Lo sciabolatore del cielo e Morte, a Lampedusa, di un amico in apnea

di

Domenico Livoti


Domenico Livoti - Lo sciabolatore del cielo e Morte, a Lampedusa, di un amico in apnea
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Poesia e Narrativa
14x20,5 - pp. 68 - Euro 7,00
ISBN 978-88-6037-7630

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In copertina fotografia di Domenico Livoti


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è 1° classificato nel concorso letterario La Montagna Valle Spluga 2007


Potrei restare all’infinito
in faccia al mare.
Potrei accendere falò
con i resti della mia vita
e cibarmi dei buoi sacri del dio Sole.
Non aspetterei venti propizi
per navigare fino all’isola di Ulisse.
Potrei morire alle foci del torrente
dove lucenti spigole
dormono sotto i massi
nella calura di un mezzogiorno siciliano.


Lo sciabolatore del cielo e Morte, a Lampedusa, di un amico in apnea

ai pescatori
di Spinesante


In copertina fotografia di Domenico Livoti


Pubblicazione realizzata con il contributo de IL CLUB degli autori in quanto l’autore è 1° classificato nel concorso letterario La Montagna Valle Spluga 2007


Potrei restare all’infinito
in faccia al mare.
Potrei accendere falò
con i resti della mia vita
e cibarmi dei buoi sacri del dio Sole.
Non aspetterei venti propizi
per navigare fino all’isola di Ulisse.
Potrei morire alle foci del torrente
dove lucenti spigole
dormono sotto i massi
nella calura di un mezzogiorno siciliano.


PREMESSA

Verrà l’estate e tornerò al mare,
a quell’immensa inquieta solitudine
del silenzio sublime dei fondali.

Verrà l’estate e subirò l’assalto
delle tempeste di insistenti ricordi
stampati sui fossili della mia memoria.

Verrà l’estate e avrò la mia pace.

Quante estati torneranno in una vita?


