Opere di

Eliana Petrizzi


Opera 2^ classificata – Sezione narrativa alla XV Edizione del Premio Letterario Città di Melegnano 2010


Qui e mai

Entro in casa con una di quelle occhiate che si lanciano per strada a qualcuno che ci rassomiglia. Guardandomi allo specchio, ho avuto la sensazione di essere qualcun altra; una persona entrata di soppiatto nella stanza col viso segnato dalle tracce di una devastazione anteriore.
Nel piatto del brodo, l’olio galleggia in dischi come galassie. Penso al mio nome che, a dirlo e ridirlo in mente, mi diventa sempre più estraneo. Mi capita lo stesso se cambio l’oggetto del mio pensiero. Mi accorgo così che non è esistito mai niente che io sia stata veramente in grado di riconoscere; ogni cosa è neutra come vorrei fosse a volte la vita: un treno lontano che si sente appena nella notte. Aspetto una parola senza senso, sola nell’onestà del suo splendore insignificante.
Stanotte ho sognato il Mondo; lungo una strada dove non passava nessuno, un grande topo era stato appeso diritto con le zampe tirate ai quattro lati. Mi sono fermata a guardarlo. La sua pancia, delicata come ogni parte del corpo non abituata alla difesa, mi ha detto: «Salvami! Accoglimi!». La sua faccia, con gli occhi zitti e il muso serrato, mi ha detto: «Sono già morto».
È domenica; giorno squartato come una carogna nella savana. Il silenzio mi dice che ogni cosa, nella sua essenza, è immutata e mutevole. Seduta sul marciapiede, ascolto l’aria che passa sugli alberi della collina. Saluto qualcuno ma non mi fermo con nessuno: parlare delle cose passate è inutile, parlare di quelle future è poco furbo perché poi, di solito, non capitano. Davanti all’orologio, stupore alla vista dell’ora migrante. Nulla sopravvive alla propria definizione. La nausea del noto mi tramortisce con bruschi affondi di non-senso. Mi sfinisco tra abitudini in fila come denti digrignati in una notte di guerra. L’indifferenza cresce, spessa come un’unghia, sempre più rozza. Delle cose buone so poco. Il cuore è un seme che non ha attecchito. Una paura strana scompagina ogni mia intenzione; paura della vita, del minuto prossimo come degli anni a venire; dolore di vene aperte, di unghie troppo corte. Ricorderò un giorno le mie ore migliori morte come aironi in una rete di confine. Non ho capito niente. Non ho imparato la regola della Natura in cui è ribadita senza equivoco la mia ignoranza. Non ho imparato il distacco con cui è bene legarsi alla vita: il mio desiderio non si impiglierebbe in niente ma crescerebbe al di là, privo di oggetto.
L’angoscia di non riuscire a fare tutto quello che devo non si placa neanche dinanzi alla quotidiana rivelazione di non avere niente da fare. I vestiti cadono dal corpo col fruscio di una gazza che passa sui pini. Mi stringo le mani sui fianchi: ho una vita stretta. Mi fa tenerezza e un po’ pena questa mia magrezza, questa pancia vuota da bambina che non è mai uscita, che non ha mai attraversato una strada.
Mi viene voglia di essere pietra, terreno, pianta sottoposta al cerchio del sole. Guardo le mie mani e non le riconosco. Capisco con chiarezza che la vita non esiste. Chiudo gli occhi e sento la forma dell’Universo. Ho nostalgia di una Storia che mi sorprende ogni giorno nel buio di appartenenze incerte. Presto le mani ad azioni risapute, mentre fuori gli uccelli passano silenziosi come le ore, come gli altri.
Dieci anni fa, mi ero convinta che qui, in questa breve regione di Mondo, non potevo più starci. Ovunque mi voltassi, mi vedevo schiacciata dalle strade a lungo percorse, dalle persone che incontravo, sempre le stesse, dai fatti a basso tasso di Storia che puntualmente non accadevano. Ero giovane e piena, più che di coraggio, di quell’impeto cieco che porta ad essere certi che altrove andrà meglio.
Volevo vivere a Milano, trovarmi un lavoro, fare un’altra vita. Ma ci sono rimasta solo quindici giorni. Alle otto di sera, in strada, non c’era più nessuno. Se chiedevo un’informazione a qualcuno, o non mi rispondeva o mi parlava di fretta fissando il marciapiedi come se non esistessi. Ad un appuntamento di lavoro, mi ero vestita come al solito con un lungo abito nero in pieno giorno. Pure, ero stata cortese con tutti, salutando e dando del Lei. Ma l’assistente si era arrabbiato: «Come ti sei conciata! Dove credi di stare, ad una festa? Qui c’è gente che lavora!». L’assistente; un ragazzone pugliese trapiantato al Nord, che si mangiava le unghie e che, mi aveva confessato, si vergognava un poco di sua madre perché quando saliva a trovarlo, viaggiava con una borsa piena di marmellate e teglie di pasta al forno che poi, appena arrivata, scartava fiera davanti a chiunque si trovasse in casa.
