Elga  Pellegrini - Tecla
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 160 - Euro 14,00
ISBN 9791259511614

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In copertina: illustrazioni di Chiara Nencioni


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’opera è Segnalata nel concorso letterario Jacques Prévert 2022


Motivazione della segnalazione

«Nel testo di Elga Pellegrini emerge chiaramente l’amore della protagonista Tecla per i bambini e, anche dopo l’abbandono della scuola, i bambini continueranno a far parte della sua vita e ad assumere un ruolo totalizzante.
Durante il processo narrativo le vicende che si susseguono diventano espressione fedele delle intenzioni narrative dell’Autrice e si sottolinea come le molteplici manifestazioni dell’esistere contengano sempre uno spiraglio luminoso, fino alla decretazione che tutta la vita di Tecla è stata una continua tensione/propensione per cercare di restituire l’infanzia “alla propria sorgente”.
Ecco allora che l’insegnamento ad accettare gli errori e trasformarli in positivo diventa un affascinante percorso per acquisire la piena “consapevolezza del vivere”».

Massimo Barile
presidente del premio letterario
«Jacques Prévert» 2022 sez. narrativa


Tecla


A Lisi e Bianca, per il loro essere arcobaleno.

A tutti i bambini che ci circondano e siamo stati,
anime coraggiose.


Motivazione della segnalazione*

«Nel testo di Elga Pellegrini emerge chiaramente l’amore della protagonista Tecla per i bambini e, anche dopo l’abbandono della scuola, i bambini continueranno a far parte della sua vita e ad assumere un ruolo totalizzante.
Durante il processo narrativo le vicende che si susseguono diventano espressione fedele delle intenzioni narrative dell’Autrice e si sottolinea come le molteplici manifestazioni dell’esistere contengano sempre uno spiraglio luminoso, fino alla decretazione che tutta la vita di Tecla è stata una continua tensione/propensione per cercare di restituire l’infanzia “alla propria sorgente”.
Ecco allora che l’insegnamento ad accettare gli errori e trasformarli in positivo diventa un affascinante percorso per acquisire la piena “consapevolezza del vivere”».

Massimo Barile
presidente del premio letterario
«Jacques Prévert» 2022 sez. narrativa


Prologo

Tecla. Il suo nome sembrava il rumore del legno quando si spezza e non le rendeva giustizia, poiché lei era quanto di più flessibile e continuamente mutante si possa immaginare. Un suo gesto appariva, come per magia, da quello precedente. E una parola a termine di una frase cambiava completamente il senso del discorso fatto sino ad allora. I finali a sorpresa erano la sua specialità e qualsiasi bambino, grande o piccolo che fosse, la adorava per questo.

Ma era la semplicità con cui viveva che la distingueva da tutti gli altri. Abitava in una casa, fatta di assi di legno, nel bosco. Una stufa, poche suppellettili dentro e due tende a quadretti bianchi e rossi a riservarne l’intimità.

Accanto a lei ogni cosa rallentava e potevi ascoltare il profondo respiro di ogni singola forma di vita. Le sue storie spiegavano quanto la sua presenza mostrava. E sono nella memoria di coloro che l’hanno conosciuta, impronte in cui è possibile rintracciare la purezza della propria infanzia. La bellezza. La spontaneità. La leggerezza. La libertà. L’assoluta mancanza del ricatto del tempo.

Tecla, l’anziana del bosco, non domandava niente e sembrava avere una risposta per tutto. Almeno per noi, che inventavamo sempre un pretesto per addentrarci nella natura e raggiungerla.
In primavera l’aria mite scaldava il cammino, rendendo la strada per casa sua un invito aperto. A volte lo percorrevamo cantando, ma tornavamo quasi sempre in silenzio, completamente assorti da quanto lei ci aveva raccontato o mostrato.

Fu in una mattina di maggio che scoprimmo il suo segreto. Esso cambiò il corso delle nostre vite. O, meglio sarebbe dire, indicò quale fosse la direzione da intraprendere per ciascuno di noi. L’unica possibile in cui essere se stessi. Perché Tecla sapeva, davvero sapeva, come un essere umano può dispiegare le proprie ali, realizzando nella vita il comandamento dell’anima.


Quanto distante si può vivere
dal proprio cuore?

Tutti i chilometri che si sono fatti per
allontanarsi dal dolore provato.


Tecla

Quando ero bambina a scuola mi piaceva ascoltare le storie, adoravo disegnare, mi incuriosivano le posizioni dei luoghi nel mondo, le usanze delle persone che ci vivevano. Il resto delle materie le studiavo senza partecipazione né difficoltà, ma la matematica restava per me un muro insormontabile.

Non riuscivo a concepire questa materia perché mostrava tutto come diviso in parti che poi addizionava, moltiplicava o sottraeva a suo piacimento. Per me la vita era una e mi stupivo di come la maestra ci costringesse a sezionarla in operazioni, tabelline e frazioni. Che senso aveva distinguere porzioni a due cifre quando il tempo scorreva tra un avvenimento e l’altro e qualsiasi cosa non era, secondo la mia percezione, scindibile dall’insieme in cui si trovava? Alla lavagna rimanevo in silenzio, sgranando gli occhi per tentare di comprendere cosa mi veniva chiesto, senza riuscirci. I miei compagni ridevano e, quando lo scoraggiamento per l’insegnante divenne insopportabile, fu deciso che avevo una qualche forma di ritardo nell’apprendimento e non mi furono più richiesti calcoli.