Aveva creduto che gli uomini avessero bisogno di parole, della loro forza consolatrice nei vortici dell’esistenza, e della loro potenza evocatrice nei meandri delle miserie e dei trionfi.
Lo chiamavano “il poeta”.
Ma egli più che alla parola in se stessa e al suo significato faceva attenzione al tono, al registro, per così dire.
C’era della derisione?
Della diffidenza?
Addirittura dell’offesa?
Oppure della pura e semplice commiserazione per un povero pazzo che era andato a vivere nel faro abbandonato, sopra il promontorio selvaggio e battuto dai venti e dalle intemperie?
La gente non sapeva, non conosceva la storia del suo “ritorno”.
Sì, qualcosa si raccontava, si sussurrava nei bar e nelle pizzerie.
Ormai, nel terzo millennio, si era perso il senso dell’arcano, e tutto si configurava come divertente pettegolezzo o addirittura come feroce disprezzo per quello che accadeva al faro, ormai inservibile tra le maglie delle strumentazioni scientifiche attuali.
Il “poeta matto” era tornato a casa!
Il ritorno, nella frenesia della vita, è uno dei momenti in cui l’animo si lascia andare, si affida all’onda e va dove lo porta quella matassa di fili, di modi di essere, che rappresentano il suo nucleo più profondo e più segreto.
E non c’è tempesta che tenga, non c’è infuriare degli elementi naturali che possano incidere su quella dolce sensazione che è il ritorno a casa.
Semmai l’acuiscono.
Specialmente se la “Dragonara” scava nelle onde del mare e succhia la sua anima per poi martellare la terra.
I “cudi ‘i rattu”, le code di topo, come tentacoli maligni artigliavano le acque nere, in quel giorno, e i tuoni e i lampi squarciavano l’udito e la vista dei pochi uomini che si accanivano ancora fuori dalle case.
La sua auto sbandava a ogni raffica furiosa, e i tergicristalli a malapena riuscivano a dare al vecchio emigrante una veloce visione della strada.
Era più un affidarsi alla memoria visiva il suo andare, affascinato com’era dal terribile spettacolo che una natura scatenata stava offrendo sul lato destro della strada, dove le onde del mare si rotolavano su se stesse gonfiandosi mostruosamente e aggredendo poi il litorale con una furia esplosiva.
Nell’abbaglio di un lampo il vecchio poeta vide la figurina di un uomo di fronte ai cavalloni tremendi.
Si ricordò immediatamente di don Nicola, il vecchio pescatore che su quel lembo di mare aveva ereditato la funzione magica di “sciabolatore del cielo”, di “tagliatore delle trombe marine”.
L’aveva visto tante volte nella sua gioventù, lì sulla spiaggia, ogni volta che cielo e mare cercavano un’alleanza per punire la sfrontata terra e soprattutto gli uomini poco rispettosi dell’ambiente.
Con la mano destra impugnava il coltello dalla lunga lama a punta e dal manico di osso bianco.
Puntava poi il braccio verso la tromba marina e recitava:
Lunedì est Santu
Martedì est Santu
Mercoledì est Santu
Giovedì est Santu
Venerdì est Santu
Sabato est Santu
Domenica è di Pasqua, cuda di rattu casca!
Ogni volta che diceva “est Santu”, don Nicola disegnava verso il cielo una croce in direzione di quel mostruoso tentacolo nero che si allungava verso il mare.
Poi, quando pronunciava le ultime parole, come uno spadaccino, tirava un fendente da destra a sinistra e dall’alto in basso.
Accanto a don Nicola egli da giovane spesso aveva assistito a questa rituale uccisione del mostro marino e per incanto i tentacoli si ritiravano come se il mare riconoscesse il potere di quell’uomo, che l’aveva amato svisceratamente, ma che ricusava la sua alleanza con il cielo per punire gli uomini.
Scese dalla macchina sotto il diluvio e si aprì la strada verso il vecchio pescatore tra le raffiche del vento e le sferzate della pioggia battente.
Si inginocchiò vicino a don Nicola, che lo fissò come se avesse visto un fantasma.
Erano almeno quarant’anni che non si incontravano, ma tra i lampi e i tuoni la corrispondenza e la comprensione furono immediate e totali.
