Opere di

Eliana Bianchi


STORIA DI UN PASTORE

Due triangoli di luce nella stanza buia.
Nell’uno, piovuto sulla scrivania da una lampada in metallo, sta stretto un prete seduto, assorto sul proprio avambraccio e nell’atto di cercare parole da scrivere.
Nell’altro, a terra, allargato da una vecchia porta in legno scrostato, dura da aprire, i piedi di una donna, e una tazza di tisana calda.
Non fare tardi, che domani è domenica. – gli dice, prima di uscire.
L’interruzione offre a don Bruno, motivo per una pausa. La predica neanche stavolta nascerà facilmente, non lo libererà dal peso senza la solita immane fatica dello scrivere. Neanche questa stasera in cui sa già cosa vuole raccontare ai suoi parrocchiani.
Il cuoio delle scarpe batte secco sul pavimento in graniglia. La stanza è spoglia, senza nulla che somigli all’abbraccio caloroso del legno che lo accoglie in qualunque casa del paese. Il suo predecessore ne aveva caricato le pareti di libri, senza neppure pensare al conforto di una qualche poltrona sulla quale goderseli.
La poltrona gliel’hanno portata poi i suoi amici, la prima volta che sono venuti da Milano a vedere in che buco di montagna si era infilato il loro compagno di università, facoltà di ingegneria, quello che un giorno, senza preavviso, li aveva salutati con un abbraccio, ed era entrato in seminario.
Don Bruno le gira intorno, apre la porta, ed esce nella sera.
Sono più di dieci anni ormai, dei suoi quaranta, che è parroco a milleduecento metri sul livello del mare, e non si è ancora abituato al freddo già pungente dei primi di ottobre. Soffia un po’ di fiato per vederlo vaporizzare, e, stretto nelle braccia, cammina fino al limite del piazzale della chiesa, si affaccia al muro piantato nella costa della montagna.
La luna, nell’aria gelida, disegna la vallata con precisione tagliente.
Le luci nelle case sono ancora accese. Fari solitari attraversano il fianco sinistro in alto, verso frazioni isolate.
Sul pendio destro, vicino alla casa del Walter, parte il sentiero che porta alle malghe della contessa. E a un ricordo.

Walter, Walter! – Non so dove me ne stessi nascosto, forse a giocare con qualche lucertola, o a costruire dighe di sassi al ruscello. Ma incominciai a sentire la voce di mia madre che mi chiamava.
Corri, che sta per nascere il vitellino!
Appena capito che non eran girate, né lavori da fare, quel che mi aspettava, me ne son venuto giù a salti dalla scarpata e son corso verso la stalla.
Avevo forse sette o otto anni, e i miei avevano deciso che era il momento che imparassi come si viene al mondo.
Detto questo, Walter il pastore si girò verso il prete, ed entrambi ebbero, in cambio del proprio sguardo, rivolto un attimo prima sulla natura davanti a loro, fatta di rocce e prati d’alta quota e bestiame a pascolare, lo sguardo di un altro essere umano e la sua umana attenzione.
Man mano che mi avvicinavo – riprese a raccontare il Walter – mi arrivavano i muggiti lenti e bassi della vacca che partoriva.
Il lamento, che mi pareva quello di una persona, per poco non mi fece tornare indietro. Poi però pensai al racconto che avrei potuto fare agli amici, di quell’impresa, e mi feci coraggio. Coi più piccoli avrei potuto vantarmi. Coi più grandi, cercare di essere ammesso tra loro.
Quando entrai, vidi l’animale sdraiato. Mio padre e mio nonno avevano legato con una corda le zampe del vitellino che stava per uscire, l’avevano fissata a un bastone, e tiravano con forza. Ma con molta cura, anche. Poi lasciavano andare, secondo il ritmo delle contrazioni.
Avevano le facce sudate e preoccupate. Vedevo che con le mani si spingevano nella carne ad aiutare il vitellino ad uscire.
La madre si lamentava. La mia, di madre, allora, mi tirò vicino a sé.
Intorno, ferme, dietro i recinti bassi, tutte le altre vacche stavano a guardare.
L’ho vista tante volte poi questa scena, ma è solo di quella volta lì che ricordo tutti i particolari, tutti i suoni e gli odori.
Finalmente, con uno strappo più deciso mio padre trascinò fuori prima le zampe, poi la testa penzoloni e il resto del corpo del piccolo, che andò a finire sulla paglia messa sul pavimento apposta per lui.
Quando nasciamo siamo bagnati e fragili, piangiamo per esser stati sbalzati fuori da un corpo caldo che era tutto quello che avevamo, e stiamo lì, al freddo, ad aspettare che quel corpo torni ad occuparsi di noi.
Ma la madre non veniva . Non pareva proprio riuscire a muoversi.
Il lamento era continuo, come una nota lunga e bassa, che non finiva.
Vidi mio padre e il nonno farsi un cenno e prendere il vitellino per appoggiarlo davanti al muso della vacca. Lei si mise a leccarlo con le poche forze che aveva.
Mia madre mi portò via. E venni a sapere solo l’indomani che quelle forze erano le sue ultime.

