Ababoles - papaveri rossi

di

Cristina Colombo


Cristina Colombo - Ababoles - papaveri rossi
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 140 - Euro 11,50
ISBN 978-88-6037-7340

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fotografia di Cateline Massart © Fotolia.com


Dedicato a me stessa, per non aver smesso di sognare (nonostante tutto).


Ababoles - papaveri rossi


La lluvia gris

Il mese di maggio quell’anno era particolarmente piovoso, ed io non ne potevo più… ma un mercoledì mattina mi svegliai con una sottile striscia luminosa che si diramava sul pavimento, spalancai le tende e sorridendo mi si presentò davanti una giornata di sole. Finalmente sembrava che il tempo avesse deciso di essere clemente, così me ne andai a scuola senza ombrello, lo desideravo da settimane.
Ah! Quasi dimenticavo, mi presento: mi chiamo Isabel, ai tempi di questa storia avevo diciassette anni e frequentavo il primo corso di una scuola ad indirizzo umanistico vicina a casa, i miei voti erano mediocri (forse perché l’indirizzo scolastico era stata una scelta di mia madre più che mia), ed io mi consideravo un tipo piuttosto normale o, meglio ancora, cercavo di esserlo; tentavo strenuamente di immedesimarmi nella folla brulicante che erano i miei compagni di scuola, e tutto questo solo perché essere come tutti gli altri senza dubbio aiuta, soprattutto a diciassette anni.
Comunque quel giorno, nonostante il cielo limpido del mattino, si rivelò essere invece il solito schifo. Già. Le nuvole si erano radunate in fretta, spinte da un vento insistente e trasportate dai vicini, per modo di dire, Pirenei. Verso le 12 il cielo si era fatto plumbeo e minaccioso… ed all’uscita da scuola mi ritrovai infine immersa in un acquazzone torrenziale. Mi misi a correre sotto la pioggia cercando un posto dove avrei potuto ripararmi, ma la cosa era tutt’altro che facile considerando che il 90% degli altri ragazzi aveva il mio stesso problema: tutti correvano qui e là come pazzi, con gli zaini che sbattevano sulla schiena, lanciando urletti che sembravano più di giubilo che disappunto, un vero pandemonio.
Nella confusione mi ricordai di un piccolo bar dietro l’angolo, non ci ero mai stata e generalmente preferivo non andare in locali sconosciuti da sola, era imbarazzante avere gli sguardi della gente puntati addosso quando aprivi la porta, ma quella era una situazione d’emergenza!
Sperando che smettesse di piovere nel più breve tempo possibile, entrai in quel bar cercando di vincere la mia fottuta timidezza.
Appena entrata soffocai un’imprecazione. Era stracolmo, non c’era un tavolino libero neanche a pagarlo e al bancone un assembramento di impiegati in pausa pranzo si contendevano panini e stuzzichini. Io me ne stavo lì bagnata fradicia, con uno zaino pieno di libri ed un principio di raffreddore, a guardarmi in giro con aria da ebete.
Proprio una bella situazioncina, niente da dire.
Continuai a guardarmi in giro sconsolata, ormai decisa a ributtarmi sotto il diluvio quando, improvvisamente, fra le ciocche bagnate che mi cascavano sugli occhi, notai una ragazza che mi faceva cenno d’avvicinarmi. Era sola ad un tavolino in un angolo, un po’ nascosto dalle tende di una finestra coi vetri socchiusi, ed aveva spostato la borsa mostrandomi una sedia libera accanto a lei.
Non sono mai stata una che dà molta confidenza alla gente, e probabilmente se non si fosse trattato di lei avrei girato i tacchi e sarei scappata come un razzo… ma sarebbe stato impossibile far finta di non vederla, sarebbe stato inutile cercare di convincermi che quella ragazza fosse come tutte le altre. Il bar era colmo di gente ma intorno a lei era come se ci fosse una barriera, era come se nel giro di chilometri lei fosse sola; mi sembrava quasi di sentire, tra il baccano della gente nel bar, il rumore della pioggia che entrava leggero dai vetri della finestra accanto al suo viso. Una brezza le agitava i capelli mandandoglieli proprio davanti agli occhi; sembrava fosse in un campo a fare un pic-nic e non in un affollato bar di una cittadina spagnola… come avrei potuto ignorare una ragazza così? e poi sorrideva inclinando leggermente la testa da un lato come fanno i pappagalli quando sono incuriositi e la cosa mi piacque da morire.
Mi avvicinai al suo tavolo con un sorriso a metà tra la timidezza e l’interesse, mi sedetti sulla sedia libera accanto a lei e sospirai ficcando lo zaino sotto al tavolo, “Meno male! Non mi andava proprio di annegare per strada, grazie”.
Scostai i miei capelli umidi incollati al viso e cercai di osservarla senza essere sfacciata, mi fece uno strano effetto… il modo in cui inclinava la testa, il mignolino alzato mentre beveva un liquido ambrato, gli occhi profondi e scuri, grandi, come quelli dei bambini.
Mi diede l’assurda sensazione di esserci già viste, e glielo stavo per domandare quando qualcosa mi fermò ‘no, non l’ho mai vista, da dove mi è venuta questa strana idea?’ pensai tra me e me.
