Vertigini

di

Daniele Barresi


Daniele Barresi - Vertigini
Collana "I Gigli" - I libri di Poesia
14x20,5 - pp. 42 - Euro 6,50
ISBN 978-88-6587-0280

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Libro scritto a quattro mai da Daniele Barresi e Salvatore Di Liberto


In copertina: Attracchi» fotografia di Daniele Barresi


Prefazione

Non poteva esservi titolo più azzeccato, più calzante, scelto da due giovani poeti. Il titolo è importante per un’opera, soprattutto se di poesia si sta parlando. Il titolo contraddistingue, indirizza l’interpretazione, ostinatamente combatte chi non capisce il suo significato, vivificando le parole per chi davvero vuole capirne il senso. Vertigini. Chi sceglie di prendere la strada della pubblicazione di tutto ciò che fino a quel momento era rimasto racchiuso nelle pagine di un Moleskine appena visibile dalla tasca dei pantaloni, fedele compagno di tante serate bagnate da pioggia e lacrime, si è incamminato verso una strada che mira alla definizione di se stesso come poeta. Certamente chi non pubblica, ma scrive poesia, può comunque considerarsi poeta, ma soltanto egli sarà a conoscenza di cosa è o di cosa non è; chi sceglie di porre il suo animo al giudizio degli altri merita l’appellativo, l’investitura, di poeta. Questo gli è dovuto, perché vuol dire che la sua anima è pronta, matura nel provare sensazioni che perdono la propria connotazione individuale, offrendosi agli altri come comuni, potenzialmente alla portata di tutti, se non in qualche modo universali. Queste poesie che andremo a leggere, in un primo momento appariranno come quell’erba che cresce ai lati delle tangenziali, selvatica e piena di vita, a tal punto da sfidare tutto ciò che di più brutto l’uomo sa infliggere ai propri simili e alle altre creature. Lo scoramento delle nostre speranze nell’arte e nella cultura, che da ogni parte ci viene imposto, ha foraggiato sempre di più la crescita dei due autori; lo stile diveniva sempre più sicuro man mano che i due autori venivano buttati giù dall’atmosfera depressa che oggi si respira nel bel paese, più aumentava il lavoro di limatura e di rifinitura.
I tempi in cui viviamo volgono verso un peggio che ancora si stenta ad immaginare, si fa a gara per vedere chi è più pessimista. Tuttavia il dolore è una benedizione per il poeta. Se questi ragazzi l’avessero lasciato scappare, come chi manca di coraggio, e avessero semplicemente cercato una scappatoia, io non starei scrivendo questa prefazione. La loro scelta è stata più ardua e più coraggiosa. Il vero poeta immagazzina il dolore, lo metabolizza, fino al punto di accoglierlo nello scorrere della pressione arteriosa e farne un calore interno, una lente per gli occhi. Soltanto in un secondo momento giungono le parole: se prima il dolore non entra dentro, fino al più profondo degli interstizi, non potrà assumere una forma con le parole. A quel punto si potrà cominciare a scrivere, quando si sarà passati dalla cognizione del dolore alla sua trasposizione in forme chiare. Questo fanno i poeti: sono sinceri ancor più quando sono giovani, quando il loro immaginario si traspone in modo chiaro sulla pagina. Infatti, le immagini che descrivono i due autori hanno il tratto del pittore impressionista o del fotografo scientifico. Il loro linguaggio è del tutto volto a rendere comprensibile il magma di quel mondo che vedono. Le figurazioni di Vertigini sono quello che tutti vediamo, anche se ci servono parole come queste per notarlo. La tentazione di porsi su una torre d’avorio dev’essere stata forte, ma a volte, inseguiamo quella stessa realtà da cui, inspiegabilmente, siamo perseguitati. Sono proprio le mere esperienze materiali che comportano una discesa disincantata dal rifugio della torre. Dunque la realtà è la vera fucina nella quale queste poesie sono state forgiate. Non c’è niente di metafisico, nulla di veramente immaginario.
Le vertigini si provano guardando dall’alto verso il basso; tuttavia esistono anche delle vertigini delle quali si può patire lanciando il proprio sguardo verso l’alto. Il rischio è un crollo della percezione che non consente più di distinguere quel limite oltre il quale si sprofonda nell’oblio dell’indefinito.