Il Walter gli aveva raccontato questa storia in una delle tante giornate in cui Don Bruno era salito al suo alpeggio. Lo faceva spesso d’estate. Partiva dopo la messa del mattino, camminava per un paio d’ore, e poi trascorreva la giornata lassù, insieme al pastore. La sera, a volte si era anche fermato in malga con lui, a cenare con la stufa accesa anche in agosto, a dormire nel silenzio.
Avevano circa vent’anni di differenza, essendo il Walter più vecchio. Di simile avevano invece il gusto di misurare le parole, e di scegliere con una certa cura le persone a cui dispensare quelle più private.
Erano amici, e a don Bruno il Walter aveva raccontato molte cose della sua vita. Una, in particolare, era solo il prete a conoscerla.
Don Bruno rientrò in casa e alla sua scrivania. La predica aveva un inizio.
Aveva deciso raccontare la storia del Walter alla messa del giorno dopo. Non lo aveva fatto al funerale perché era troppa la commozione di tutti, quel giorno, non lo avrebbero ascoltato. Adesso però era venuto il momento.
Il Walter, lo conoscevano tutti in paese, magro, con la pelle scura e coriacea, la barba lunga e occhi neri come chiodi conficcati sotto le sopracciglia folte.
Era pastore da sempre, come suo padre e suo nonno.
A dodici anni aveva scelto quella vita condivisa momento per momento con le sue bestie.
Era stato di ritorno dal cimitero. Le due sorelle più grandi gli tenevano forte la mano. Stretti così, pareva a quei tre di opporre maggior resistenza al dolore.
Pori bambini – diceva la gente – perdere in pochi mesi sia il papà che la mamma l’è una disgrazia troppo grande.
Accanto al nonno camminava la zia che, a quanto ne sapeva il ragazzino, abitava in un paese molto più grande di quello, e senza montagne. Era la sorella della madre, ed aveva passato molto tempo con loro negli ultimi tempi, occupandosi dei ragazzi ed assistendo la malata.
Con dolcezza e sapendo di dargli un’altra notizia difficile da accettare, la zia gli aveva spiegato che avrebbe portato lui e le sue sorelle, a vivere con lei e la sua famiglia, in una casa con il riscaldamento e con la televisione.
Lui non disse nulla. Sparì. E per due giorni nessuno seppe niente di lui. Tranne forse il nonno che, lasciato passare il tempo necessario lo andò a riprendere all’alpe dove d’estate portavano gli animali, nella malga che una contessa, proprietaria di numerosi terreni da quelle parti, dava loro in gestione da sempre.
Così, senza neppure cominciare, finì l’avventura cittadina del Walter.
Il nonno decise di tenerlo con sé, e lui non si mosse quasi più da quelle montagne, fino a un marzo di quarant’anni più tardi.

Da un po’ di tempo non si sentiva bene. Si stancava facilmente. Nella stalla o al lavoro nel campo lo si trovava spesso seduto a recuperare le forze. Non gli era capitato mai.
E’ l’età. – gli urlava il Tobia, un ragazzo che aveva preso a lavorare con lui da qualche anno.
Provava a prenderlo in giro, ma cominciava a preoccuparsi, e ogni giorno gli cercava sulla faccia i segni di un miglioramento che non si manifestava.
Arrivavano i giorni della transumanza, e per il Walter diventava sempre più difficile immaginare di poter salire all’alpe in quelle condizioni. Fu solo questa necessità a convincerlo a rivolgersi al medico.

