco dopo apparve il solito cartello verde con la scritta “State lasciando Escondido”; altri dieci minuti e saremmo arrivati al nostro posto di lavoro in perfetto orario.
La nostra cittadina era vivibile anche se non assomigliava ad una grande metropoli ed ero molto soddisfatta di viverci; la consideravo una seconda casa e mi ero abituata bene anche all’ambiente circostante da quando mi ero trasferita lì.
«Allora il tuo catorcio come sta?» chiese Gabriel, trattenendo una risata, spingendo il piede sull’acceleratore.
«Sopravvive», annunciai, fiera, permettendomi di tirargli una linguaccia. «Aveva un piccolo problema ai freni ma il meccanico ha detto che lunedì posso passare a prenderla».
«Quell’aggeggio è duro a morire, eh?»
«Ricordati che “quell’aggeggio” è stato classificato come auto d’epoca. Trattalo con più rispetto, se non ti dispiace. È una signora macchina» dissi, facendo la falsa offesa e abbassando il finestrino per far entrare un po’ dell’aria calda del deserto.
«Una Ford Ranchero del 1978 color marroncino a pois metallizzati che quando passa per la città sembra ci sia una sparatoria da quanto fa rumore! È già tanto se la gente non si ferma e ti dona il portafoglio!»
Ridemmo tutti e due mentre una moto ci sorpassava a tutta velocità, era bello ritrovarsi con Gabriel fuori dalla scuola perché sapeva sempre come farmi divertire.
«Ok, ammetto che questa ti è riuscita bene! Però i pois metallizzati le donano. Comunque stavo pensando di scrostare la vernice marrone e farla di un altro colore. Tu cosa proponi?»
La mia macchina era vecchia e forse non molto sicura ma non l’avrei venduta fino a quando il mio meccanico non mi avesse detto che ero in pericolo di vita.
Era stata il regalo di mia nonna quando avevo preso la patente, prima che lei morisse e, per me, aveva un enorme valore affettivo.
«Color torroncino con sopra una spruzzata di pistacchio, ottima per attirare piccioni visto che ti piacciono tanto gli animali. Avrai uno zoo ambulante tutto tuo, pensa che bello» disse mentre faceva tutti i versi possibili e immaginabili per canzonarmi.
«Tu saresti la mia attrazione principale di sicuro» sbottai finendo, come sempre, per ridere fino a che la pancia non mi fece male.
La risata del mio migliore amico aveva qualcosa di magico, era calda e confortante come le onde di un mare calmo e profondo. Sembrava quasi terapeutica da quanto era celestiale. Fin da quando lo avevo conosciuto non avevo fatto altro che pensarlo perché, anche la sua sola presenza, sembrava calmare la più accesa delle liti.
Entrambi ci tranquillizzammo mentre svoltavamo a destra e parcheggiavamo dietro una solida e tradizionale struttura rettangolare nel mezzo del deserto. Il posto dove lavoravamo era la tavola calda di Lory; meglio conosciuta come “Garden of Eden” come recitavano le lettere cubitali rosse poste in cima alla costruzione.
Da due anni io e Gabriel aiutavamo l’ormai anziana signora Lory con i suoi capelli sale e pepe sempre arruffati, i suoi vestitini a fiori e l’immancabile scialle rosa stinto appoggiato sulle spalle.
Scesi dal suv e una zaffata di aria desertica mi investì, facendomi mancare il respiro; non riuscivo proprio ad abituarmi a quell’ambiente mentre sembrava che al mio migliore amico non facesse effetto.
«Scommetto che se ti mettessero al Polo Sud con i pinguini, completamente nudo, non batteresti ciglio», commentai sarcastica, con il solo pensiero di entrare dentro il locale e piazzarmi davanti al climatizzatore.
In tutta risposta lui ridacchiò mentre mi apriva la porta per galanteria e la padrona del locale ci salutava allegramente.
«Ciao tesori miei!» esclamò allegra dal suo sgabello situato dietro la cassa. «Puntuali come sempre, non posso mai lamentarmi una volta».
Il locale era spazioso: quattro tavoli simmetrici, divisi da piccoli cespugli, erano posti a destra e a sinistra del piccolo tappeto verde che si apriva ai nostri piedi. Un jukebox colorato, messo in un angolo vicino all’enorme vetrata d’ingresso, faceva risuonare la sua musica di sottofondo non disturbando la TV agganciata al soffitto.