La bocca di don Nicola si avvicinò all’orecchio del figliol prodigo ripetendo la litania, poi gli mise il coltello in mano e, con l’aiuto delle sue mani ormai rinsecchite e deformate dall’artrite, delineò e disegnò nell’aria gli stessi gesti tramandati dalla memoria dei tempi.
I neri e minacciosi filamenti, che come cancerose escrescenze si dipartivano dalle nubi, si ritrassero e uno squarcio di cielo apparve all’orizzonte sulle isole Eolie.
Quando la pioggia e i fulmini lo permisero don Nicola disse:
– Sei tornato nel momento giusto! Io non ce la faccio più!
E non c’è nessuno nella mia famiglia che possa raccogliere questa eredità!
Ti nomino nuovo “sciabolatore del cielo”!
Ti affido la salvezza di questa costa, anche se non sempre gli uomini di queste parti se lo meritano! –
Fu così che nacque la leggenda del poeta matto che lassù sul promontorio di fronte al faro abbandonato faceva strani gesti con un coltello in mano.
In realtà il vecchio, tornato al suo paese, si esercitava a scompigliare i progetti di devastazione di cielo e mare, stanchi forse delle incurie degli uomini.
E fu così che arrivò a comprendere che oltre alle parole gli uomini avevano bisogno anche di gesti.
Poi venne quel giorno in cui alla soglia del suo faro si presentò una donna.
Il vecchio guardiano del faro fissò l’anziana signora chiedendole con gli occhi cosa volesse, mentre lei, muta, si guardava intorno e poi si fermava a scrutare il volto dell’uomo come in cerca di un indizio.
– Lei è mai stato a Lampedusa? – chiese all’improvviso.
Sconcertato dalla domanda, il vecchio la ripeté.
– A Lampedusa? Perché? –
– Non mi risponda con una domanda! –
– Tanto per cominciare, non so chi è lei! Bussa alla mia porta senza neanche presentarsi!
Le avranno detto in paese che sono un povero matto, ma così non si fa neanche nel mondo dei matti! Chi è lei? –
– Prima di dire chi sono, voglio essere certa di trovarmi davanti alla persona giusta!
Mi risponda, è mai stato a Lampedusa? –
– Lampedusa, Lampedusa!
Quanto tempo fa?
Quarant’anni?
Mi riprometto sempre di tornarci, ma ho paura dei cambiamenti, anzi degli stravolgimenti!
Certo che ci sono stato nell’isola dei sogni! –
– Quarant’anni fa! Come vola il tempo per chi ha avuto la possibilità di continuare l’avventura!
Ma qualcuno si è fermato sulla sua collina! –
– C’è sempre qualcuno che si ferma su una collina!
Io spero di fermarmi su questo promontorio! –
– C’era un faro anche a Lampedusa! –
– C’è sempre un faro sulle isole! –
– E quando il faro si spegne, cosa succede? –
– Succede che diventa la dimora di un matto! –
– È lei quello che chiamano il Poeta? –
– Lo dicono con un senso di scherno, vero? –
– Non so! Forse con un senso di inutilità o di sotterranea invidia? –
– Ah! Invidia, no di certo! Forse malsana curiosità!
Non dovrebbero esserci poeti a questo mondo!
Le parole, poste su un foglio secondo un ordine arcano, fanno male! –
– Sono d’accordo! Nessuno dovrebbe avere il dono di giocar con le parole! Potrebbero alterare in modo ancor più incomprensibile il caos già esistente nel mondo! –
– Secondo lei, è possibile che dei versi, lanciati al vento, sconvolgano i precari equilibri della convivenza umana? –
– Sì! Sono sicura di sì! –
– È per questo che nei bui cassetti dei comò riposano versi inventati dall’immaginazione di tantissime persone? –
– Forse sì! Forse è meglio così! –
– Ma nemmeno io, su questo selvaggio e solitario promontorio, posso lanciare al mare parole alate e versi liberi, sull’onda dell’enigmatico Hermes?
Che male posso fare, io, con le mie parole? –
– Il male è già stato compiuto!
Ha traversato il mare e si è insinuato nei cuori innocenti.
Quando si crea, si aggiunge qualcosa a questo mondo, sia nel bene che nel male.
Ogni volta che si capisce di più delle leggi che regolano la vita, di più la libertà si espande e di più si può scegliere! –
– Meglio l’ignoranza, dunque?
Meglio il fatalismo?
Meglio l’assoluta inazione? –
– Sì, sì, meglio! Sì! Per non far piangere la gente! Sì! –
– Non si può, ad esempio, più dire che il mare “piange”? –
Se è vero

