Villa Arancia - Una storia siciliana

di

Domenico Livoti


Domenico Livoti - Villa Arancia - Una storia siciliana
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
15x21 - pp. 198 - Euro 13,50
ISBN 978-88-6037-9245

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In copertina: «Villa Arancia» fotografia di Domenico Livoti


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori in quanto l’autore è 1° classificato nel concorso letterario La Montagna Valle Spluga 2009 Sezione Poesia


La Sicilia è una terra arcaica, non conosce la democrazia, considerata una debolezza dentro la quale il cancro della prevaricazione canta la sua vittoria.
La Sicilia è una terra tribale, quindi ha bisogno di capi che sappiano anche combattere, che siano i “migliori”, gli “aristoi” in tutti i sensi.
La Sicilia è una terra nobile che ha bisogno anche della saggezza dei suoi anziani.
La Sicilia è una terra di pensiero e non vuole che i suoi uomini migliori vadano via in cerca di fortuna per il mondo.
La Sicilia è una terra d’arte dove è bello riposare quando l’occhio alfine si chiude sullo spettacolo di questo mondo.

Anonimo


Villa Arancia - Una storia siciliana

La mafia è un modo d’essere
della condizione umana.
Per questo, come l’uomo,
non è eterna!”


PREMESSA

Villa Arancia esiste.
Adagiata mollemente e nobilmente su un colle a due passi dal mare.
Villa Arancia è una villa borbonica, emblema e metafora della Sicilia, terra antica e aristocratica, spogliata e violentata in tutte le epoche da predatori senza scrupoli.
I personaggi sono di pura invenzione, ma la Sicilia avrebbe bisogno di personaggi così, affinché potesse splendere senza pudori e senza paure sotto il sole mediterraneo.
Il libro vuole essere un omaggio a una terra che non si merita quello che vi succede oggi.
Questa è una storia cruda degli anni Ottanta, d’altronde dove vivono uomini che vogliono cambiare il mondo imponendo il loro “codice d’onore” non ci possono essere storie dolci e gentili.
L’unica cosa da fare, allora, è lottare!
Solo la lotta può rendere liberi gli uomini!


A Luciana, mia moglie,
e ad Anna, Francesca e Alfonso,
miei figli


I

La stradina s’inerpicava verso la cima della collina, dapprima con strette volute, per poi distendersi in ampie e godibili curve.
I margini cominciavano a essere protetti dagli enormi ombrelli dei pini marittimi, che incanalavano e guidavano la macchina verso la meta.
L’uomo, al volante di una jeep, si rilassò.
La sua mente fervida colse una somiglianza tra la sua vita e quella stradina di campagna.
La linea della sua esistenza, come egli la chiamava, si era snodata con strette e improvvise variazioni di direzione.
Non si poteva certo paragonare a un’autostrada.
Se avesse tracciato un grafico con tanto di ascissa e ordinata ne sarebbe venuta fuori una catena di montagne da fare invidia persino alle Alpi.
Ardentemente sperava, in questa sua intuizione filosofica, che adesso la sua vita prendesse respiro, si librasse finalmente sulle paludi infide, si riposasse, se non sul nido dell’aquila, almeno su una collina da dove senza difficoltà si potesse intravedere il mare.
Poi un piccolo parco comparve, dove troneggiavano palme possenti, allori inverosimili, presuntuosi oleandri, e tanti altri alberi esotici di cui non ricordava il nome, anche se era sicuro di averli visti ed ammirati nei suoi viaggi intorno al mondo.
Era un piccolo giardino botanico, cui mancava però il senso geometrico.
Le piante si alzavano e spingevano i loro rami verso il cielo in una gara che non finiva mai, mentre le siepi giocavano a rincorrersi e i fiori nelle aiole si cercavano allo scopo di creare un effetto o un nuovo arcobaleno di colori.
Il colonnello Noli fermò la jeep e contemplò quell’angolo di paradiso.
Il suo sguardo corse poi oltre la curva, che la stradina formava in mezzo al parco, e cercò di immaginare cosa mai potesse elevarsi al di là di quel verde schermo.
Rimandò ad altro tempo l’esplorazione completa del giardino e affrontò la curva.
Rimase senza fiato.
In mezzo a un ampio cortile s’innalzava una grande villa baronale dell’ottocento.
Non si aspettava una tale imponenza.
Si sentì improvvisamente troppo piccolo, ma soprattutto troppo solo.
Quella villa dalla tipica architettura borbonica doveva essere abitata da una numerosa famiglia con un’intera schiera di servitori.
Il cortile doveva risuonare di mille grida.
Invece un silenzio innaturale ammantava la pretenziosa villa e un riserbo secolare la rendeva impenetrabile.
Il colonnello mentalmente si chiese se mai sarebbe riuscito a scalfirne l’altezzosità, magari anche solo in un angolo di essa.
– Buongiorno, colonnello! Benvenuto a Villa Arancia! –
Una larga faccia sorridente gli si fece incontro.
– Sono il soprastante della tenuta. Mi chiamo Francesco Lo Presti. A sua completa disposizione! –
Il colonnello provò un’immediata simpatia per quell’uomo alto, gioviale, simpatico, che lo squadrava da cima a fondo, quasi volesse cercare di indovinare i suoi pensieri.
– Non si sforzi di inquadrarmi a prima vista, Lo Presti! – gli disse il colonnello stringendogli la mano e costatando la forza di quella stretta.
– Impareremo a conoscerci e ad apprezzarci, forse, poco alla volta. Le dico subito che i miei genitori erano siciliani, anche se io sono vissuto in altri posti. Così si toglie la prima curiosità, eh! –


