Opere di

Elisa Crescenzo Elisa Crescenzo

Con questo racconto è risultata 10^ classificata – Sezione narrativa alla X edizione del “Premio di Poesia e Narrativa La Montagna Valle Spluga 2009


«Senza titolo»

A Torino, l’estate del 1985 fu sicuramente una delle più calde: l’afa rendeva faticosa la vita in città e l’asfalto si scioglieva sotto i passi di turisti e cittadini.
Sotto il sole, l’attesa alla fermata degli autobus diventava estenuante e se nei dintorni non c’erano balconi o alberi sotto ai quali ripararsi, risultava addirittura impossibile.
Fortunatamente il centro di Torino era percorso dai famosi portici che specialmente in via Po, vicino all’Università, pullulavano di studenti. I ragazzi con vestiti colorati e infradito, oziavano svogliatamente nei numerosi bar: sorseggiando granite, ripassando gli ultimi appunti o scambiandosi i racconti degli esami sostenuti.
Con passo deciso e confondendosi tra gli studenti, Alice, svoltando da via Po, imboccò via Verdi dirigendosi verso Palazzo Nuovo.
L’alto edificio grigio, sede universitaria delle facoltà umanistiche ospitava varie biblioteche: Alice si diresse verso quella di storia.
In pochi minuti trovò e fotocopiò la documentazione che le serviva.
– Però- pensò uscendo dall’Università – non mi ricordavo che la biblioteca d’estate fosse così calda –.
Scosse la testa, mentre con l’andatura sostenuta che la caratterizzava, si diresse verso la biblioteca di antropologia.
Alle cinque del pomeriggio, stringendo forte le sue fotocopie e maledicendo il momento in cui, uscita di casa aveva scartato l’idea di prendere la bicicletta, Alice si diresse verso la fermata dell’autobus. Il caldo non dava tregua.
Dopo una decina di minuti, anticipato da una folata di vento caldo, l’autobus si accostò al bordo della banchina. Alice salì, seguita da un’altra decina di sfortunati che si accalcarono all’interno.
Quando riuscì finalmente a guadagnarsi un posto a sedere, la ragazza si immerse per il resto del tragitto nella lettura delle sue fotocopie.

Alice, infatti, aveva iniziato da poco a lavorare per una rivista sulla montagna. Entro la fine di quella settimana avrebbe dovuto redigere un articolo di approfondimento, completo di intervista, sulla terribile valanga che nel 1904 aveva sepolto vive centinaia di minatori impegnati a scavare nelle miniere del monte Beth, in Val Chisone, nei pressi di Pragelato. Avrebbe dovuto presentare ai lettori anche una breve ma completa storia dello sfruttamento minerario della valle, per poi concludere l’approfondimento con un’intervista ad uno dei fortunati sopravvissuti.
L’articolo doveva essere strutturato in maniera tale da incuriosire il lettore che, per saziare la sua sete di conoscenza, avrebbe potuto effettuare una visita guidata proprio sul luogo della disgrazia.
Era già mercoledì e l’articolo sarebbe dovuto essere pronto per venerdì pomeriggio: Alice si era ripromessa di recarsi già l’indomani mattina a Pragelato per fare la sua intervista.