Dietro il solido bancone di legno di quercia si vedevano le macchine per fare i frullati, per servire le bibite, per scaldare i panini e l’immancabile caffettiera.
«Ciao Jo» salutammo io e Gabry mentre indossavamo il nostro grembiule azzurro e facevamo capolino dalla finestra che dava sulla cucina.
«Ehi ragazzi, come va? Scusatemi ma sto preparando due pizze d’asporto devo correre al forno!» disse, mentre si precipitava a togliere i suoi capolavori culinari prima che si bruciassero.
La nostra era l’unica tavola calda che proponeva cibo d’asporto, soprattutto per la vicinanza con la città di Escondido e aveva anche una pompa di benzina prima di chilometri e chilometri dell’interminabile deserto del Mojave.
Insomma gli affari andavano bene e non ci si poteva lamentare di nulla, la vecchia Lory aveva mantenuto il suo solito fiuto per i soldi, come recitava sempre il nostro cuoco, suo caro e vecchio amico d’infanzia.
Cominciammo a spolverare in giro e a ripulire i tavoli mentre alcuni camionisti entrarono a prendere una tazza di caffè e le solite uova strapazzate con il toast.
«Ehi Lory, allora quando mi sposi?», chiese uno dei due sorseggiando il suo caffè.
«Mai, caro il mio vecchio Spencer! Sono una donna in carriera, non vorrai mica rovinarmi con la tua reputazione da cattivo ragazzo?» affermò lei scendendo, a fatica, dal suo sgabello per avvicinarsi ai suoi clienti fissi.
I tre continuarono a tirarsi frecciatine mentre mi preparavo mentalmente a sorbirmi altre otto ore e mezza di lavoro (per fortuna con Gabriel accanto sembrava che il tempo volasse in un baleno!).
Verso l’ora di pranzo cominciarono ad arrivare clienti a frotte e le ordinazioni si susseguivano una sull’altra mentre bambini scalmanati si divertivano a fare slalom tra le mie gambe usandomi, come scudo umano, per le loro eroiche battaglie.
Per fortuna la calma pomeridiana arrivò presto e mi preparai un frullato alla fragola mentre mi sedevo vicino a Gabriel per far riposare i miei piedi imploranti. Lui non sembrava neanche stanco, il viso era fresco e sempre solare come se non riuscisse ad essere arrabbiato o spossato della giornata trascorsa.
«Gabry, ne vuoi un po’?» chiesi mettendogli la cannuccia sotto il naso.
Il mio amico non si mosse, guardava oltre l’orizzonte con occhi rapiti non facendo nemmeno caso alla mia presenza. A volte pensavo che venisse da un altro pianeta; era maledettamente perfetto in ogni cosa come se già la conoscesse.
«C’è nessuno in casa?», domandai, sventolandogli una mano davanti, costringendolo a girarsi verso di me.
«Scusami ero distratto, dicevi?» rispose subito anche se capivo che la sua mente era lontana migliaia di chilometri da questo posto.
«Vuoi un frullato?».
«No, grazie lo stesso», replicò rivolgendo lo sguardo nella stessa direzione di prima.
Aspettai paziente che mi dicesse su cosa stava riflettendo; sapevo che sarebbe crollato perché fra me e lui non c’erano segreti. Ormai lo conoscevo abbastanza bene da capire quando aveva bisogno dei suoi spazi e quando, invece, gli serviva qualcuno su cui contare.
«Vieni con me a fare un viaggio?» disse all’improvviso, facendomi quasi strangolare con il frullato mentre lo osservavo stupita.
Le decisioni improvvise non rientravano nella sua personalità; ogni giorno doveva pianificare ogni singolo dettaglio, perché gli piaceva essere ordinato (al contrario di me).
«Mmm… No, non hai la febbre», dissi mentre gli tastavo la fronte.
Lui rise e scostò delicatamente la mia mano fissandomi negli occhi; quando incrociai il suo sguardo capii che qualcosa lo preoccupava ma sembrava contrario a parlarne.
«Per tua sfortuna sto bene. Comunque che ne diresti? Verresti con me se un giorno, all’improvviso, piombassi a casa tua e ti dicessi di seguirmi senza sapere dove siamo diretti?» mi chiese, serio, ritornando a fissare oltre l’orizzonte.
Prima che potessi rispondergli si alzò dalla sedia prendendo il mio frullato per buttarlo via; mentre si allontanava borbottò: «È in arrivo una tempesta».