II

Quando il colonnello si affacciò alla grande finestra del piccolo appartamento ricavato nell’ala destra della villa, provò la stessa sensazione di altri uomini. Ormai sepolti da tempo, che avevano vissuto su quella collina.
Uomini imponenti, severi, imperiosi, duri, ma fondamentalmente amanti della terra e del loro paese.
Baroni che avevano fatto piangere intere generazioni, ma che forse avevano anche contribuito a rendere verdi e prosperose le vallate che si estendevano a perdita d’occhio davanti alla collina e giù giù fino al mare.
Era una sensazione di pienezza, di sintonia con l’ambiente, di pace con se stessi, con le persone e con le cose, e in fondo anche di un vago senso di onnipotenza, di custodia e di esecuzione dei propri destini al di sopra delle leggi e degli uomini.
Era quella padronanza assoluta della terra, che aveva complicato la storia della Sicilia, che aveva provocato lotte sanguinose a non finire e che, in un certo senso, faceva sentire o presentire che il siciliano vero è il siciliano proprietario terriero.
Conosceva le battute dei suoi amici settentrionali e le prese in giro su quel pensiero fisso che ronzava nella testa anche dei più derelitti isolani.
– Non c’è siciliano che non sia proprietario terriero, come non c’è siculo che non porti appresso l’abito nero! –
Sentenziavano sarcastici.
– Non dimenticate il coltello e la lupara! – rispondeva immancabilmente lui lasciando perplessi i suoi amici sugli infiniti sottintesi di quelle precisazioni.
Comunque, adesso che dalla finestra di una villa baronale l’occhio correva sui dolci declivi coltivati, poteva capire l’anima terragnola dei siciliani.
Poteva capire la disperazione degli emigranti che andavano in giro per il mondo senza il solido appoggio sulla loro terra.
O l’amore egoistico dei personaggi di Verga per la terra, la potente madre che non sempre era generosa verso i suoi figli.
Un vero siciliano ama per primo la terra, poi la casa.
Non come al nord, dove la casa è un santuario.
Forse perché il siciliano vive la maggior parte del tempo fuori, dove il cielo è limpido e i rigori invernali raramente fanno tremare la ruvida pelle.
Certo i tempi erano cambiati e tutto si era livellato.
I regionalismi li tengono in vita solo alcuni politici o maneggioni interessati.
E spesso l’ingordigia si traveste di finto amore per le tradizioni.
Tutto quello che il colonnello vedeva era suo, anche quel bosco in cima al colle più alto dietro la villa.
Gli aveva lanciato uno sguardo da intenditore, mentre si era avvicinato alla villa, e nelle sue orecchie si era formato quel magico tramestio, tra le foglie, del becco lungo di una beccaccia.
L’ultima delle prede che ancora era capace di regalare all’uomo sensazioni di altri tempi.
Un minuzioso lavoro di inventario lo attendeva.
Doveva raccogliere le fila della sua esistenza che ora aveva trovato il suo nido in quel posto, a mezza via tra le montagne e il mare, in Sicilia, nella regione più chiacchierata d’Italia, nella terra più ricca di contraddizioni che mai avesse conosciuto.
Il compito non era facile, perché non è mai facile per un uomo comprendere appieno la propria vita, soprattutto quando una mente fertile complica ancora di più tale comprensione.
Altri destini, che avevano intrecciato i loro fili con la sua vita, si erano compiuti.
Il colonnello ora era solo.
Apparentemente ciò poteva rendergli il compito più facile.
Invece, guardandosi in giro, posandosi per un attimo su un trattore che arava un pezzo di campo, su un uomo che batteva gli ulivi con una canna americana, su alcune donne che curavano le file delle viti, si rese conto che ancora e sempre avrebbe dovuto tener conto, nelle sue decisioni, di altre vite, di altri destini.