La sala d’attesa dell’ambulatorio comunale si era svuotata. Come gli aveva chiesto il dottore durante la visita, il Walter lo aspettava seduto nel buio, su una delle seggiole di legno colorato che la arredavano.
Il medico chiuse a chiave e lo accompagnò a casa a prendere il necessario.

Sull’auto del dottor Valenti verso l’ospedale, il pastore pensava alle sue mucche. Aveva lasciato a Tobia l’incarico di occuparsene, e sapeva di potersi fidare, ma non si era mai reso conto di quanto quel distacco potesse pesargli.
E’ solo per qualche giorno. – Gli diceva il medico. Solo per fare qualche esame. Non devi preoccuparti. Prima scopriamo che cos’hai e prima potremo curarti.
La diagnosi arrivò dopo sei giorni d’ospedale, quando un giovane camice bianco gli disse che soffriva di un’ insufficienza renale piuttosto seria. Dopo altri venti i giorni tornò a casa con una paura mai sofferta prima.
Don Bruno trascorse con lui molto del suo tempo in quei giorni di convalescenza, cercando di distrarlo, ma lui ci pensava continuamente.
Come faccio se mi toccherà entrare in dialisi. – ripeteva – Chi ci pensa alle mie bestie.

Il Tobia aveva avuto un buon maestro, e per quei mesi riuscì a gestire il bestiame. Con l’estate anche il Walter salì all’alpeggio e riprese il comando del suo piccolo popolo a quattro zampe.
In quell’anno il prete portò il gruppo dell’oratorio in gita alle malghe della contessa.
Il sentiero era ampio e ben tracciato. Si infilava nel bosco e attraversava una gola dalle rocce nere come il catrame. I campanacci delle mucche e l’acqua che scendeva ad ogni avallamento dei pendii, accoglievano l’arrivo nell’ampio catino verde dell’alpe che, da tutta la vita, era per il Walter, una casa.
L’allegria chiassosa e colorata aveva sconvolto la tranquillità della montagna. Solo a sera il silenzio si era ripreso gli spazi fin dentro la malga, dove i due pastori, sfiniti, spegnevano la luce.

Anche Don Bruno, rientrato a valle, si addormentava stanco quella sera. Aveva sempre amato circondarsi di persone. Ma ora scopriva di essere in pace con sé anche da solo, soprattutto quando si trovava tra quelle cime.
Così era anche il Walter. Capace di stare con gli altri, ma anche in grado di isolarsi per giorni, nel cuore della montagna, senza vedere altro, di umano, che i propri piedi.
Perchè non ti sei mai sposato? – gli chiedeva il prete, con gli occhi sulla mandria che pascolava.
E tu perché non ti sei mai sposato, don Bruno? – gli rispondeva, serafico, lui.

Tre anni dopo entrò in dialisi.

La stanza ha dieci letti, sei sul lato in cui mi trovo io e quattro sul lato di fronte. La prima volta che ho visto quei letti-bilancia con il quadrante sulla testata, ho pensato che avrei voluto portarmene uno in stalla, che mi sarebbe stato utile per pesare il bestiame.
Ogni letto ha sei sbarre di alluminio nella testata e sei ai piedi. Le prime notti sognavo la mia faccia dietro quelle sbarre. Ogni cuscino, dietro le nostre teste, ha tre nastri a chiuderlo. Ogni pigiama ha più o meno 5 bottoni. Altro non ho da contare, se non il tempo che non passa mai da queste parti.
In mezzo ai quattro letti di fronte a me si trova una scrivania, sulla quale vedo un computer, una stampante, un telefono, oltre a fogli sparsi, un fascicolatore e un portapenne colorato.
L’infermiera seduta si chiama Rosanna. Ha un camice azzurro e capelli del colore della bacche di sambuco acerbe. La stessa tinta la porta sulle labbra, che tiene leggermente aperte, mentre da sopra gli occhiali concentra gli occhi piccoli sullo schermo del computer.
Nello scaffale a fianco della scrivania alcune fiale di vetro, pacchetti di siringhe e di guanti in lattice. Sull’ultimo ripiano in basso, la macchia gialle e rossa dei secchielli per i rifiuti sanitari.
Le pareti sono colorate in bianco e azzurro, come azzurri sono i pavimenti e i macchinari messi a fianco di ogni letto, sembrano le pompe dell’agip, ma più carichi di tubi e pulsanti.
Piero, il mio vicino di letto, sta guardando unomattina, su un piccolo televisore che gli lasciano tenere in reparto.
Altri leggono, o chiacchierano tra loro.
Mi hai detto “scrivi, se non sai cosa fare”, ma ora un crampo mi blocca il braccio.