Alice terminò la lettura delle fotocopie: ora aveva ben chiaro tutto quello che era accaduto sul monte Beth.
Arrivata a casa, dopo una doccia rinfrescante, si immerse nuovamente nel suo lavoro, per redigere la prima parte del suo articolo. I riccioli biondi le ricadevano bagnati sulle spalle, sgocciolando di tanto in tanto sui fogli degli appunti.
Intorno alle nove, dopo aver consumato una fugace cena a base di pizza mentre scriveva al computer, Alice aveva completato la seconda stesura della prima parte dell’articolo: quella definitiva. Salvò per l’ultima volta il suo lavoro e lo rilesse ad alta voce con tono critico:
“Le prime ricerche di giacimenti minerari di rame nel territorio di Pragelato, risalgono alla seconda metà del Settecento. Per svariati motivi, anche di carattere economico, i tentativi di estrarre il metallo fallirono talvolta sul nascere e talvolta a lavori già avviati.
Intorno al 1800 la popolazione delle montagne piemontesi, soprattutto della Val Chisone e Val Germanasca fu costretta ad emigrare nella vicina Francia. La debole situazione economica basata su agricoltura e allevamento, migliorò notevolmente solo tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Portò fortuna l’apertura di diverse miniere dalle quali si estraevano il talco, la grafite e la calcopirite. Quest’ultima veniva estratta dalle miniere del Beth, un angusto dedalo di gallerie scavate nella roccia tra i 2300 e 2850 metri d’altitudine; a cavallo tra le Valli Troncea e Germanasca.
Le miniere divennero un’importante risorsa economica per la comunità locale richiamando manodopera anche dalle vallate vicine.
Il giacimento del Beth venne scoperto e sfruttato molto tardi rispetto agli altri giacimenti alpini, a causa dell’altitudine a cui si trovava e della natura del minerale stesso. Le sue caratteristiche chimiche ne permisero, infatti, l’estrazione solo grazie alle nuove tecnologie nate con la rivoluzione industriale.
Fu così che l’attività estrattiva diede i primi esiti positivi nel 1902: quando si incontrò il giacimento di pirite.
In quegli anni venne anche realizzata una Fonderia che, sfruttando l’acqua del vicino torrente Chisone, attivava una turbina idraulica e un generatore di corrente elettrica alternata. Ciò permetteva di separare i granelli di roccia dai minerali metalliferi. La linea elettrica correva dalla centrale fino alla cima del monte Beth dove si trovava la miniera.
Nello stesso periodo si costruì una teleferica che permetteva il trasporto del materiale direttamente dalla miniera alla fonderia. Si abbandonarono così i più rudimentali e meno efficienti sistemi di trasporto.
Gli anni tra il 1903 e il 1904 furono i più produttivi.
Si costruirono strade per migliorare i collegamenti tra la cima del Beth e le borgate della vallata, e aumentò considerevolmente il numero di addetti ai lavori.
Sembrava che la situazione si fosse finalmente stabilizzata ma, il 19 aprile del 1904, dopo giorni di nevicate ininterrotte, una valanga travolse la maggior parte dei minatori che si trovavano sulla cima.”.

Alice strizzò gli occhi, il computer le aveva fatto venire un gran mal di testa. Decise che la sua prima parte dell’approfondimento si sarebbe conclusa lì e da quel punto in poi avrebbe incominciato con l’intervista.
La terribile vicenda, narrata da qualcuno che l’avesse vissuta da vicino, avrebbe coinvolto di più i lettori. Alice, in cuor suo, sperava che l’approfondimento oltre ad avere lo scontato scopo informativo e pubblicitario, fosse una denuncia allo sfruttamento sconsiderato di risorse umane e naturali.
La valanga che aveva trascinato via tante vite sembrava un monito della natura al rispetto degli altri esseri umani e della natura stessa.
La ragazza si stiracchiò sulla sedia, e dopo aver fatto un lungo sbadiglio decise di salvare il suo articolo e spegnere il computer.
Doveva andare a letto presto se voleva essere a Pragelato l’indomani mattina alle otto!
Nel pomeriggio, infatti, si era data da fare per organizzare l’intervista: dopo svariate telefonate era riuscita a contattare il signor F. L’arzillo vecchietto doveva avere circa novant’anni e all’epoca dei fatti era poco più che bambino ma lavorava già nella miniera.
Alice era impaziente di ascoltare la storia che aveva da raccontarle.