Non si sfugge alla propria vocazione.
Era stato un comandante, aveva provato la nausea del comando, eppure sempre si ritrovava ad assumersi le responsabilità di una natura più intuitiva, più fulminea e più salda.
Forse per questo, per una specie di compensazione, aveva sposato lei, così fragile e così eterea.
Sembrava rompersi come un cristallo troppo fine se lo sguardo dell’allora capitano, che si posava su di lei, indugiava un po’ di più oppure se restava, anche solo per un attimo, ancora indurito per il continuo esercizio al cipiglio severo della caserma.
Con una donna simile in casa egli poteva permettersi di sciogliersi e di gustare una dimensione completamente diversa.
Persino i suoi subalterni, che egli invitava spesso per una serata conviviale, restavano perplessi di fronte a un uomo che rivelava in casa insospettati aspetti della sua personalità.
Egli era gentile, incoraggiante, un vero gentiluomo.
Desiderava che i sottotenenti di leva, laureati, trattenessero gli ospiti sui temi a loro più congeniali, affinché la serata si presentasse, oltrechè piacevole, anche stimolante dal punto di vista culturale.
Quanta differenza con il ferreo carattere dimostrato in caserma e durante le estenuanti esercitazioni nel I reggimento paracadutisti!
I suoi occhi trapassavano l’animo, erano fulmini di guerra.
La sua voce tuonava potente e irresistibile.
Il suo esempio era sempre trainante anche se difficile da imitare.
Ma lì, in casa sua, tutto era ovattato e tutto funzionava al sussurro lieve e cantilenante di lei.
Ecco perché la prova suprema di una donna, l’attimo forte, in cui la vita fa urlare perché un altro urlo vuole formarsi e farsi avanti, è stato per lei troppo violento.
Non riuscì a resistere all’impatto.
Così il capitano Noli si era ritrovato da solo e con un’immensa rabbia ben racchiusa nel suo grande petto, che di tanto in tanto emergeva dal by pass dei suoi nervi controllori.
Da allora non c’era stata impresa segreta o propagandata dai giornali a cui non avesse partecipato.
Si ricordò dei giorni del Libano, la mitica Fenicia, tormentata dagli odi religiosi e dove certo la simpatia italiana aveva contribuito ad allentare la tensione, ma dove ogni momento era importante e vitale per evitare le disgrazie toccate ad altri contingenti stranieri.
Il reparto che aveva comandato si era dimostrato efficiente al massimo e la ferrea disciplina imposta aveva contribuito a ridurre al minimo i rischi in una situazione non chiara e dove chiunque poteva rivelarsi un nemico mortale, anche dietro l’apparenza del viso angelico di un bambino o dietro le fattezze perfette di una donna levantina.
Certo il comandante non era nel suo elemento preferito.
Egli preferiva le zone di combattimento dove il nemico è ben delineato, dove un’esercitazione fatta bene può dare i suoi frutti e dove il suo esempio poteva essere determinante.
Tutto ciò non per la propria sicurezza, ma per quella dei suoi sottoposti, per una specie di esagerata convinzione che la prima responsabilità è di chi comanda.
I giovani volti che da lui dipendevano dovevano avere la garanzia di un comando solido in una situazione già sperimentata.
Si possono evitare anche le pallottole, le granate e persino le raffiche di mitra con un buon allenamento e un occhio attento e previdente.
Ma niente si può fare contro un nemico non ben individuato e che può colpire quando la tensione ha bisogno di scaricarsi.
Aveva sempre criticato il modo in cui gli americani avevano condotto la guerra in Vietnam.
Avevano cercato di far diventare quell’angolo sperduto di mondo un pezzo d’America, e i soldati insieme agli ufficiali non intendevano rinunciare alle grasse comodità del loro paese.