che il mare ogni tanto piange,

quante lacrime ha versato per te
che lo hai sfidato, amato, rispettato?
Ma
le sue lacrime sono visibili
solo a chi possiede un’anima marina! Solo a chi, nella più cupa tempesta,
invece della costa cerca il largo! –

– Chi sei tu, donna?
Conosco questi versi!
È una storia che mi appartiene! –
– A chi? A chi appartiene questa storia? –
– A me appartiene! Alla mia pelle! Ai miei anni giovanili! Alla mia vita! –
– No, caro! Tu sei stato solo una parentesi in questa storia!
Non ti ricordi di me? –
– La mia memoria diventa sempre più selettiva. Sinceramente non mi ricordo! Troppa gente mi è passata accanto! –
– Sulla nave! Per Lampedusa! In quell’estate lontana di quarant’anni fa! Voi due, subacquei da quattro soldi, e noi due, io e LUI! –
Su quella nave! Verso Lampedusa! LUI! MARIO? –
– Sì, Mario! IL MIO MARIO! –
– Tu sei, eri la sua ragazza!
Inutilmente ti ho cercata per anni!
Dopo la tragedia di quell’estate lontana!
Sulla collina di Lampedusa era rimasto solo un nome e il mare.
Ma tu, come fai a conoscere quei versi? –
– Il tuo libro! Quel maledetto libro!
Non bisogna avere la licenza di scrivere libri! –
– Come è potuto arrivare a te quel libro di poesie dalla tiratura limitata, che ho scritto perché sentivo l’esigenza che un’esistenza come quella di Mario andava celebrata, non doveva essere dimenticata dagli uomini? –
– Come è arrivato a me!
I libri volano, proprio come le parole di cui sono fatti!
I libri hanno in sé la capacità di crearsi le ali.
I libri vanno e vengono e nessuno li può fermare, nemmeno i falò dei dittatori!
Proprio a Lampedusa ho trovato il tuo libro, in biblioteca.
Era lì che mi guardava, che desiderava fortemente che lo prendessi e lo sfogliassi! –
– Tu ci sei tornata a Lampedusa! –
– Certo! Quasi tutti gli anni!
Ma sulla collina ci vado da sola e di nascosto! –
– Perché? –
– Perché ho una figlia che mi si è rivoltata contro, e un marito che non si fida più di me! –
– Non capisco! –
– Non capisci?
Ah, Ah, Ah! Il poeta non capisce!
Eppure dovresti conoscere le alchimie dei rapporti umani!
Mario era rimasto in fondo al mare, ma non è vero che era quello che voleva.
Come avevi scritto in quella prima poesia del libro? …
Mario

venne a galla nel sole d’Agosto

senza aver più bisogno di un respiro.
La sua anima, azzurra, traversò
gli ultimi metri, veloce, e volò
sulle candide ali di un gabbiano.
La gente dice che fu un incosciente,
ma il suo labbro sereno sull’onda
solo a me sussurrò da lontano
che era quella la morte che amava…
Ma non è così!

