Racconto premiato di Daniela Gregorini


Con questo racconto è risultata 9^ classificata – Sezione narrativa VII Edizione del Premio letterario Il Club dei Poeti 2012


Questa la motivazione della Giuria: «Daniela Gregorini racconta la storia di una donna che, in una bella giornata primaverile, non riesce a trovare l’ispirazione per scrivere qualcosa di interessante e decide di andare a trovare i genitori. Il padre le parlerà di una storia d’amore che si eleva alla concezione dell’amore unico ed assoluto. La narrazione di Daniela Gregorini esalta i sentimenti e avvicina ad una dimensione più alta del vivere». Massimo Barile


Quel loro ridere

Stamattina è una bella giornata. Il sole di questo venerdì d’aprile appena iniziato ravviva i colori del mondo rinato. C’è un vento sottile, che mi punzecchia le guance senza infastidirmi. Sono a casa da sola. Spalanco tutte le finestre per far entrare la primavera. Potrei fare le pulizie o scrivere. Ma oggi non mi basto per riempire la casa, vuota come la mia mente dalla quale l’ispirazione ha traslocato proprio stamane, senza lasciarmi il nuovo recapito! Esco, vado a trovare i miei nel paese fiorito sul poggio, dove stanno da alcuni anni. È bella la primavere lassù. Una bellezza che soddisfa tutti i sensi: silenzio che riappacifica l’udito, fragranza di fiori spontanei, gradevole tepore collinare… Parcheggio l’auto sotto il senile olmo che ancor’oggi sta gemmando. Oltrepasso il cancello, proseguo nel viale ghiaioso e, scesi i gradini che conducono al prato, vedo i miei anziani genitori al loro abituale posto, l’uno accanto all’altro, come ogni giorno. Li raggiungo e li saluto: «Ciao ma’, ciao ba’!».
Appoggio la borsa sul muretto e scarto il dono che porto sempre loro, mentre babbo mi chiede: «Come mai qui? Sei venuta a trovarci tre giorni fa! È successo forse qualcosa?»
Lo rassicuro: «No, no, ba’, tutto bene. È che avevo voglia di fare una passeggiata».
«Ma il venerdì, di solito, non approfitti delle ore di riposo per scrivere?« continua mio padre arguto come sempre »forse oggi le biro e il computer non funzionano?» ironico come sempre!
Smascherata, devo dire, seppur malvolentieri, la verità:
«Beh, non sapevo cosa scrivere. Lo sai che non sono un juke box, non scrivo a comando. Sono le storie che scovano me, non io che cerco loro».
Ma mio padre sa essere molto incisivo, come solo lui sa fare, irritandomi come solo lui sa fare: «Di recente non c’è stato nemmeno un episodio che potrebbe ispirarti una storia?»
E mi tocca giustificare una questione che non vorrei chiarire neanche a me stessa, dove lui però, inconsapevole fautore della neo maieutica filosocratica, vuol condurmi: «Tanti, son stati gli eventi. Troppi, e troppo tristi, troppo dolorosi. Il troppo dolore inibisce anche le menti più fervide. Non ho voglia di storie amare. Oggi sono malinconica; è una malinconia flebile, quasi gradevole, quasi movente all’introspezione. Pensando al dolore, tale mestizia con una punta di leggero masochismo, potrebbe mutarsi in sconforto e farebbe troppo male. Sai bene che mi immedesimo parecchio nei sentimenti altrui, sai che non disdegno di indossare i panni stretti di altri, ma oggi no. Sarebbe come stare in un reparto di degenti contraenti malattie infettive nonostante un’immunodeficienza “umorale”. Oggi vorrei scrollarmi da dosso un po’ di tristezze polverose, riprendere fiato e tornare, corroborata, alla lotta consueta. Vorrei dedicarmi ad inseguire il bello, il nuovo e, magari, trovarlo. Credo sia questa bella giornata primaverile, che mi offre una “punta di sano cinismo”» come dice quella mia amica psicologa, che aiuta a ritemprare il coraggio e a perseverare nella ricerca della felicità, propria ed altrui.
Ma mio padre non si ferma: «Allora posso raccontarti io una storiella?»
D’istinto sferro uno sguardo di sorpresa: «Certo ba’, purché sia gioiosa, anche frivola e volgare se vuoi… purché allegra e, pertanto, terapeutica!» mi siedo sul muretto di fronte a loro.
Mamma sta in silenzio, babbo dà il via all’incipit: «Bene. C’era una volta un ragazzino pestifero che faceva scherzi a tutti. Era intelligente, gli piaceva imparare, ma a scuola veniva punito spesso a causa della sua vivacità: faceva scherzi ai compagni, al bidello, alla maestra… il suo sghignazzare metteva troppo scompiglio! Decise di non sollazzarsi più fra i banchi di un’aula scolastica, per passare le sue giornate fra i campi, aiutando sua madre, vedova, che doveva provvedere a ben sette figli. Imparò presto a fare di tutto: dal contadino al pescatore, dall’apicoltore all’allevatore e divenne pure un bravo casaro, un capace falegname, un abile fabbricatore di canestri. Divenne presto un uomo. Un bell’uomo: alto, occhi verdi, capelli ondulati che sotto la brillantina lo facevano sembrare un divo del cinematografo. Non perse l’allegria che lo teneva ancora legato alla sua fanciullezza conferendogli una seducente simpatia. Fu proprio quella risata bambinesca svolazzante sul suo viso, che fece innamorare di lui quella ragazza seria e “perbenino” che usciva solo per andare a messa. Lei, al contrario, non rideva