Osservai anch’io il cielo e l’orizzonte ma tutto era limpido e terso, con il sole che riscaldava la terra già arida e allontanava ogni nuvola.
Scossi la testa e mi avviai vicino al bancone per pulire la macchina del caffè mentre guardavo Gabriel di soppiatto. Non l’avevo mai visto così serio e silenzioso. Sperai che non gli fosse capitato qualcosa di grave e continuai il mio lavoro per tutto il tempo in cui il mio migliore amico finiva di pulire i tavolini sporchi.
Il resto della giornata passò lentamente tra gli sporadici clienti che entravano per prendere qualcosa o per chiedere informazioni e i lunghi silenzi interrotti solo dalla musica del jukebox.
Finalmente alle sette di sera entrarono Mary e Susan, le altre due cameriere, a darci il cambio e io sorrisi con gioia.
Fuori infuriava una tempesta, lampi e fulmini non smettevano di illuminare a giorno il deserto e ogni tanto la corrente se ne andava, lasciando il locale immerso nel buio per alcuni minuti.
«Che tempaccio!» intervenne Lory mentre mi mettevo su la giacca. «Mi raccomando siate prudenti al ritorno. Se volete potete aspettare ancora un po’ prima che passi».
«Grazie mille dell’offerta» intervenne Gabry alle mie spalle, «ma noi dobbiamo proprio andare. Saremo prudenti, signora Brown, buona serata e si riguardi».
Mi trascinò sul retro del locale e mi mise in mano un ombrello color panna mentre io lo aspettavo, come mi aveva chiesto, dentro il café.
Al suono del clacson del suv sobbalzai ma, rapidamente, aprii la piccola porta sverniciata e corsi verso la macchina velocemente bagnandomi, quasi completamente, anche con l’uso dell’ombrello.
«Bene, direi che non mi serve la doccia» proclamai, mettendomi la cintura e guardando i miei jeans bagnati fino al ginocchio.
Cercai il cellulare nella mia borsa e quando lo presi vidi che mia madre aveva provato a chiamarmi e che mi aveva lasciato un messaggio in segreteria. Lo ascoltai con attenzione e sospirai.
Anche questo sabato non sarebbe tornata a casa perché il lavoro l’aveva completamente assorbita e avrebbe dormito da una sua collega per essere pronta per il processo. Mia madre lavorava per il pubblico ministero e molto spesso capitava che non tornasse a casa per alcuni giorni finché il caso a cui stava lavorando, non era completamente risolto.
«Gabry, ti va di fermarti da me? Faccio i popcorn e ci guardiamo un film. Che ne dici?» chiesi sperando in un suo “sì”… Non avevo la minima intenzione di rimanere da sola proprio sabato sera.
«Certo, molto volentieri!» esclamò entusiasta, sorridendomi.
«Perfetto. Cosa guardiamo?»
«Fammi pensare…» sospirò mentre rientravamo nella città per fermarci a prendere un dvd.
Continuammo a battibeccare sul film fino a quando non ci fermammo davanti alla videoteca ancora indecisi su cosa prendere.
«Questo giro offro io», affermò Gabriel, estraendo dal portafoglio la tessera.
«Però vado io!» esclamai, rubandogliela.
Aprii la porta della macchina e sfrecciai sotto quel diluvio; ci misi poco a decidere visto che la scelta dei film era molto povera. Ritornai nel suv e restituii la tessera al mio amico tentando di abbracciarlo visto che ero zuppa come un pulcino.
«Stammi distante! Sei una cascata d’acqua», si lamentò scherzosamente mentre lo schizzavo.
«Allora cosa hai trovato?» mi domandò, tentando di prendermi il dvd dalle mani senza successo.
«Lo scoprirai più tardi, ora portami a casa che muoio di fame.»
L’auto scattò in avanti e in pochi minuti fummo davanti alla mia abitazione: io bagnata da testa a piedi e Gabriel perfettamente asciutto, come se la pioggia non l’avesse neanche sfiorato.
Aprii la porta e misi sull’attaccapanni d’ingresso la giacca mia e quella di Gabry che si avviò subito in cucina per preparare i popcorn.
«Ti aiuto», proposi ma fui ricacciata indietro con l’ordine perentorio di farmi una doccia altrimenti avrei preso un malanno.