Guglielmo Sano


Vertigini


…Mesure d’un regard que la terreur enflamme
L’escalier de vertige où s’abîme son âme…

“Sur le Tasse en prison”,
Les Fleurs du Mal, C. Baudelaire


Il mio amico suona
un verso buio e rotto
ad ascoltarlo orecchie
rosse di quattro quarantenni
mentre sopra di loro
siedono alcune puttane donne
con il seno scoperto
bagnato di champagne.
– Un brindisi deciso
per il nostro amico!
Quale musica bella,
così che dir altro che bella non si può! –.
Rozzo pavone e grigio
gioisci dei lamenti
di sottane e cravatte.
E il tuo viso radi peli
e sparsi, tradisce democriteo
dall’efferate fatture un riso.

Daniele Barresi


Lacrime gonfie di terra
cadono
sull’asfalto lucido
e i fari delle auto
disegnano riflessi,
bagliori e ombre!
Già.
I fari.

A volte,
quando di notte incroci un’auto sulla strada,
sia essa
una squallida e buia statale
o una deserta e sperduta stradina di campagna,
sembrano guardarti
come occhi sgranati
dal terrore!
E tu sei lì
che accecato e inconsapevole
rispondi al loro sguardo
con uno analogo.
Poi, con indifferenza, prosegui.

Salvatore Di Liberto


Avvolge
lo scirocco
empio presagio
sa di risucchiate
palme e devastate
nel piccolo parco
delle ore bagnate.
L’ultimo respiro
del gigante
nutre la vita di una larva
insignificante
– In se magna ruunt –.
Mortifero il ritratto,
prezioso carbone,
uno scatto.

D.B.


Passeggio per la città.
Freddo e buio
lungo i viali
dove, spogli,
gli alberi
sollevano i rami
verso il cielo
imprecando.
Ai loro piedi
uno sterminato
cimitero di foglie.
Il vento le butta,
come cadaveri,
per aria
come se cercasse
qualcosa!
Urla disperato!
Come un padre
cerca di suo figlio il corpo
tra mille straziati.

S.D.


Della chitarra
correre lungo le corde
per essere stuprati.
Forse sognare
è danzare
proprio nell’aria
da questo leggero dito
dell’uomo lesto
ad uccidere,
quotidiana follia
il librarsi lungo note infinite
quali siamo. Al mio fianco.
Tenebra e accordi tristi.

D.B.


S’intrecciano!
Nuvole, cielo, mare…
Di mille fiammelle gialle
s’illumina un tetto scuro
come la pece.
Solo le temerarie nuvole
lo affrontano e lo sfidano,
e di tanto in tanto
sfrontate,
coprono persino la luna
sua regina!
Ma ella in fine sempre
dal velo bianco
riemerge e trionfa,
come a ricordare al mondo,
e forse allo stesso creatore,
che la sua pallida luce
sempre risplende
sull’umanità.

Signora della notte e del buio,
a lei si innalzano mille voci:
canti, preghiere, lamenti,
pianti, risa e imprecazioni…
Ognuna delle sue macchie
sembra un’ombra.
Presagio
che incombe su di noi.

Su tutto
infine
risuona il canto del mare.

Onda su onda,
la timida spuma,
attacca e si ritira.
Un’immensa distesa
increspata
dal movimento
perfetto
delle correnti
si confonde col cielo
e non uno,
ma due mari
sembrano unirsi all’orizzonte
divisi da un impercettibile confine.
Si toccano,
si compenetrano,
sino a riflettersi l’uno sull’altro…
S’intrecciano.

S.D.


Trapanar via il retrogusto
d’ogni staticità
trattenuta
alla vista di innumerevoli
capestri e spaventosi.
Stimolo e tensione
orgia fibrosa
nella morente stagione.
Mobile scala
ad ogni passo
è grigia nevrosi e acida
la cravatta rivolta sul trapasso.
Tu, Spartaco indarno,
a che vale
il presenziar del nodo al collo
intorno
se preziosa fibula
è testimone
d’assenza adorno?

Silentium et repentina fit quies.

D.B.


Occhi bassi
colmi di vergogna
si posano timidi
ad un tratto
sui miei
e subito si scostano.
Come una mano scottata…
Nel volto
la rassegnazione di chi vive tanto perché deve.

S.D.


Randagi ricerchiamo
delle mani
l’applauso
– Forza cantaci qualcosa! –
Immagina
titano ferrato
con le tre punte e il suon delle catene
che si dimena dilaniato
prima che l’aquila
faccia aspro suo pasto.
Corona e scettro
molti tengono
e stretti
e altri
a farli ridere sono costretti. Sopravvivere.
– Tene ovatio tua! –
Catatonico
il sipario sorregge
di mirto cinto
il capo.

D.B.


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