La mattina dopo, alle nove era già a Pragelato. Avrebbe dovuto incontrare il figlio del signor F. davanti alla chiesetta che lì l’avrebbe accompagnata alle miniere, percorrendo uno dei tanti sentieri che si inerpicavano sulle montagne. In realtà Alice avrebbe voluto visitare le gallerie, ma per motivi di sicurezza, non erano aperte al pubblico.
Arrivata alla chiesetta, un signore sulla sessantina, alto e robusto, la attendeva con pantaloncini corti e scarponi da montagna. Aveva un grande cappello e sorrideva gioviale alla giovane ragazzina che secondo i suoi calcoli non poteva avere più di vent’anni. Si presentò come Aldo. Alice sorridendo strinse quella mano possente e chiacchierando con la sua guida salì nell’automobile che li avrebbe portati fino al parco della Val Troncea. Da lì avrebbero preso il sentiero che li avrebbe condotti alle miniere.
Durante il tragitto in macchina, Alice ascoltava con attenzione quello che Aldo le raccontava con il suo marcato accento piemontese. Di tanto in tanto prendeva appunti.
«Eccoci arrivati signorina Alice» esortò l’uomo parcheggiando in un piazzale sterrato.
«Da qui in poi continueremo a piedi!».
Alice gli sorrise, adorava le camminate in montagna!
Imboccarono una mulattiera nascosta dai cespugli e percorsero un sentiero immerso nei boschi. Tra larici e abeti inerpicandosi un po’, raggiunsero Laval, luogo in cui si trovano una chiesetta e il cimitero dei minatori.
Aldo continuava a parlare e Alice ascoltava attentamente. Proseguirono fino alla borgata Troncea da dove, imboccando un sentiero immerso nel bosco, giunsero prima ai Forni di San Martino e poi al vallone del Beth. Intorno a loro c’erano solo i pendii spogli delle montagne e i resti dell’antica attività mineraria.
Alice immaginò una grande massa di neve bianca staccarsi dal monte che aveva di fronte. Rabbrividì, scrollando la testa e le spalle come se volesse liberarsi da quell’immagine spaventosa e da quel senso di fragilità che si era impossessato di lei. Aldo intanto continuava a darle indicazioni, era davvero efficiente come guida, ma Alice era ripiombata nei suoi pensieri.
Intorno alle undici tornando a valle attraverso il sentiero, Alice scorse i resti della fonderia. Una costruzione grigia e semi-distrutta proprio sulle rive del fiume Chisone.
Pochi minuti dopo raggiunsero la macchina e tornarono in paese.
Alice era stata invitata a pranzo a casa di Aldo e della moglie, riuscì così ad iniziare l’intervista al signor F. non prima delle due del pomeriggio. Un po’ tardi rispetto ai suoi calcoli.
Il signor F. non deluse le sue aspettative: arzillo e ancora perfettamente autosufficiente con due occhi grigi, vispi, che sembravano voler leggere nel profondo dell’anima di chiunque avesse di fronte. Non era tanto alto, la schiena si era leggermente incurvata sotto il peso degli anni, ma l’uomo camminava ancora con le sue gambe e solo di tanto in tanto, per salire le scale, si faceva aiutare dal figlio o dalla nuora.
Ben presto Alice si accorse di quanto fosse affabile e chiacchierone. Non servirono molte domande per dare il via all’intervista, anzi! Il vecchietto, dopo aver scrutato a fondo Alice con i suoi occhi grigi, le disse: “E Lei, bambina cara, sarebbe la giornalista a cui dovrei raccontare quel brutto fattaccio, eh? Bene, bene! Erano anni che attendevo qualcuno a cui poter dire tutto! Qualcuno che potesse farlo sapere al mondo, qualcuno che rendesse giustizia a quei poveri uomini colpevoli solo di essere nati poveri in questa valle!”.
Alice annuì. Aveva già cominciato a scrivere febbrilmente.
«Mi faccia fare bella figura, eh, bambina cara!» le sorrise il vecchietto strizzando l’occhio.
Alice annuì sorridendo. Aveva deciso di lasciare che l’allegro signore parlasse a ruota libera: sembrava avesse molto da dire. In qualche modo voleva urlare la sua rabbia al mondo e lei era tutta intenzionata a lasciarlo fare.
Al massimo, anziché essere un’intervista, sarebbe stato un racconto in prima persona, la storia di una vita. Probabilmente visti i suoi toni, avrebbe fatto persino più effetto sul pubblico e avrebbe così raggiunto meglio lo scopo a cui Alice voleva arrivare: una denuncia contro qualsiasi tipo di sfruttamento.
In ogni caso, a quello ci avrebbe pensato dopo, anche perché avrebbe dovuto consultare il suo capo. Ora doveva solo scrivere tutto quello che l’anziano signore diceva ed eventualmente fare domande se avesse omesso qualche particolare importante.
«Come sicuramente saprai, quindi non mi dilungo a spiegarti queste cose, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, questa valle fu al centro di un’intensa attività mineraria che portò parecchio lavoro a chi abitava qui. La maggior parte di noi lavorava nella miniera sulla cima del monte Beth, la miniera era stata scavata in un territorio assai impervio, molto esposto al rischio di valanghe. Noi minatori eravamo costretti a lavorare anche 12 ore al giorno in condizioni estreme, soprattutto d’inverno, esposti al gelo e al rischio di valanghe.