Non avevano saputo ambientarsi, non avevano saputo adattare il loro modo rumoroso di far guerra ai silenzi cospiratori delle giungle, alle solitudini implacabili delle savane, ai tempi lenti e alle filosofie diverse dei villaggi vietnamiti.
Laggiù il nemico non era ben individuabile né sul terreno né nelle menti dei soldati.
Emersero le turpitudini e le insicurezze dell’uomo cosiddetto civile, facendo diventare la figura del soldato americano un balbettante e vaneggiante essere disadattato.
La Storia non insegna mai e continua a riproporre i suoi spietati schemi.
Lì a Beirut aveva studiato i diversi dialetti per non perdere tempo a capire una situazione di pericolo.
In guerra chi capisce e decide per primo ha già una buona possibilità di cavarsela a danno dei nemici.
Poi aveva cercato di capirci qualcosa nell’aggrovigliata rete di fedi religiose che formavano fanatici molto pericolosi.
Aveva frequentato, sotto false spoglie, bar malfamati e postriboli; si era introdotto nelle chiese come un qualunque fedele e aveva tenuto rapporti con le famiglie più influenti di Beirut.
I documenti ufficiali non lo riportavano, ma così aveva avuto modo di sventare, almeno in due occasioni, attacchi suicidi contro il corpo di spedizione italiano.
Altro che facce simpatiche!
Altro che l’italianità vince sempre!
Di fronte al cieco fanatismo e alla logica spietata delle lotte di religione non c’è gesto di simpatia o di amicizia che tenga!
Anzi si corre il rischio di essere fraintesi e di scambiare un gesto d’aiuto per debolezza manifesta e costituzionale.
Non poteva non venirgli in mente quell’episodio sconcertante, di cui era stato principale protagonista, e che ancora una volta dimostrava come la storia ripete i suoi ritmi, i suoi pregiudizi e le sue incongruenze.
Aveva saputo da una prostituta d’alto bordo che anche contro gli italiani si stava preparando un’azione suicida, come quella che aveva provocato tante vittime tra i marines del contingente americano.
In questo caso la particolare, accattivante e disarmante simpatia di qualche parà o carabiniere o marine italiano aveva fatto breccia nei cuori delle donne di Beirut.
– Maggiore, se ti svelo un segreto è perché la decisione non è stata unanime. Voi non avete alcuna colpa della nostra situazione. Ma i più intransigenti dicono che non bisogna fare distinzioni. Quando si comincia ad adottare favoritismi, allora è segno che si è deboli nel cuore.
Così dicono gli irriducibili. –
Il maggiore si era irrigidito, aveva capito che stava per entrare nei meandri viscidi di quella schifosa lotta e che poteva essere d’aiuto ai suoi con quei metodi che lo disgustavano, ma che, capiva, doveva adottare per penetrare nella contorta mentalità di quella parte di mondo, dove gli intrecci erano così complicati da non sapere mai se stai parlando con un amico o con chi ti metterà il cappio al collo.
Non fece domande, non voleva in alcun modo urtare la suscettibilità della donna.
– Questa volta saranno proprio imprevedibili. Si serviranno del ricatto per convincere alcuni civili che lavorano da voi. Non conosco il piano nei suoi particolari, ma conosco l’uomo che se ne sta occupando. –
Seguì una sommaria descrizione del pezzo grosso, dei locali che amava frequentare e dei movimenti che era solito effettuare nei diversi quartieri della città.
– Spero che tu, maggiore, potrai fare qualcosa. E se un giorno ti chiederò di farmi espatriare, non dirmi di no, eh, maggiore? –
Il suo grande ventre si muoveva come mosso da un’antica nenia.
I suoi occhi ricordavano le strane sacerdotesse degli dei fenici che si concedevano ai fedeli.
Si era negli anni ottanta del secolo ventesimo, ma le magie, le cerimonie, le credenze e perfino le tragedie non volevano mai abbandonare quel lembo di terra affacciato sul mare.