mai, poiché la madre le aveva “decretato” che soltanto le ragazze “leggere”, “sciape” ridono; quelle serie invece, quelle morigerate, stanno serie appunto, non concedono niente, nemmeno un sorriso. Non si truccava, sempre per lo stesso decreto legge familiare. Ma era molto carina, pur nella sua austerità: mora, capelli ricciolini, sempre ben composti e ravviati ai lati con due fermezze. Si conobbero alla festa da ballo nell’aia di una famiglia imparentata con entrambi, sotto gli occhi vigili di madri e zie. Dopo poco tempo i due si fidanzarono ufficialmente, col consenso delle reciproche madri- monarche. Continuarono così i balli al suono spensierato dell’organetto, cominciarono i baci rubati dietro i pagliai, si susseguirono le ore passate a ricamare la dote e a costruire il letto, il cassettone per il giorno dello sposalizio, avvicendate dalle passeggiate sulla bicicletta di lui, comprata dopo tanto risparmiare. A null’altro pensavano i due giovani, null’altro colsero intorno a loro, nemmeno i segnali di belligeranza che si preannunciavano imminenti. Quell’allegro ragazzo fu chiamato alle armi e dovette partire. Ma prima di partire, sia a lui che all’amorosa scattarono una foto. Si scambiarono le foto, poi il distacco: lei nella sua casa seria, lui lontano dalla famiglia, lontano dall’amore.
E quel gioviale ragazzo passò ruvidamente dal calore dell’estate al gelo invernale e conobbe il dolore, gli stenti, l’odio, la crudeltà che gli rubarono l’allegria. Gli scomparve dal viso ogni risata, ogni innocente sorriso. Spento, visse come un automa quei giorni di stupida guerra. Perse l’illusione di tornare a riprendersi la sua vita leggera, la sua fresca giovinezza, i suoi mille, appaganti lavori, i sogni matrimoniali con la sua amata sposa… perse l’illusione di continuare a vivere…».
«Ma scusa,» lo interrompo contrariata «mi avevi assicurato una storia divertente!»
«Beh? Non l’ho ancora finita e già la giudichi?» ribadisce babbo, per nulla titubante.
Mi alzo di scatto, nervosa, ed approfitto del momento di disappunto, per prendere un po’ d’acqua per i fiori. Torno subito, già pentita, ma non gliela do per vinta. Prendo un tovagliolo e fingo di spolverare con impegno davanti a lui e continuo ad ascoltare il suo racconto che lui prosegue, calmo:
«Giudicheresti una fiaba nel bel mezzo dello svolgimento? Definiresti Pinocchio una fiaba triste? Solo se ti fermassi al campo dei miracoli! Aspetta… Venne fatto prigioniero, quel bel ragazzo di paese, e condotto in un campo di concentramento. Ma già dalla sua prima notte in quel posto, decise di scappare. Non ci stava a morire chiuso in una gabbia come un coniglio; meglio, pareva a lui, morire come un uccello, colpito da un fucile, mentre vola libero nel cielo infinito, tornando verso il nido. E così scappò, senza paura di perdere nulla, ‘chè quella vita che non gli dava più da ridere, non valeva più nulla per lui. Riuscì a scappare da un pertugio fra la terra e il filo spinato, riuscì a scappare dalle luci dei fari, occhi titanici che osservavano ogni angolo, dal lordume della guerra, dalla cecità della notte della vita… raggiunse la campagna dove trovò persone simili a quelle della sua vita di prima, che gli diedero abiti civili, umili. Quelli da soldato li bruciò, insieme alle pulci che lo stavano martoriando. Di nascosto, a piedi nudi, salendo e scendendo clandestinamente da treni merce, dormendo nei pagliai dei casolari isolati, mangiando uova e patate crude donate dai contadini, smagrendo la corporatura e ingrassando la barba, ritornò a casa. Tornò e bussò alla porta della sua fidanzata seria, quasi convinto che non gli avrebbe aperto. Dimenticato. Era questo il pensiero che lo martoriava più di ogni stento e lo costringeva a rimanere serio. Invece gli aprì. Lei era come prima, come nella foto che teneva nel taschino “agganciata” al cuore: seria, senza nemmeno un flebile sorriso. E non lo riconobbe. Scoppiò a piangere, quel ragazzo dall’allegria rubata. Pianse per la prima volta nella sua vita. Da quelle lacrime nuove, la sua ragazza colse una sfumatura familiare, colse il soffio dell’animo vitale del suo primo, unico amore e scoppiò a ridere, a ridere fragorosamente, abbracciandolo nonostante il fetore del sudiciume, la bruttezza del viso che baciò, baciò forte, fra le risate libere da ogni forma di gabbia…».
Sorrido, e sento una lacrima calda che si fa breccia lungo le mie guance fresche di grecale: «Grazie ba’» gli dò un bacio e una carezza.
Anche lui mi saluta: «Ciao. Spero che questi vuoti ti riempiano spesso la vita e che siano frequenti, così verrai sovente a trovarci». Poi mi rivolgo alla mamma, che mi guarda compiaciuta ma non dice niente; come sempre non perde il controllo: lei è seria! L’accarezzo e la bacio teneramente. Finisco di sistemare i fiori nei vasi di marmo panciuti delle loro lapidi: sette garofani e tre rametti di verde ciascuno.
«Ciao ma’! ciao ba’! A presto…».
Esco dal camposanto sul colle fiorito e torno a casa a scrivere questa fiaba vera, per fortuna a lieto fine.

Daniela Gregorini



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