Nei pressi delle miniere, sui pendii del monte Beth e nei villaggi sottostanti, sorsero osterie e casupole per ospitare i minatori. Avevamo il permesso di scendere a valle solo nei fine settimana.
Io ero ancora un ragazzino, abitavo qui a Pragelato solo con mio padre, mia madre morì giovane a seguito di una lunga malattia, appena divenni grande e forte abbastanza mio padre mi portò con lui a lavorare nelle miniere. Non avevo ancora 10 anni.
Il lavoro nelle miniere credo sia stata l’esperienza più brutta della mia vita. Con picconi e mazze passavamo le intere giornate rintanati come talpe sottoterra, mancava l’aria, e quando si riusciva a respirare, ci riempiva i polmoni di polvere. Certo, capitava che qualcuno si sentisse male, era all’ordine del giorno ed io mi ricordo ancora quanto spesso mi girasse la testa!
Eppure bisognava andare avanti, scavare sempre di più all’interno della montagna. Ed evidentemente, questo alla montagna faceva male, perché furono molte le vite che si prese in cambio delle nostre picconate e delle nostre scariche di dinamite.
Solo qualche anno più tardi fu introdotto un sistema di ventilazione, così anche nel cuore della montagna diventò più semplice respirare, ma le nostre condizioni al di fuori dell’orario di lavoro erano pessime.
Eravamo ricoverati in grandi baracche buie che trasudavano umidità dalle pareti. Sembravano prigioni.
D’inverno, nonostante il freddo, si doveva continuare a lavorare e capitava che qualche compagno morisse assiderato.
Ma poi arrivò la valanga, la natura con la sua furia aveva deciso di porre fine a quel selvaggio sfruttamento di risorse umane e naturali.
Era stato un inverno particolarmente freddo, le condizioni al Beth erano preoccupanti, nevicava da giorni ininterrottamente e il pericolo di eventuali slavine diventava ogni giorno più reale. Decisero così di dividerci in squadre per scendere a valle.
Mio padre e qualche altro suo compagno, conoscendo bene i monti sui quali erano cresciuti, si opposero alla scelta di scendere a valle. Proposero invece di rifugiarsi nelle miniere, portandosi dietro gli attrezzi da lavoro in maniera tale da poter uscire dal rifugio una volta che il pericolo fosse cessato. Ma le loro proteste vennero messe a tacere e la loro proposta non fu neanche presa in considerazione. Fu così che ci divisero in squadre.
La prima squadra abbandonò velocemente le baracche ma i minatori anziché correre in salvo a valle, corsero in braccio alla morte. Un rombo di tuono scosse la montagna e una massa enorme di neve si riversò dalle cime del monte Ghinivert sui minatori che cercavano di scendere.
Tra questi c’era anche mio padre.
Dalla finestra della baracca vidi solo un’enorme nuvola bianca che si riversava con furia sopra qualunque cosa capitasse sulla sua strada.
Anche la seconda squadra, che attendeva fuori dalla baracca pronta per partire, fu investita dall’enorme massa bianca. Alcuni vennero trascinati via dalla furia della valanga, altri più fortunati riuscirono a salvarsi.
Io mi trovavo con alcuni compagni ancora all’interno della baracca completamente sommersa dalla neve, che in alcuni punti aveva sfondato anche i muri!
Il soffitto scricchiolava orribilmente sopra le nostre teste. Preso dall’angoscia di morire sepolto e trascinato da un gruppo di compagni, cominciai a scavare un buco nella neve: un po’ a mani nude e un po’ con gli attrezzi del lavoro. Dopo ore e ore di lavoro, nel cunicolo bianco avvistammo la luce. Era pazzesco: scavando nel cuore della montagna la maggior parte di noi aveva trovato la morte ma, scavando nella neve qualcuno aveva ritrovato la vita.
Io ero tra i fortunati che avevano ritrovato la vita ma, il mio povero padre, l’unica persona importante che mi restasse al mondo, aveva trovato la morte.
Quando, una volta sbucato fuori dal cunicolo e vedendo l’immenso manto nevoso che si era riversato sulla valle, trassi questa amara conclusione, piansi per la rabbia, per la paura e per il dolore. Ero rimasto solo. Solo al mondo. Avrei preferito morire ma la montagna aveva deciso di lasciarmi in vita».

Con queste ultime parole e la voce leggermente incrinata, l’arzillo signore aveva concluso il suo racconto.
I suoi occhi grigi erano velati dalle lacrime. Alice rimase colpita dalla sua frase “la montagna aveva deciso di lasciarmi in vita”.
Forse aveva ragione lui: la montagna si era presa la propria vendetta… o forse no, forse aveva semplicemente posto fine ad un orribile sfruttamento di uomini e natura che altrimenti si sarebbe perpetrato nel tempo.

Elisa Crescenzo



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