Mario sapeva che c’era una nuova vita che lo aspettava sulla terra! –
– Tu eri incinta, in quel lontano agosto? —
– Sì, lo avevo confidato a Mario proprio quella mattina che il mare gli ha tolto il respiro! –
– E poi? –
– E poi la vita continua dopo la disperazione e un uomo gentile mi ha accolta tra le sue braccia! –
– Ma tu … hai nascosto la verità al tuo nuovo compagno! È così? –
– Sì, è così! Volevo che mia figlia crescesse con un papà suo, interamente suo!
Non vedi quante cose succedono nelle famiglie di oggi?
Figli che vanno alla ricerca del padre biologico, figli che si rivoltano contro i genitori adottivi! Figli che vanno alla ricerca di un’identità perché la famiglia non è quella del sangue!
Maledetta questa storia del sangue!
Un padre e una madre devono essere quelli che ti educano, che ti crescono, che ti ascoltano e tremano per te quando esci di casa!
Cosa vuole ’sto sangue del cazzo!
Tutto filava liscio fino a quando non si è messo di mezzo quel libro! –
– Ma in che modo? Non capisco! –
– Mi sono fatta sorprendere che piangevo disperatamente con il tuo libro in mano!
È stato facile poi per mia figlia, brillante studentessa universitaria, fare le giuste domande, indagare un po’ e arrivare a una conclusione! –
– Che lei era la figlia di Mario! –
– Sì! Capisci adesso come un libro abbia potuto distruggere la serenità di una famiglia?
Chi ti ha dato il diritto di giocare con i sentimenti della gente? –
– Ma io ho messo in quel libro i miei sentimenti!
Non ho giocato con nessuno! –
– Ah, sì! E chi era colei che aspettava rassegnata sui moli dei porti delle isole a inventare braccialetti, collane e orecchini con le pietre della terra e le conchiglie del mare?
Cosa ne sapevi tu di quello che io provavo quando Mario scendeva negli abissi, da solo? –
– Ho provato a immaginarlo, infatti! –
– Giocando con le parole! Ma esse lasciano sempre un segno e si inseriscono nel caos delle nostre esistenze come bombe a tempo!
La parola non passa mai inosservata.
La parola fa bene, ma la parola fa anche male!
La parola crea, ma la parola distrugge anche!
E tu hai distrutto la mia vita!
Ero venuta qui con l’intenzione di buttarti giù da questo promontorio, di farti scomparire nel mare, di farti provare quello che ha provato Mario!
Ma poi ho visto un vecchio e ora non so più cosa fare! –
– Come hai fatto a trovarmi? –
– Non ci crederai! Ma quando ho raccontato a mia figlia e a mio marito la verità, dopo gli sconvolgimenti, i dubbi, le incomprensioni, i vaneggiamenti, le accuse e i pianti, siamo riusciti a trovare un’unione, ad avere uno scopo comune!
La ricerca di colui che si era permesso di tirar fuori dall’oblio una storia passata!
È stata una lunga ricerca, durata quasi vent’anni! –
– Ma Mario è lì da solo, su quella collina sferzata dai venti del Canale!
È da solo con quel Nome scolpito sul marmo, con quei scarni riferimenti.
Io volevo regalargli una specie di immortalità, come monito per coloro che amano troppo il mare e si dimenticano degli affetti.
Era una storia che andava raccontata, perché le storie sono il sale della vita.
Le storie accadono e vogliono essere raccontate.
Hanno bisogno di orecchie per esistere.
Non potete farmene una colpa perché la figura di Mario mi ha ossessionato in tutti questi anni.
Cosa credi? Che anch’io non abbia provato le stesse sensazioni di Mario, lì in mezzo al mare?
Che non abbia corso gli stessi pericoli?
Che non abbia sentito l’attrazione degli abissi?
Ma c’era stato Mario e io sono ancora vivo perché il suo pensiero mi è venuto in soccorso! –
– Perché? Perché non è successo a voi due quello che è successo a lui?
Voi due, mi ricordo, eravate così ingenui ed elettrizzati dall’avventura subacquea!
Lui invece era un gigante, conosceva i rischi e i suoi limiti!
C’era un accordo tra lui e il mare!
Non avrebbe mai tolto al mare più di quello che serviva a noi per vivere! –
– L’ho pensato anch’io! Tante volte!
Quando la sagola del pallone segna-sub mi è rimasta impigliata in uno sperone roccioso di una grotta mentre risalivo, ad esempio!
La superficie e l’aria erano su in alto e io non riuscivo a raggiungerli.
Mi ha salvato il mio compagno.
O quando uno squalo mi ha sfiorato con il suo corpo strappandomi la cernia fiocinata dal mio fucile.
O quando il mio profondimetro mi segnava una profondità diversa.
Potevo sbagliare i miei calcoli per la decompressione e lasciarci la pelle.
Perché io no, e lui sì?
Era un destino?
Certo che me lo sono chiesto tante volte!
Come poteva succedere a Mario un incidente quando io l’avevo visto scendere ad ampie falcate fin sui fondali difficili e insidiosi dell’isolotto di Lampione?
E’ stata sempre la mia disperazione, questo pensiero!
Sei venuta per buttarmi giù da questo promontorio?
Fallo!
Non mi opporrò!
Troppo tardi, però!
Ormai sono vecchio e la morte l’accetterei come una liberazione! –
– No! Non temere!
Venendo qui ho capito che la punizione per aver pensato che gli uomini hanno bisogno di parole è stata la solitudine, cui ti ha condannato la società!
Ormai per tutti non sei altro che il povero poeta matto, da cui stare lontano! –
– Ah, Ah, Ah! Il poeta matto!
Lo so!
Eppure a me sembra un eccezionale riconoscimento!
Non un’ingiuria!
La poesia e la pazzia sono l’anticamera della saggezza! –

[continua]

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