Racconto di Davide Gorga


Davide Gorga con questo racconto è risultato 12° classificato al concorso Marguerite Yourcenar 1996


Oltre la morte

1. Sorella Morte
L’anziano professore dietro la cattedra osserva, attraverso i suoi occhiali cerchiati d’oro, gli alunni ai loro banchi scribacchiare in fretta.
Il suono della campanella pone termine al loro lavoro, ed uno dopo l’altro lasciano i fogli di bella sulla cattedra; le loro voci si allontanano per i corridoi, e l’uomo rimane solo nell’aula vuota. Rassetta i compiti in classe; poi, si alza stanco e si avvicina ai vetri dell’ampia finestra. Invece del paesaggio marino, delle sue alberature incrociate dal vento lontane tra gli eucalipti e le palme, in quella fredda giornata di gennaio i suoi occhi vedono il passato e i petali di un fiore, che uno dopo l’altro si staccano dalla corolla.
Il primo petalo reca su di sé l’immagine di una ragazza dai capelli d’oro scuro e la limpidezza di un angelo che dà la mano a un bambino appena sceso dall’altalena;
il secondo petalo è il vento del porto che le solleva la lunga gonna dai colori vivaci;
il terzo petalo è l’immagine di un sorriso luminoso in un mattino di pioggia all’uscita di scuola, la mano bussa sul casco;
il quarto petalo è uno sguardo triste verso il mare freddo e cupo;
il quinto petalo, sono le sue guance arrossate mentre si accalora in una discussione;
il sesto petalo, la figura azzurra che corre in tuta nei giardini, tra l’erba tagliata.
L’uomo lascia la finestra e torna alla cattedra; mette i compiti nella cartella di cuoio; affianco ad essi, i libri che ha scritto per lei sola, e non ha mai pubblicato né fatto leggere ad alcuno. Perché la morte annulla ogni cosa: la gioia, lo splendore dell’anima, e persino un amore non corrisposto.
L’uomo prende con sé la cartella, fa qualche passo verso l’uscita, ma subito si accascia. Il dolore del petto frantuma le sue membra; e, piano, la sua mente si spegne, scivola via.


2. Fango e sangue
In una pozzanghera di fango, l’uomo si risvegliò, stupito.
Si rialzò nel mezzo del paesaggio brullo, una sterminata landa fangosa, ed era nudo.
Guardò il suo corpo, ma non era più lo stesso. Le membra di un giovane alto, forte e robusto lo rivestivano. Si toccò i capelli, ed essi erano bruni e folti.
La landa era senza fine. Si decise a risalire il pendio. La scalata non gli costò fatica, e giunto alla sommità vide un immenso lago, dalle acque scintillanti e vive e argentee che si estendeva quieto davanti a lui. Vi si diresse.
Dalla luce mezza grigia che lo circondava, emerse il latrato di un cane deforme, alto e immenso, dalle fauci di tigre e le membra forti come quelle di un leone. Balzando, lo assalì feroce. L’anca, il braccio, il pugno scattarono alla volontà dell’uomo, fermandosi duri come pietra nelle carni del fianco della bestia. In un istante, cadde morta. Ora l’uomo poteva avanzare verso l’acqua.
Quando giunse alla riva, si chinò, e vide fuggire davanti al suo sguardo evanescenti figure. Erano figure piangenti, i cui sguardi lancinavano come spade affilatissime.
L’uomo non seppe cosa pensare, e attraversò le acque. Nuotò in esse, ed il fango si sciolse, lacrime e pioggia entrarono nel suo corpo rinvigorendolo, e purificandolo, ed arrivò all’altra riva.
Un bosco scuro, alla luce del tramonto, si presentò alla sua vista. Era immenso e risonante dei gridi della civetta. L’uomo si stese per terra e s’addormentò.
Al mattino, si rialzò e prese a camminare per la foresta.
Nella primavera delle viole e dei rami fioriti, alberi di ogni specie, e canti di pettirossi accompagnavano il suo passaggio. L’uomo ricordò le mattine di primavera in cui, svegliandosi presto, s’incamminava verso la scuola, nel pallore dell’alba vicina, di quando la vita e le promesse e lo splendore di delicati gesti tra le fronde fresche di una gita, e le fresche acque di una fontana al mezzo del paesino dietro al castello di roccia risuonavano nel suo petto.
I margini di una radura lo accolsero.