Salii le scale in velocità e mi fiondai in bagno con i vestiti di ricambio sotto braccio, entrai nella doccia e lasciai che l’acqua calda portasse via tutta la stanchezza della giornata. Gabry sembrava essere tornato quello di sempre, ma non avrei lasciato perdere, sarei riuscita a farmi dire cosa lo tormentava così tanto.
Indossai la mia tuta preferita e cominciai ad asciugarmi i capelli per evitare eventuali raffreddori, mentre un profumo di mais invadeva le stanze insieme alla voce melodica di Gabriel.
«Ehi, il teatro dell’opera è dall’altra parte», scherzai facendo capolino nella stanza con il mio miglior sorriso stampato sulla faccia.
L’ambiente non era molto grande ma i mobili in legno chiaro della cucina risaltavano sulla tinta di giallo delle pareti e al centro il piccolo tavolo di mogano completava il tutto.
«Chiedo scusa se la canzone non era di suo gradimento. La cena è servita», annunciò formale, scortandomi nel mio salotto.
Un divano in pelle era posizionato di fronte alla TV mentre nel mezzo si trovava un tavolino in vetro e alla nostra destra una poltrona coordinata al divano. Alle pareti mia madre aveva appeso alcuni quadri dipinti quando era giovane; dal soffitto, invece, scendeva un lampadario sobrio ed elegante che armonizzava l’ambiente.
Solo dopo notai che una ciotola enorme e due bicchieri di coca erano appoggiati sul tavolino di vetro. Presi posto sul divano e accanto a me il mio migliore amico che mi passava la terrina piena di popcorn.
«Credevo fossi allergica ai film romantici…» disse Gabry, sistemando il cuscino alle sue spalle.
«Infatti, ma non ho voglia di ritrovarmi all’ultimo momento per fare la relazione su Romeo e Giulietta. Non ci tengo a prendere un’insufficienza e guardare questo film con te mi è sembrata un’ottima idea», affermai mentre mi coprivo i piedi con la coperta e schiacciavo il tasto per far partire il dvd.
Osservai i due giovani che apparvero all’istante nello schermo e provai una fitta di gelosia. La loro storia era la più tragica del mondo e ogni volta che la sentivo mi si stringeva il cuore, ma provavo anche una leggera invidia per i due innamorati. Giulietta aveva trovato il suo vero amore e si era aggrappata con tutte le sue forze, seguendolo con ostinazione senza mai crollare e l’ammiravo per questo.
Ma nella vita reale, quella di tutti i giorni, dov’era l’amore tanto decantato dai poeti?
Mi ero illusa più volte che esistesse una forza così grande ed ero sicura di non meritarla neppure. Non ero una persona complicata o con molte pretese, ma nessuno sembrava notarmi a scuola e, se anche lo facevano, nemmeno un ragazzo si era fatto avanti. Ero convinta che mai, nella mia vita, sarei riuscita a incontrare il principe azzurro.
Solamente mia nonna aveva capito cosa desideravo veramente e mi aveva detto di essere me stessa e di aspettare, il tempo avrebbe fatto il resto.
Fissai il mio migliore amico e feci un sorriso tirato.
Appena ero entrata nella Escondido Charter High School avevo conosciuto Gabriel e, anche se non mi ero innamorata, sentivo che la mia vita aveva preso una piega diversa e che cominciava a diventare quasi perfetta.
Mi era sempre rimasto accanto nei momenti difficili e li avevamo affrontati insieme, lo ritenevo un fratello maggiore dato che era molto protettivo nei miei confronti e dovevo ammettere che non mi dispiaceva essere difesa da lui.
Nei primi mesi di scuola eravamo stati il bersaglio di tutte le studentesse perché passavamo un sacco di tempo insieme e quasi non riuscivamo ad uscire dalle aule senza che qualcuno venisse a chiederci se fossimo fidanzati.
Nonostante i primi imbarazzi, alla fine eravamo riusciti a chiarire i malintesi e finalmente Gabriel aveva ripreso popolarità e una coda impressionante di ammiratrici, mentre io restavo la sua migliore amica, contenta di quella carica.
Forse avrei dovuto aspirare ad un ruolo più alto, come mi avevano suggerito Katherine e Amanda perché, secondo le loro opinioni, Gabry era innamorato di me. In realtà lo avevo sospettato nei primi mesi ma lui non aveva mai fatto niente per avvalorare la mia ipotesi, così mi ero convinta che una solida amicizia era preferibile alla vita di coppia.