Un’antica malia si impossessò dei sensi del maggiore e si sentì precipitare verso abissi sconosciuti, terrificanti, ma allo stesso tempo quanto mai invitanti!
Lo sapeva, in quei momenti era alla mercè di chiunque, tutta la sua esperienza lì non sarebbe servita a niente.
Ma cosa vale la vita se neanche per un attimo puoi affidarti all’inconscio, all’imprevedibile, all’irrazionale?
E da quel fondo di antica mescolanza di sensazioni gli scaturì il modo con cui evitare una tragedia.
Era pazzesco, era inconcepibile, ma poteva funzionare.
Soprattutto a Beirut.
Il pezzo grosso era un fanatico mussulmano, che imbottiva le menti dei suoi uomini di versetti del Corano e di prescrizioni di Maometto.
La Guerra Santa contro gli infedeli era il sacro dovere di un seguace di Allah, che poi sarebbe stato ricompensato con le delizie di un paradiso fuori dal tempo.
A dir la verità accompagnava le sue deliranti prediche con generose dosi di droga, che scuotevano le menti come sferzate e facevano provare in anticipo quel senso d’annientamento dell’essere, quel trovarsi sospesi in uno spazio senza fine e soprattutto senza tempo.
I suoi accoliti, e lui con loro, si sentivano semidei e, quando la dura realtà tornava a rivivere, sempre di meno, nelle loro menti, solo una missione tremenda poteva sorreggerli ancora, altrimenti sarebbero finiti nell’orrore e negli abominevoli vicoli di Beirut tra l’immondizia e la degenerazione più abietta.
Quella missione rappresentava allora il lumicino che ancora li teneva in vita e che sarebbe diventato fiamma divoratrice nel momento in cui sarebbero saltati in aria con i loro nemici.
Fiamma divoratrice, ma purificatrice, e loro sarebbero saliti verso i destini eterni promessi da Maometto. Che Allah l’abbia sempre in gloria!
Tutti, in quel vasto ventre, che era diventata Beirut, con i suoi vicoli interminabili e le sue vie segrete e le gallerie senza nome, avevano un sacro timore di questo capo fanatico, ma senza dubbio efficace e definitivo.
Chi non ha paura della morte diventa imprendibile, inafferrabile e soprattutto incomprensibile e altamente letale.
Il colonnello, lì davanti alla finestra della villa baronale, rivisse quei momenti col pensiero.
Si ricordò dello stratagemma che aveva escogitato per far andare il pezzo grosso nell’ufficio che gli avevano messo a disposizione nell’ambasciata italiana.
Nessuno sapeva niente.
Lo avevano visto arrivare con un grosso involto per poi rinchiudersi nell’ufficio.
Il pezzo grosso arrivò con uno stuolo di fanatici armati fino ai denti.
Il maggiore riuscì a convincere quell’uomo dallo sguardo perduto chissà dove ad avere un colloquio con lui strettamente privato.
La sua guardia del corpo sarebbe rimasta dietro la porta.
– Saremo solo noi due! – dichiarò – Non mi dirà che ha paura di un miserabile ufficiale italiano! Se è questo che vuol sapere, non la ucciderò. Ha la mia parola d’onore! E poi cosa vuole che sia la morte per un seguace di Allah così meritevole come lei? – aggiunse in tono volutamente ironico per colpire l’immaginazione e stuzzicare la curiosità dell’uomo.
Era proprio imponente quel capo della fazione più irriducibile dei seguaci di Allah.
Non si sapeva se aveva trascorso la sua gioventù in Iran o se era stato proprio Khomeini a mandarlo nel Libano a far proseliti e creare nuovi angeli della morte, i nuovi assassini dei tempi moderni.
Forse la madre era libanese, forse aveva figli, alcuni dei quali, pareva, aveva già mandato allo sbaraglio con risultati dirompenti.
Fatto sta che accettò di stare da solo nell’ufficio dell’ambasciata italiana con l’allora maggiore dei parà.
La gente racconta che non si vide mai più per le strade del Libano e che niente più si seppe sulla sua sorte.
Scomparve semplicemente e basta.