3. I colori della gioia
Un angelo splendente, sospeso in aria dinanzi a lui, lo guardava. Le sue sei ali bianche erano immobili; il suo corpo di luce ammantato d’azzurro teneva in mano una spada di fiamma.
«Francesco, dove stai andando?» chiese l’angelo.
«Non lo so. Mi sono perso». Rispose l’uomo.
«Tu stai attraversando la tua anima, e devi dimostrare di essere degno dell’amore che il Cielo ti ha dimostrato». Detto questo, l’angelo svanì.
L’uomo si ritrovò vestito di un abito nero ed ampio, ricamato di bianche volute che terminavano in frastagliate punte rosse.
Senza poter chiedere altro, si avanzò ancora attraverso la foresta, finché non giunse ai suoi limiti, e vide una pianura melmosa come quella che aveva lasciata; in un acquitrino numerosi cigni non riuscivano a spiccare il volo, nonostante i loro sforzi. Impantanati senza speranza, erano tuttavia bellissimi; ma quei cigni non erano comuni. Quei cigni cantavano, una melodia limpida, triste; sonora come una campana di chiesa fatta d’argento.
Allora l’uomo corse via, indietro, per la foresta, saltando i tronchi e ferendosi coi rami, fino al lago meraviglioso in cui si era bagnato.
Vide lo scintillio delle acque, avvertì la loro magia e, cercata la diga che le arginava, iniziò a demolirla togliendone grossi massi.
Il giorno e la notte si succedettero instancabilmente, mentre l’uomo continuava il suo lavoro per un tempo eterno.
E il suo sangue si mischiava alle limpide acque.
Infine, un fiume spumeggiante e bianco come la neve scorreva e si riversava nella morta piana, lavandola dalla morte.
I cigni si levarono alti in volo.
E il cuore dell’uomo, trasportato sulle loro ali, gli indicò la nuova strada. Si incamminò verso una scarpata ricoperta di sterpi che terminava su una spiaggia sabbiosa, al limite del mare battente.

4. Il lido dell’ira.
Scogli sparsi punteggiavano la spiaggia deserta. Non un’ombra di vita, solo il silenzio lo avvolgeva.
Comparve dietro di lui una voce che lo chiamava, e l’uomo si voltò. Uomini e donne, numerosi come le onde erano immobili in piedi sul litorale.
L’uomo riconobbe uno per uno tutti coloro che aveva amato, e che si erano persi per strade diverse ed uguali, e che non aveva più incontrato.
D’incanto, al loro posto comparvero cani rabbiosi come il ricordo che squarcia l’anima e sfinisce la mente.
Mentre i cani si avventavano su di lui, i suoi arti scattavano come fulmini, facendone gran strage.
Infine i balzi, il sangue, i calci e le ferite lo lasciano in ginocchio sulla riva. Intorno a lui, i cadaveri dei cani scompaiono in nuvole di polvere.
L’uomo guardò l’orizzonte lontano, e come una vela bianca vide una macchia lontana sul mare; poi, vinto dalle ferite, venne meno.
Senza aver sognato, riaprì gli occhi, e vide solo le stelle sopra di sé. Toccò il suo corpo, ed era guarito; nessuna ferita lo intaccava.
Camminò lungo la riva per una notte senza fine e senza tempo, sempre uguale e scura. Poi il sole si alzò lento, e davanti a lui una macchia d’alberi digradanti da un promontorio fin sulla riva. Inoltrandosi in essa, trovò liane che gli impedivano il cammino, tanto erano forti.
Fra gli alberi, fuggivano ombre indistinte. Quando ormai la risacca marina non si udiva più, queste si condensarono sotto gli alberi davanti a lui. Bava biancastra scendeva da quei volti invisibili, e artigli ornavano l’apice delle branche d’ombra e di paura.
L’uomo si piazzò forte sulle gambe, e attese che lo circondassero. Figure d’orchi metà umane e metà satire lo assalirono violente. L’uomo vibrò i suoi colpi all’impazzata, duri e tremendi, ma senza che la mischia si diradasse. Allora prese a muoversi come l’onda del mare; come la ballerina che danza, e come in un canto di ninfa scintillavano lievi i suoi attacchi.
Le ombre caddero una ad una.