Mentre i miei pensieri viaggiavano a ritroso, sullo schermo apparve la scena madre del film e la mia attenzione ne fu catturata.
Non mi accorsi nemmeno che stavo stringendo il braccio di Gabriel quando Giulietta pianse Romeo ormai morto anzi, avevo perso la cognizione della realtà da quanto ero immersa nell’atmosfera shakespeariana.
«Apprezzerei molto se invece di bloccarmi la circolazione mollassi la presa», intervenne il mio amico quando apparvero i titoli di coda.
Immediatamente ritrassi le mani e gli chiesi scusa. Per distrarmi cercai il telecomando che era finito sotto il cuscino del divano e spensi la TV.
«Ehi, Gabry per caso hai visto il mio cellulare?», chiesi mentre rovistavo in giro per la stanza.
«Vedo che con la cecità abbiamo fatto progressi» constatò con una risata, mentre indicava il mio telefonino immobile, vicino alla copertina del dvd, sopra il tavolino.
Gli tirai una linguaccia e lessi l’ora: erano le 23.30 e l’idea di rimanere da sola, in casa, con il temporale che infuriava fuori non mi allettava più di tanto.
Era da un paio di giorni che mi assaliva una strana ansia quando rimanevo sola e spesso e volentieri non riuscivo a dormire o facevo terribili incubi.
«Ti fermi a dormire qui?», proposi, piena di speranza.
Non appena Gabriel annuì un tuono squarciò il cielo, facendo un rumore assordante, e la corrente saltò.
Il salotto sembrava scomparso, come se fosse stato inghiottito da un mare completamente nero. Non riuscivo a distinguere nemmeno i contorni dei mobili dato che anche i lampioni in strada si erano spenti.
Ad un tratto una fiamma s’illuminò davanti a me e mi ritrovai ad osservare la piccola candela che brillava sicura tra le mani del mio amico.
«Dove l’hai presa?» domandai, stupita, dato che ero sicura di non avere nessuna candela in quella stanza.
«Era sul tavolino, di fianco a me», rispose, con sicurezza, aiutandomi ad alzarmi.
Ci avviammo lentamente in cucina e io non parlai. Anche se fosse stato vero quello che mi aveva appena detto, come aveva fatto a prendere l’accendino, riposto dentro il cassetto del soggiorno, e tornare al suo posto senza nemmeno far rumore?
Da qualche giorno Gabriel si comportava in maniera strana: apparivano cose che non c’erano, non si confidava più con me – come faceva un tempo – e mi scortava sempre in qualsiasi posto, come se fosse diventato la mia guardia del corpo.
«Bene», dissi, fingendo che non fosse successo niente. «Chiudo le imposte e controllo la porta. Tu, se vuoi, puoi andare a farti una doccia o a prendere la brandina per dormire».
Mentre mi affaccendavo al piano di sotto, sentii l’acqua del bagno che scorreva e salii le scale per arrivare nella mia camera da letto.
L’ambiente si apriva in uno spazio rettangolare abbastanza ampio con un letto in ferro battuto posato sulla parete di sinistra mentre a destra si trovava un grosso armadio di ciliegio a due ante dove erano stipati tutti i miei vestiti. Sotto la finestra, incorniciata da due tende color avorio, compariva la scrivania abbellita con putti e piante rampicanti mentre, attaccata al muro, spiccava una mensola su cui erano riposti i miei libri. Adiacente alla porta si notava una fine cassettiera in legno di noce con intarsiato uno specchio enorme e piuttosto antico.
Posizionai la brandina – presa da dietro l’armadio –, sopra il tappeto a motivi floreali della mia stanza e la sistemai con alcune coperte e un cuscino che avevo preso dal salotto.
«Devo ammettere che in questo albergo il servizio non è male», commentò Gabriel, a torso nudo, appoggiato allo stipite della porta.
«Copriti!» esclamai lanciandogli addosso la mia felpa.
«Scusami se ti ho turbata. Lo so che il mio fascino è una cosa assurda ma almeno cerca di darti un contegno».
«Sì, sì, a chi vuoi darla a bere Mr. Steroidi? Adesso se non ti dispiace tocca a me usare il bagno». Lo sorpassai per entrare nella toilette piena di vapore.
Mi svestii e indossai il pigiama per poi tornare velocemente nella mia stanza e notare che Gabry si era posizionato, con le braccia dietro la nuca, nel mio letto.
