Racconto premiato di Daniela Gregorini


Con questo racconto è risultata 4^ classificata – Sezione narrativa alla IX Edizione del Premio di Scrittura Creativa dedicato a Lella Razza 2013


Premessa

Questo è il racconto del soccorso prestato al monitore “Faà di Bruno” da parte di undici donne di Marotta, capitanate da Erina Simoncelli, avvenuto nel lontano 1917. La presente narrazione vuol dare risalto più alla figura di quest’ultima eroina, insignita della medaglia di bronzo al valor di marina insieme alle sue compagne, piuttosto che all’impresa, già ampliamente esplicata dalla cronaca giornalistica e dalla letteratura. Si intende far emergere il carattere – certamente romanzato – forte, ardito, passionale, romantico, originale, carismatico di Erina, chiamata da tutti Rina, la Capitana, la quale, pur consapevole della sua ignoranza, (Socrate avrebbe detto: – …che sa di non sapere… – forse ritenendola, pertanto, una vera saggia!) dei suoi limiti nell’ affrontare la vita – metaforicamente raffigurata dal mare, da cui era attratta, ma allo stesso tempo intimorita, perché lei …non sapeva nuotare… – non disdegnò di sfidare il destino e di compiere un atto fuori dal comune, confidando solo nel “fuoco” che sentiva dentro, nell’amore, pur non conoscendolo…


La Capitana

Era carina Erina, era giovane. Aveva vent’anni e abitava in un paese ch’era un pugno di case sparse in una lingua di terra lungo il mare. C’erano rimaste solo le donne, in quella borgata, e i padri più avanti con gli anni e i figli piccoli. I giovani no: erano andati a far la guerra. Una guerra lontana, fra i monti, perché il Re voleva vincere un nemico austriaco. Era furba Erina, era simpatica. Erano poveri in quel paese, ma non si poteva dire che campassero male: avevano il pesce d’estate e nelle bonacce d’inverno; avevano i frutti dei campo nei mesi buoni. E lei, Erina, sapeva tirare fuori, nella cucina fuligginosa di casa sua, i companatici dal nulla: andava alla ricerca delle erbe odorose e, quando non c’erano più né olio, né lardo, lei cucinava con quel trito che dava sapore al cibo più povero.Siccome era molto intraprendente, la chiamavano Capitana. Quando la bora d’inverno faceva stizzire il mare e arrabbiare i pescatori, nel caldano bollivano solo acqua e polenta, se quest’ultima non era finita, come la lisca di aringa salata a penzoloni dal trave, in cui si strofinava per prendere sapore. Allora lei andava sulla battigia e, con un cencio di rete fra le mani spaccate dal vento gelido, restava immobile, china, dove vanno ad appollaiarsi i gabbiani. Ne sceglieva uno e di colpo l’acchiappava con la rete. Poi correva a casa e lo faceva bollire lentamente, condito come sapeva lei. E sua nonna la sgridava: – Con quella rete stanotte, si poteva acchiappare qualcuno dei passeri arrivati a svernare, non ‘sto gabbiano duro come un ciocco per il fuoco! – Ma quando a tavola i commensali avevano fra i denti quella carne divenuta tenera, con la quale anche il pane di ghianda diventava buono intinto nel sugo, allora sì che erano contenti! Era intelligente Erina, era ambiziosa. Non si truccava, perché la madre non voleva, però si pettinava come la Regina dell’Italia e aveva fatto un ombrellino come il suo, con un dipanatoio rotto che le aveva dato, in cambio di un tozzo di pane, Pimpinella, il robivecchi, che era soprannominato così proprio a ragione del pane condito con l’olio e aceto che gli davano tutti al posto dei soldi. Lei vi aveva cucito intorno tante frappe facendolo rassomigliava proprio a quello della Regina. A lei, però, non bastava quello che aveva attorno. Le sarebbe piaciuto andare a vedere cosa c’era al di là del mare, ma le prendeva un gran spavento. Le dava gusto vogare, pescare, gettare le reti, tirarle su, aveva imparato a fare tutto, ma non sapeva nuotare. Era convinta, dentro sé, che da quel mare, presto, le sarebbe arrivato qualcosa a cambiarle la vita di colpo. Era generosa Erina, era coraggiosa. Quel giorno c’era mare in burrasca che muggiva forte, quando all’alba, si avvertì un urlo che faceva venire la pelle d’oca, più del fortunale: un urlare nuovo, mai sentito che aveva cavato tutti dal letto per correre sull’arenile, infreddoliti quasi più per la paura che per il freddo. Appena il sole levò il paltò nero dal mondo, si incominciò a vedere da lontano una cosa nera in mezzo al mare. Chi diceva che fosse una nave del Re, chi diceva dell’Austria, chi diceva un sommergibile. L’unica cosa sicura era che era rimasta arenata dove l’acqua era poco profonda. Ma lei, la Capitana, non aveva indugiato oltre: fatto un cenno alle sue amiche, era scappata ad arraffare tutto quello che poteva rimediare senza parsimonia: pane, vino, frutti. Avvolto tutto in un fagotto, salì con le sue amiche sulla Gigetta, la batana più affidabil e aveva iniziato a vogare. E le madri di quelle undici ragazze, poverette, iniziarono ad urlare, picchiate dalle sberle in bocca del vento: – Cosa fate ?!? State ferme, zingare! Rientrate a casa, altrimenti ve le diamo! – Ma il capestro, a quelle figliole, non riuscirono a metterlo. Una madre, in ginocchio fra la rena, pregava e piangeva: la figlia non sapeva nuotare. Era un’eroina Erina, era innamorata. Cagliava, insieme alle dieci compagne, contro la bora: ogni tre spinte avanti, due indietro. Ma pian piano arrivarono proprio sotto quella nave nera: “Faà di Bruno” si leggeva… era italiana! E si capì dalle grida dei marinai i quali allargarono le braccia a quelle donne che li avevano salvati da una morte sicura, tra le onde di quel mare cattivo. Lei, la Capitana, s’era incantata a guardare gli occhi verdi come il mare di un marinaio che la stringeva forte fra le braccia, un marinaio che a lei sembrava di conoscere già, un marinaio che sapeva nuotare! Poi, presa la cima strappata della nave, aiutandosi con i denti, era ripartita insieme alle altre. Stavolta, con la bora a favore, erano tornate a riva senza fatica, per legare stretto quel cavo attorno ad una casa e dare un po’ di pace a quel monitore che così non affondava più. E la Capitana… aveva preso una bella cotta per quel marinaio che aveva salvato, che l’aveva salvata, che aveva braccia forti che sapevano nuotare, sapevano nuotare anche per lei… Era contenta Erina, era trionfante. Era stata conferita la medaglia al valore a quelle ragazze e alla loro Capitana la quale non aveva più abbandonato quell’uomo che le aveva portato il mare. Con lui, finita la guerra, era partita per attraversare tutto il mare, anche se non sapeva nuotare. Era grande Erina, era forte, come il suo mare.

Daniela Gregorini



Torna alla homepage dell'autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Avvenimenti
Novità & Dintorni
i Concorsi
Letterari
del Club degli autori
Le Antologie
dei Concorsi
del Club degli autori
Contatti