5. La seconda morte?
Oltre la macchia, l’uomo si ritrovò in una prateria bella, ampia e invitante, in cui l’erba cresceva alta, rigogliosa.
Vi si incamminò, e per lungo tempo procedette.
Improvviso, il dolore di uno stiletto conficcato in una gamba lo fece cadere in ginocchio. Un’aspide lo aveva morso, ed era rimasta attaccata alla sua caviglia.
L’uomo la uccise con un colpo della mano, e vide i segni dei denti sottili. Si stese nell’erba.
Un’ondata di piacere e stordimento lo pervase, ed ebbro riposò qualche tempo; poi, quando cercò di muoversi, un dolore acuto e penetrante lo arrestò. Ogni movimento gli era impedito dal veleno che gli scorreva nelle vene.
Allora tentò di alzarsi, e chiamando a raccolta tutte le sue energie, vi riuscì. La notte frattanto era scesa, cupa e nuvolosa. Prese a piovere.
L’uomo avanzava, sotto la pioggia battente e incessante, solo dolore e sfinimento in lui, ed oscurità gelida che gli frustava le membra dolenti e rigide in uno sforzo immane e senza meta. Continuava ad avanzare come una lenta cantilena, quando un’allodola si levò in volo ed il giorno comparve tra le nubi.
Una barca dalla bianca velatura era ormeggiata in un’insenatura di scogli; l’uomo con un ultimo sforzo vi si diresse, e, adagiatovisi, la sciolse. Subito questa partì leggera sospinta dal vento. Passò il giorno, e la pioggia si diradò.
Un’isoletta sperduta sulla quale crescevano grandi magnolie fece arenare la barca tra spesse alghe.
Una figura di giovane donna salì sulla barca, bella e dolce come un incantesimo; i suoi lunghi capelli castani le ricadevano sull’abito verde. Prese Francesco tra le braccia e lo trasportò sulla riva. Poi prese un vaso, e gli fece bere tra le labbra tremanti un balsamo leggero e vivo come l’affetto.
«Serena, amica. Che ci fai qui?»
La ragazza sorrise, e non disse niente. Quando l’uomo volle guardare ancora il suo viso, si accorse che era svanita.

6. Il nemico più forte.
La notte era passata tranquilla, e al sorgere della nuova alba l’uomo, dimentico delle sofferenze, pieno di forze, si imbarcò di nuovo sulla barca che lo aveva condotto fin lì. Un breve tragitto lo fece approdare su una scogliera aspra e tormentata. Lasciò l’imbarcazione e si inerpicò sugli scogli. Alla sommità di questi, un’enorme figura scura si stagliava contro il cielo.
Avvicinandosi, l’uomo vide che era un gigante del colore della cenere e della solitudine, e che le sue membra erano forti come ferro temprato dalla disperazione.
Il gigante sollevò una mano e sferrò un colpo contro di lui. L’uomo balzò di lato, e gli scogli andarono in mille pezzi. Allora fuggì più veloce che poté, balzando sugli scogli, finché non ebbe lasciato la scogliera, e non si trovò davanti una foresta di pini. Vi si addentrò. Dopo poco che camminava, una luce vivida e serena comparve innanzi a lui ed al suo mezzo, l’angelo dalle sei ali.
«Francesco, perché scappi?» chiese l’angelo.
«Perché il mio nemico è troppo forte».
«Hai varcato la soglia della morte; hai sconfitto la nera bestialità dell’egoismo; hai liberato le acque dell’entusiasmo perché le tue speranze potessero volare alla vita, ti sei purificato dei rimpianti, hai vinto l’ira e la paura del mondo; poi, l’amicizia ti ha sottratto alla perversione. Che cosa può ancora vincerti?»
«La solitudine e il terrore».
«La solitudine delle persone che tu hai deluso in tutta la tua vita; di chi aspettava da te una bevanda di speranza, ed invece si è inaridita».
Poi l’angelo mostrò all’uomo due spade.
«Ecco, con una di queste potrai sconfiggere il tuo nemico».
Le due lame splendenti vennero avvicinate al viso dell’uomo. Una era a due tagli, l’altra ne aveva uno solo, ed entrambe sembravano scolpite nell’alabastro.
Prese in mano la prima, e sentì la vittoria in pugno.
Impugnò la seconda, e avvertì la libertà pervaderlo.
«Scelgo questa». Disse tenendo nella mano la seconda.

7. Lo splendore della luce.
Incamminandosi per la scogliera, l’arma in mano, incontrò il gigante. Senza un rumore, silenzioso come la malinconia, questo si lanciò su di lui; come prima, l’uomo balzò in alto, evitando il suo attacco, e vibrando un solo, unico, profondo affondo, lo trafisse da parte a parte.
Il gigante si ridusse a un mucchietto di cenere, che la brezza disperdeva con un suono lontano tra gli scogli.
L’uomo si voltò per tornare verso la foresta, quando l’angelo gli apparve, e riprendendo la spada, mostrò all’uomo due immensi portali splendenti.
Attraverso il primo, vide una foresta molle d’acqua e rigogliosa.
Il secondo, invece, non era possibile sapere ove conducesse, poiché da esso emanava una luce abbagliante, che impediva la vista.
Senza esitazioni, l’uomo varcò la soglia del portale, ed entrò nello splendore della luce.


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