Cos’era successo in quel pretenzioso ufficio di un’ambasciata che correva tutti i momenti il rischio di saltare in aria?
Il colonnello sogghignò al pensiero.
È proprio strano l’animo umano.
Altro che progresso, altro che secolo ventesimo, altro che era dei computer!
Finchè nel corpo di un uomo ci sarà un alito di spiritualità, qualunque essa sia, l’uomo rimarrà un enorme segreto, uno sconcertante mistero che lo scorrere dei secoli neanche riuscirà a scalfire.
Lo renderà saldo e simile agli dei, oppure tremebondo e balbettante.
Quando la porta si chiuse alle spalle dei due uomini, il maggiore dei parà parlò con molta calma scegliendo le parole con cura:
– Le ho dato la mia parola di ufficiale dell’esercito italiano che la sua vita non sarà messa in pericolo. Mi ha capito? Quindi qualsiasi cosa le dirò o le mostrerò non si metta a urlare come un pazzo, altrimenti i suoi uomini e i miei faranno un inferno, e le posso assicurare che non ci guadagnerà di certo! Questo vuole essere un colloquio tra due persone che hanno delle responsabilità più o meno grandi sulle spalle. Io mi batto per l’incolumità dei miei ragazzi, lei per l’affermazione di un’idea, per il sopravvento di una mentalità su un’altra… No, aspetti un po’, mi faccia finire! A lei non interessa l’integrità fisica dei suoi uomini, perché crede in quella spirituale, crede in una vita eterna destinata ai guerrieri, a tutti coloro cioè che combattono per la gloria di Allah.
Noi italiani siamo venuti qui in Libano con l’intenzione di salvaguardare la pace, con l’illusione di mettere fine agli odi e di non far diventare il Medio Oriente il focolaio di guerre future.
Sì, sì, dica pure che siamo qui per difendere i nostri interessi, perché anche noi abbiamo i piedi nel Mediterraneo.
Tutto vero.
Però adesso io mi sono reso conto, e, badi bene, quest’illusione sparirà anche dalla testa degli americani e dei francesi. Mi sono reso conto, dicevo, che non c’è niente da fare.
Fra poco sloggeremo e vi lasceremo il campo libero.
Ma! – e qui fece un gesto imperioso per impressionare il suo ospite – Ma a me interessa portare a casa i miei ragazzi sani e salvi.
Non voglio missioni suicide, mi ha capito? –
– Ha detto bene, maggiore! A me interessa di più che Allah prevalga e che i suoi fidi guerrieri si battano per Lui! Cosa ci può fermare? Un’idea non si può combattere! Voi ve ne andrete, ma quando? E poi perché non scatenare l’ira dei miei fedeli contro voi infedeli? Potrebbe servire da esempio per le altre nazioni, perché non venga loro il minimo sospetto che noi facciamo delle distinzioni tra gli infedeli.
Gli americani e i francesi sì, gli italiani no!
“Allora facciamo gli italiani anche noi!”
Ecco il pensiero che si formerebbe nelle loro menti di grassi occidentali. – fece una pausa ispirata il figlio di Maometto e poi – No, maggiore! Voi italiani siete qui. Questo è un fatto. Quindi dovete accettarne le conseguenze! –
Il maggiore scrutò con attenzione, con i suoi occhi metallici, il viso d’aquila rapace di quell’uomo, lo vide incrollabile e allora lasciò andare le maniere diplomatiche e cambiò tono.
Quando riprese a parlare, il viso impassibile del capo dei fanatici di Allah ebbe un leggero fremito.
Non si aspettava certo un tale cambiamento.
Finora egli sempre si era sentito su un piedistallo di fronte a quegli occidentali che rappresentavano il ventre molle di un modo di vivere.
Conosceva però la forza e, sebbene non avesse paura di niente, in cuor suo provò un attimo di smarrimento, che lo indispettì e gli fece correre la mano alla Luger che si era portata appresso nella grande fascia di seta, che era solito indossare anche sulla tuta da combattimento.
“Italiani brava gente” aveva sentito sempre dire, ma in guerra poco decisi, un po’ pasticcioni e con un fondo di vigliaccheria.