Rimasi imbambolata per un attimo a fissarla, probabilmente con la faccia un po’ stranita, ma mi sentivo talmente annebbiata… era come se non mi ricordassi di saper parlare, era come se la pioggia mi avesse annacquato il cervello. Probabilmente avevo già cominciato ad entrare nella sua barriera.
Le sue prime parole furono una doccia fredda “Che strano… mi pare di conoscerti, ma non ricordo dove e quando… sei mai stata in Italia?”
Le parole diradarono la mia nebbia, mi venne un brivido lungo la schiena e starnutii. Le sorrisi tirando su col naso “Scusa, che hai detto prima? Se sono mai stata in Italia? No mai, perché sei italiana?”
Lei annuì “Ebbene sì, di Milano, niente pregiudizi su noi italiani, spero!”
In quel momento il cameriere passò lì accanto, lei lo fermò e mi chiese se volessi ordinare qualcosa; io tentennai, non ci avevo pensato.
“Una spremuta d’arancia?” Mi suggerì.
“Sì, grazie, adoro le spremute, soprattutto d’arancia!”
“Lo immaginavo – rispose. Il mio sguardo stupito la fece sorridere – trovo che tu e le arance vi assomigliate, non so perché, forse è per il colore dei tuoi capelli, bho non lo so…spero di non averti offesa, non volevo…”
Era proprio imbarazzata!
Risi di gusto.
Mi era capitato di sentirmi dire di peggio. E poi non potevo certo negare che i miei capelli fossero di un altro colore!
Lei mi tese la mano “Io sono Luna. E tu?”
Aveva uno stranissimo anello intrecciato e lo portava sul mignolo, tendendomi la mano l’anello sfavillò per un attimo quasi ferendomi gli occhi.
Probabilmente ero rimasta così impressionata da quella ragazzina (solo più tardi scoprii che era più vecchia di me di ben 5 anni) che ogni cosa di lei mi colpiva in modo esagerato.
Ci misi un attimo a decidermi di stringerle la mano mormorando “Isabel, Isabel Lindo”.
Mi strinse la mano con un sorriso luminoso “encantada, Isabel”
Chiacchierammo, e mi tenne incollata alla sedia con la sua conversazione trascinante, raccontandomi viaggi che probabilmente non aveva mai fatto, imitandomi professori ed amici del suo paese, ridendo di ogni piccola cosa, come se fossimo state amiche di vecchia data; nessuno dei miei compagni sapeva parlare come lei, i suoi gesti erano talmente teatrali ed io al suo confronto mi sentii così infinitamente piccola… Ad un certo punto mentre chiacchieravamo lei si girò verso la finestra “Ehi, ha quasi smesso di piovere, ti conviene approfittarne prima che ricominci”.
Pagò velocemente il conto al cameriere, raccolse la sua borsa e mi spinse tra la gente verso l’uscita. Stava per aprire la pesante porta di vetro quando si voltò di scatto verso il tavolino più vicino e rubò un tovagliolo di carta; io la guardai stupitissima (e pure i tre clienti seduti proprio lì) ma lei non se ne accorse perché si mise a frugare a testa bassa nella borsa; frugava intenta, coi capelli che perennemente le ricadevano come una cascata nera sugli occhi. Lei con gesti veloci e automatici continuava a rimetterli dietro l’orecchio ma erano così fini e lisci che ci rimanevano più o meno un secondo; alla fine, con un’esclamazione che non capii, tirò fuori una penna con il tappo viola, scarabocchiò qualcosa e mi tese il tovagliolo “Se vuoi, puoi chiamarmi a questo numero”. Presa alla sprovvista cercai il mio diario nello zaino e strappai la prima pagina, quella chiamata ‘Questo diario è di…’ e gliela consegnai “E questo è il mio numero”. Lei guardò la pagina, la piegò con cura e la mise nel portafoglio poi mi guardò e con uno spintone mi mise in strada “Corri dai che non piove più!”
Io mi misi a correre senza pensarci e quando mi voltai verso il bar lei non c’era più.
Camminai verso casa senza riuscire a distogliere il mio pensiero da lei, cercando di capire che tipo fosse, ma proprio non ci riuscii. Avevamo parlato per più di mezz’ora ma non ero riuscita ad inquadrarla, o meglio, l’unica cosa certa era che non era come gli amici che avevo avuto fino a quel momento, forse era per il fatto che fosse straniera, ma mi sembrava che la sua diversità andasse oltre…
Quando arrivai a casa mi accorsi di avere una fame da lupo, in tutto il giorno avevo bevuto solo una spremuta d’arancia! Mi feci un panino ed affondai i miei pensieri nel prosciutto.
Il mattino dopo il sole inondava di nuovo la stanza. Guardai rammaricata il cielo sereno, pronta all’ennesima beffa del tempo, e mentre spiavo le nuvole lontane il mio pensiero volò a lei.
Pensavo che non l’avrei più rivista, credevo che il nostro fosse uno dei tanti incontri che si fanno, ma mi sbagliavo.
Eccome.
Durante le giornate successive al nostro incontro, mentre girovagavo per la città, cercavo di scorgere la sua figura fra la gente, nemmeno me ne rendevo conto, ma ero così ansiosa di rivederla che quasi non pensavo ad altro. Ma, nonostante questo mio desiderio, evitavo di chiamarla, avevo il tovagliolo con il suo numero di telefono in tasca, ma tentavo d’ignorarlo. Non so perché, ma avevo la stupida paura che se l’avessi chiamata sarebbe potuto succedere qualcosa di brutto. Mi diedi della scema, ma ugualmente non la chiamai.

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