Da una giornata di dialisi qualunque. Al mio amico don Bruno.
Walter B.

Fuori dai vetri della casa parrocchiale il giorno manda i suoi primi segnali, e sul prete lo stesso sollievo di ogni santa volta in cui ha visto il buio finire.
Tra poche ore, al termine del vangelo, i suoi parrocchiani si siederanno all’unisono su panche troppo dure, le mani in grembo, ad aspettare la predica. Don Bruno prenderà un respiro, lascerà sfumare i colpi di tosse sul fondo della chiesa, e racconterà.

Eravamo seduti sul muretto in pietra, fuori dalla sua cascina. Pochi mesi prima.
Il Walter non mi guardava in faccia.
Ci sarebbe un donatore – mi aveva detto.
Un donatore per il trapianto? E’ una notizia bellissima, Walter. Finalmente. Quando ti vengono a prendere? Stanno arrivando?
Non vengono.
Non vengono?
Continuava a non guardarmi, batteva con un bastoncino di legno sull’erba. Ci mise un po’ a parlare. Poi mi disse esattamente queste parole.
Ho sessant’anni, don. Non ho famiglia, non ho figli. Sono solo. Non c’è nessuno che dipenda da me, dalla mia vita.
Ma cosa dici, Walter?
Don, ho perso i miei genitori quando ancora avevo bisogno di loro. Quel rene deve prenderlo un papà o una mamma. Qualcuno che ha dei figli, e ha più diritto di me a vivere.
Non avrebbe voluto raccontarlo a nessuno, il Walter, ma aveva avuto bisogno di condividere quella scelta, che per lui era giusta, e non discutibile, ma troppo pesante da portare da solo.
E’ anche un tuo diritto, Walter – la tua vita non vale meno di quella degli altri. E se Dio ha scelto di dare a te questa possibilità, devi coglierla.
Ci ho pensato, don, ma poi di colpo ho sentito che dovevo fare così. Non credo che sia la mia vita che vale. E neanche quella di un altro. E’ la vita e basta. E’ qualcosa di superiore a noi, te ne accorgi a volte, quando scendi da una montagna al tramonto, o nei primi giorni di primavera, quando l’aria comincia a scaldarsi. Allora la vita in sé, la sola sensazione di esserne parte è così forte da farti venire il magone.
Tra queste montagne ho visto nascere e morire tante volte. Le persone più care, i miei animali, persino per la morte di una pianta a volte ho sofferto. Ma mi sono fatto l’idea che la vita non è nostra. Lo so, lo dite anche voi preti, ma io lo intendo in un modo diverso. Io penso che la vita ci attraversi. Esiste per mezzo di noi, ha bisogno di noi per continuare, ma poi passa oltre. Io ho fatto il mio pezzo, ora tocca a qualcun altro andare avanti.
Ma tu sei importante per me, sei mio amico. Sei importante per le tua sorelle. E per molte persone qui in paese che ti vogliono bene. Non puoi rinunciare al trapianto. Non puoi decidere di lasciarti morire.
Ho già rinunciato, amico mio. – e aveva alzato lo sguardo verso di me, con un lieve sorriso.
Ma almeno ora so che su una cosa mi sbagliavo.
So che non sono solo.

Questa storia è liberamente ispirata alla storia di Walter Bevilacqua, pastore.


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