Da allora intesi che, alla maggior parte degli adulti, il mondo era invisibile. Che pensavano di guardarlo e farne parte mentre, in realtà, erano solo protagonisti di storie che si raccontavano a vicenda. E imparai che io stessa non ero compresa. Almeno non dagli adulti che mi circondavano. Ero testimone di un calore che attraversava ogni singolo istante di una giornata, ma la felicità che provavo nel lasciarmi scaldare non potevo condividerla. Anche i miei compagni, crescendo, si persero nel voler imparare le regole del mondo per poterlo padroneggiare, perdendone la ricchezza infinita e impalpabile.

Non sapevo perché vedevo le cose in maniera diversa. Come puoi metterti alla guida di qualcosa che ti conduce? Un soffio di vento non muove il cielo. Ero fatta così e non potevo che arrendermi alla mia stessa natura, affrontando tutti i distacchi e le derisioni che ne conseguirono, senza per altro soffrirne più di tanto. Mi rimanevano la pace e la gioia intatta ad ogni risveglio. La sorpresa, il divertimento e la fiducia. Incondizionata. La vita aveva cura di me. Così come il sole sorgeva e la luna baciava il mio sonno.


Bobo

Scendere e assumere una forma è doloroso. Insopportabile.
Si è parte di un unico, indistinto, luminoso insieme. Al suo interno si sta solo bene. Ci si sente accolti, amati. Perfetti. Diventare materia comporta assumere forme differenti tra di loro, allontanandosi da una completezza ampia come l’infinito. Moltiplicate questo sforzo per ogni singola cellula di cui siamo composti e comprenderete perché i bambini appena nati possono solo piangere.
Eppure, come la luce che diventa colori dell’arcobaleno, il risultato è semplicemente stupefacente e bellissimo.


Tecla

Da ragazzina avevo cercato, in ogni modo, di uniformarmi ai miei coetanei. Vestendo le stesse magliette sbiadite e troppo corte. Parlando di cose superficiali. Truccandomi. Avevo anche provato a fumare, ma niente aveva il sapore di quel silenzio carico di pace che portavo in me, come fossi una teca vivente. Nessuno mi accettava, serena e ottimista come ero. Il sole che rappresentavo mi rendeva impopolare. Soffrivo per questo. Quando cresci è duro portare la solitudine. Però l’alternativa era fingere e io non ero capace.

A scuola i miei compagni si divertivano a chiamarmi Ritardaria, incrocio letterale tra ritardata e ritardataria. Ero sempre l’ultima a partecipare ai giochi, ad uscire dall’aula, dopo aver recuperato i miei oggetti. Spesso non arrivavo a prendere le merende offerte dalle mamme per i compleanni, perché non ero abbastanza svelta ad oltrepassare le mani tese per afferrare fette di torta e vi erano bambini che mangiavano doppia porzione, prima che riuscissi a raggiungere la mia parte. Ma ogni tentativo di essere più veloce, al pari degli altri, falliva e mi irritava.

Un giorno la maestra affrontò la questione, facendo fare a tutti i bambini un tema sulla questione del ritmo. Ci fece riflettere su chi o cosa fosse veloce e chi o cosa no. L’intera classe comprese che una cascata è tale perché l’acqua scorre rapida ed un bambino nato prima dei nove mesi di gestazione non trae alcun vantaggio da un parto prematuro. In un’ora di tema fu introdotto nel gruppo il concetto di relatività. Con pragmatismo venne restituita alla lentezza in natura la sua dignità. Io, contenta di sapere che anche la scienza era dalla mia parte, ripresi il mio normale andamento, senza più curarmi di quello che alcuni insistevano a dire di me.

Vi era una continuità che per me era evidente. Come quando cantavo un ritornello e le parole perdevano di significato e rimanevano i suoni e il solletico che mi facevano in bocca. In fondo tutto era semplice dimostrazione di vita. Ogni istante della giornata, qualsiasi cosa facessi o mi accadesse. Provavo gioia e questo mi rendeva differente dai miei coetanei quanto più crescevo, sino a quando il divario divenne un baratro che stabilì la nostra distanza. Ero diversa e non avevo saputo andare avanti. Nessuno di noi pensò che forse erano i miei compagni a non saper tornare indietro. Ad una origine che non contempla differenze e non si preoccupa dei dettagli. I miei amici divennero i bambini più piccoli ed essi rimasero, sino a quando non feci della mia particolarità un mestiere, diplomandomi come maestra e lavorando nella scuola materna.


Bobo

I miei genitori lavorano tanto. Forse troppo. Per certo parte della loro organizzazione comprende me. Con chi devo stare quando non sono a scuola ed entrambi sono ancora impegnati. È da quando sono nato che passo da una babysitter all’altra. Da uno sport a un laboratorio manuale, da un dopo scuola a una cena a casa degli amici, quando le loro mamme mi invitano. Il problema non è spostarmi da uno spazio all’altro e rientrare tardi, come credono i miei, ma l’impressione di essere di troppo. Di fare qualcosa che potrei evitare. Di non essere nel posto giusto, dentro la mia famiglia. Insomma la parte difficile è convivere con la sensazione che i miei genitori, senza di me, starebbero molto, molto ma molto meglio e la cosa peggiora se ricevo un brutto voto, rompo qualcosa senza volerlo o mi faccio male e mia madre mi deve curare. In quei casi ho l’assoluta certezza di essere difettoso e senza speranza. Di non andare bene e mi arrabbio. Con me stesso. Dico parolacce e la mia mamma inizia a rifarsela contro mio padre, accusandolo di non essere mai presente.

Da piccolo mi domandavo se anche per i miei genitori era insopportabile rimanere in una realtà che ci vuole diversi da come siamo veramente e non ci accetta. E se ricordavano da dove proveniamo tutti. Allora immaginavo di organizzare le nostre vacanze proprio là, con un biglietto di sola andata.

[continua]


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