«Alza i tacchi e fila nel tuo sontuoso materasso, signorino. La faccia da cucciolo bastonato non mi farà cambiare idea, sappilo, anche perché non ti riesce bene» dissi, prima di scoppiare in una fragorosa risata.
Gabry si era messo a fare smorfie sul mio letto ma, mentre obbediva al mio comando, la coperta gli si era arrotolata intorno al piede facendolo così cadere in mezzo alla stanza.
«T-ti prego alzati!» esclamai con la pancia che doleva. «Pensi che restare altri 5 minuti lì disteso ti aiuterà a guadagnare punti?»
«In realtà sì!», esclamò, divertito, dirigendosi a carponi verso il letto.
Anch’io seguii il suo esempio e mi infilai sotto le coperte ridacchiando, di tanto in tanto, mentre tentavo di prendere sonno.
«Ne hai ancora per molto?» brontolò.
«Scusami, ma è raro vederti commettere errori così umani».
«Va bene. Buona notte Lilith», sentenziò, lasciando che il silenzio riempisse la stanza insieme al buio.
Mi rigirai sotto le coperte con fare nervoso. Ogni volta che accennavo a qualcosa che andava oltre l’umano, Gabriel mi liquidava con poche parole, senza che potessi affrontare l’argomento.
Suonava strano persino a me, ma la mia mente mi suggeriva che tutto questo aveva a che fare con qualcosa che andava oltre la mia semplice umanità.
Ero molto scettica e cercavo sempre di razionalizzare ogni cosa. Però dovevo ammettere che alcune volte sarebbe stato comodo poter credere in qualcosa di sovrannaturale, visto come si stavano evolvendo i fatti.
Sospirai forte mentre ascoltavo le insistenti gocce di pioggia che picchiettavano sul tetto dell’abitazione, senza sosta, da ore.
Notai che dalla mia finestra filtrava la luce forte del lampione e, nonostante i miei tentativi di ignorarla, alla fine cedetti; mi alzai e, tentando di fare il minor rumore possibile, mi avvicinai per tirare le tende.
Fissai la strada deserta, ma la mia attenzione fu catturata da una figura in piedi vicino al lampione posto a pochi metri da casa mia.
Portava un cilindro nero e un mantello scuro che lo copriva interamente lasciando visibile solo le scarpe di colore diverso: una era nera e l’altra bianca.
Sentivo un’ansia crescente dentro di me ma, contemporaneamente, non riuscivo a staccare gli occhi da quell’uomo incappucciato.
All’improvviso alzò il volto nella mia direzione, quasi sapesse che lo stavo guardando, e mi sorrise con crudeltà.
Il sangue si gelò nelle vene, il cuore sembrò quasi arrestarsi mentre spasmi muscolari mi percorrevano tutto il corpo lanciando un urlo di agonia che non uscì dalle mie labbra perché la voce mi aveva abbandonata.
I suoi occhi color ametista mi fissavano con cupidigia e malvagità e brillavano sul suo volto marmoreo dai tratti spigolosi, la bocca era piegata in un sorriso ironico ma la mia attenzione si era concentrata in un unico punto.
Proprio sotto il suo occhio sinistro era tatuata una lacrima, che si estendeva fino allo zigomo, color del sangue. Nonostante la lontananza riuscivo a vedere benissimo quel tatuaggio che sfigurava il volto perfetto di quell’uomo.
Finalmente il mio corpo reagì e chiusi le imposte per poi precipitarmi verso il letto di Gabriel che, con mia sorpresa, era vuoto.
Corsi in giro per tutta la casa ma non c’era traccia del mio amico, sembrava sparito nel nulla e ritornai in camera presa dallo sconforto.
La paura mi serrava lo stomaco e facevo fatica a respirare, la testa stava per scoppiare e il timore di avere qualcuno che mi spiava fuori da casa mia mi faceva fremere con violenza.
Non avevo detto a nessuno, nemmeno a Gabry, che pensavo di essere pedinata e spiata ogni volta che uscivo in strada. Dov’era Gabriel? Perché era scomparso così misteriosamente?
Mi rannicchiai sotto le coperte e, a poco a poco, il tepore del sonno si fece sentire nonostante lo spavento che ancora non mi lasciava.
Prima di cadere preda dei miei incubi un pensiero fulmineo si delineò nella mia mente, mandandomi nel panico più assoluto: mi sembrava di conoscere quell’uomo.


[continua]


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