Se lo avessero invitato presso il comando del contingente americano o francese, non ci sarebbe andato.
La sua natura sospettosa avrebbe subodorato l’inganno.
Ma per recarsi presso gli italiani non ci aveva pensato poi troppo, era semmai proprio stuzzicato dalla curiosità.
Avrebbe potuto in qualsiasi momento schiacciare quel piccolo nucleo di soldati italiani.
Non erano certo loro un problema.
Ma adesso quel maggiore dagli occhi divenuti improvvisamente duri cosa voleva?
Se osava alzare la voce e minacciarlo la sua vita non sarebbe valsa più di una moneta falsa!
– Allora stammi a sentire, lurido schifoso figlio di Allah! – tuonò la voce facendo sobbalzare perfino la pesante riproduzione del dio Marduk in bronzo, che troneggiava sull’enorme scrittoio – Io so sempre dove trovare te e i tuoi scagnozzi assassini in questa città balorda! Non sottovalutarmi! Ho percorso tutte le viuzze, conosco tutti i nascondigli segreti, tutte le vostre puzzolenti tane.
So dove colpire, mi capisci?
E adesso apri le orecchie e spalanca gli occhi!
Se qualcosa dovesse succedere a uno solo dei miei ragazzi, commando suicida o no, io prenderò i vostri corpacci e li cucirò dentro… – così facendo sollevò il coperchio della cassa che aveva portato con sé – …dentro una bella pelle di maiale! –
Contemporaneamente afferrò saldamente la testa dell’uomo con una mano, mentre con l’altra gli tappò la bocca per evitare qualsiasi urlo, e un intervento non certo igienico della sua guardia del corpo.
Lo spettacolo fu stupefacente.
Gli occhi dell’uomo roteavano dentro le orbite come impazziti e, come se un grosso maglio gli fosse crollato in testa, si afflosciò senza forza per terra, mentre il maggiore gli premeva la bocca e l’aria sibilava dalle narici dilatate.
– Non gridare, stupido fanatico! Non urlare o ti ficco dentro la cassa adesso, e puoi dire addio al tuo paradiso! – lo ammoniva duramente il maggiore – Siediti qui, non urlare e parliamo di nuovo, da bravi compagnoni! –
Chiuse con un colpo secco la cassa e fece sedere quell’ammasso di gelatina spappolata.
Quando il maggiore vide una certa ripresa della capacità di comprensione, disse:
– I tuoi suicidi li cucirò dentro la più bella pelle di maiale che troverò nel quartiere cristiano e poi li seppellirò in un luogo tale che ci vorranno cent’anni prima di trovarli.
Marciranno in bella compagnia e si potranno scordare le delizie del tuo paradiso!
Ma anche a te succederà la stessa cosa.
Ci puoi giurare!
Conosco gente che per pochi dollari ti venderebbe volentieri agli occidentali, quindi non fidarti troppo delle tue tane e dei tuoi fanatici.
Anche tu finiresti cucito dentro un bel porco grasso e roseo.
Lasciaci in pace e sparisci!
Prima o poi ce ne andremo.
Non si può resistere qui. E per chi?
Per le vostre belle facce?
Anzi, è già stabilito.
Noi ci imbarcheremo sulle nostre belle navi e tu potrai tornare ad organizzare le tue trame e i tuoi attentati.
Ti è andata bene due volte, con i francesi e gli americani. Non tentare la terza!
La tua sporca animaccia vagherebbe senza pace all’inferno!
Hai capito? –
L’uomo, ormai svuotato dalla sua sicumera, ascoltò come in trance, non disse niente, si alzò e traballante si recò verso l’uscita.
Il maggiore lo anticipò, gli aprì la porta insonorizzata e con un sorriso mefistofelico lo congedò:
– A non più rivederci, capo! –
Chiuse di nuovo la porta, andò a sedersi dietro l’ampio scrittoio, prese in mano il feticcio fenicio e sogghignò.
La constatazione che fece fu amara.
È talmente complicata l’anima umana che si è inventata persino qualcosa più terribile della morte.
E poi concluse: – Per mia fortuna! –

[continua]

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