In cerca di un albergo a buon mercato, ero finita per un paio di notti a casa di una giovane di Avellino, che si era trasferita a Milano per lavoro ma che era finita in quel monolocale, alcolizzata persa, con i divani pieni di panni da lavare e nel lavandino i piatti con gli avanzi di cibo a marcire da giorni.
Così sono tornata a casa mia, nello stesso tempo vicina e lontana da molte cose.
Qui la mia vita sociale è prossima allo zero. Quando esco dal mio isolamento ricevo a volte piacevoli sorprese, altre solo delusioni. A me, in fondo, non piace frequentare gli altri; raramente mi sorprendono, il più delle volte mi annoiano.
Dieci anni non sono pochi ed io non sono più la stessa. Eppure, come accade nelle migliori famiglie in cui si convive per anni senza intendersi mai, io e il mio paese siamo oggi separati in casa. Ciascuno fa la propria vita, senza tante domande né curiosità. La mia inquietudine non ha niente a che fare con la residenza. I miei sono fossili anteriori, caverne che riguardano una più generale condizione dell’essere venuta alla luce. Di certo, se fossi rimasta a Milano non avrei mai incontrato la piccola piazza di S. Felice dove, appena posso, mi siedo per aprire lo sguardo. Qui, su una panchina quasi sempre vuota, davanti alla lapide in memoria dei caduti dell’ultima Guerra, si apre un campo verde. L’olmo al centro della piazza, in primavera, diventa la cattedrale di insetti e piccoli fiori. Qui, da un anno, i festoni rimasti appesi per la nomina del nuovo sacerdote applaudono nel vento col verso di un ragazzo che corre, di foglie secche che rotolano, di legni che bruciano, di palme che friniscono in riva al mare. Qui vengo a scrivere; resto ferma, solida come la sponda di un letto che raccoglie i colpi della vita. Vita che dormendo si rivolta, vita che azzanna quando il mio amore per le cose diventa troppo spesso amico dell’errore. Qui mi piace essere calma, fare le cose lentamente, spostarmi con cura, riporre gli oggetti come se fossero molto fragili, guardarli a lungo come se domani non saranno più miei. Dei fatti non mi preoccupo. Sono animali selvatici che si muovono non appena faccio finta di non vederli. Qui ho imparato che qualcosa di buono c’è sempre; nella polvere che vola, nelle file agli sportelli, nella minestra senza sale, nel pane senza lievito, nel freddo immacolato del dolore, nel sonno che non caglia, nel treno già passato.
Ieri è venuta a trovarmi a casa una signora che ha perso il figlio da undici anni. Non ce la fa a rialzarsi e, per distrarsi si è messa a dipingere. Viene ogni tanto a trovarmi per qualche consiglio sull’ultimo quadro, di solito il ritratto del figlio che non riesce mai a finire. Mentre mi ringraziava, la vedevo armeggiare faticosamente con le mani nella borsa e io non capivo cosa stesse facendo. Alla fine, vi ha cacciato un intero dolce, un pan di spagna con mele e pere, caldo, giallo come una luna piena, fatto apposta per me. Non una fetta ma un dolce intero, solo perché l’avevo ascoltata per qualche minuto. Ecco; sono questi piccoli episodi pieni di luce, vasti silenzi, la paura di non farcela a darmi la spinta per un salto ancora. Ogni volta che dipingo un nuovo quadro, che scrivo una pagina, mi dico: “Non chiuderti. Conserva sempre una mente curiosa ed aperta; un istinto affilato, la capacità di amare l’Esistenza con il suo prezioso carico di povertà, varietà e bellezza”.
Quando il salto arriva, anche in questo cratere spento, la scrittura va da sola come un vento portato dall’urgenza del suo racconto. Ho tempo. Ne ho molto in questo mio vivere nel poco, nel mio aspettare che arrivino prima o poi il momento buono, il posto giusto, nel mio cercare sempre quello che è già mio.
Torno a casa: non mi resta che l’amore, la sua impossibilità, la sua urgenza, la certezza di esistere che avrei se io ci fossi.

Eliana Petrizzi



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