Un sogno lungo un treno

di

Cristiano Comelli


Cristiano Comelli - Un sogno lungo un treno
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 84 - Euro 8,50
ISBN 978-88-6037-9726

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In copertina: fotografia dell’autore


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori in quanto l’autore è 1° classificato
nel concorso letterario Poeti dell’Adda 2009


Per i propri sogni, a volte, bisogna anche sapere soffrire. È anzi il soffrire per essi che conferisce loro maggiore valore. Giorgio è un ragazzo come tanti che sognano, ne ha in testa uno in particolare: pilotare una locomotiva. Sa che dovrà difendere quella sua aspirazione con i denti, perché i veri nemici dei proprii sogni sono coloro che li minimizzano, che li riducono a semplici ragazzate, che dicono “passerà”. E Giorgio dice: no, non passerà la voglia che ho di rendere quel sogno materia da poter accarezzare, spirito con cui poter viaggiare nel grande tragitto della vita, storia che potrò costruire e rendere magari poi base di un’altra storia che porta in sé la ricchezza della mia e quella che essa saprà crearsi autonomamente. Ai ragazzi, oggi, i genitori dovrebbero fondamentalmente dare un insegnamento tra i vari messaggi educativi: non vergognatevi di sognare, e se per caso questo sogno non sfocia in realtà , non pentitevi di averlo fatto, resta comunque una parte ineludibile e ricca di voi stessi. Non appoggiate i sogni dei vostri ragazzi quando è troppo tardi come ha fatto il padre di Giorgio: sarebbe un fare del male a voi stessi e ai vostri figli, un danneggiare e danneggiarsi che non è degno di chiamarsi vita.


Un sogno lungo un treno


Alla mia famiglia


1.

COSì NACQUE IL MIO SOGNO

Il mio nome è Giorgio, ma potrei chiamarmi in qualunque modo perché nella storia che racconterò ci si possono rivedere in molti. Forse tutti. Nella mia vita ritengo di avere compiuto qualcosa di straordinario. Non lo dico per presunzione ma solo per la gioia di avere potuto vivere un’esperienza come quella di cui ho deciso di rendervi partecipi. Sono riuscito a realizzare un sogno. L’ho coccolato come un bambino fin dalla più tenera età. L’ho protetto dalle insidie di chi in esso non credeva, inseguito con impegno, fatica e responsabilità. Ho cercato di fare di esso un canto di libertà, di quella libertà di cui fai dono soltanto a qualcosa in cui credi davvero. Perché dico che tutto questo costituisce per me qualcosa di straordinario? Perché ho realizzato l’obiettivo di riuscire a camminare in compagnia del mio sogno. E questo mi fa sentire in qualche modo un privilegiato in un’epoca nella quale qualcuno rinuncia a pensare al proprio futuro e si condanna al carcere della contingenza o tiene imprigionati i proprii sogni in una marea di insicurezze. Ho quindi deciso di raccontarvi la mia storia per farvi comprendere che dei vostri sogni vi dovete sempre fidare. Se ritenete che essi siano un elemento indispensabile per la vostra esistenza non permettete che il tempo li incenerisca. Alimentateli in continuazione come la legna fa con il fuoco, fate comprendere loro l’importanza di esserci nella vostra vita. Così, ne sono certo, avrete trovato la chiave dorata che spalanca la porta a ogni felicità.
Il mio sguardo, accompagnato da due dolci sentinelle profumate di magia che si chiamano dolcezza e meraviglia, osservava all’orizzonte il lento e maestoso procedere di una locomotiva verso una meta misteriosa. Quella stessa locomotiva che pareva carezzare i binari con la tenerezza di una madre percorreva il mio pensiero con il calore delle cose che davvero sanno scaldare il cuore. Attraversava i campi sempre alla medesima ora, per me l’osservarla era diventato un’irrinunciabile abitudine. Al punto che, senza udire il suo fischio, consideravo la mia giornata incompleta.
Il primo ricordo che a essa mi lega risale a quando avevo soltanto sei anni. Dalla finestra della mia camera mi compiacevo di ammirare con la leggerezza dell’anima che sempre un bambino porta con sé l’immensa distesa di campi che circondava casa mia. Sempre uguale, eppure sempre nuova, non ci si annoia mai ad accordare i battiti delle proprie ciglia con la sinfonia dello sbocciare multiforme della natura. Pensavo non di rado a chi dovessi rendere grazie per la fortuna di aver potuto godere di tutto questo. Scorsi all’orizzonte un punto nero, impercettibile ma al contempo, anzi, forse proprio per questo affascinante. Lo percepivo appena, per pochissimi secondi, poi svaniva nel nulla. Sentivo come una sensazione di impotenza il non riuscire ad afferrarlo compiutamente con lo sguardo, l’essere incapace di sottometterlo a esso, di renderlo mio prigioniero per poterlo amare.
Mia madre, sorprendendomi un mattino a scrutare il panorama e incuriosita da questo mio atteggiamento, mi chiese cosa ci trovassi di tanto attraente nel guardare sempre lo stesso paesaggio.
Poi, con quel senso che soltanto le madri possiedono, intuì: “lo so, sai, che ti piace guardare la locomotiva, anch’io talvolta lo faccio, devi sapere che è uno dei grandi prodigi creati dall’uomo e dalla sua mente”. Come avesse fatto a intuirlo, a leggermi in quel modo nel pensiero non l’ho mai compreso ma riuscì a intercettare alla perfezione la mia gioia nel vedere la locomotiva. Per me, bambino abbracciato a una curiosità ancora acerba seppur viva, quelle parole ebbero l’effetto di una folgorazione, furono il segno di qualcosa che non mi era più completamente sconosciuto. E in me si accresceva il desiderio di avvicinarla fisicamente.
La percezione non mi era più sufficiente, lievitava di giorno in giorno la voglia di sentirla tra le mie mani, di starle vicino come se fosse la mia amica del cuore. “Ogni volta che la vedrai passare dinanzi ai tuoi occhi – mi disse un giorno mia madre – significa che lei ti sta chiedendo di dedicarle un pensiero, caro Giorgio. La sera, quindi, prima di addormentarti, riservale un pensiero e mandaglielo idealmente. Lei lo diffonderà nel vento e per ogni angolo del mondo in posti meravigliosi che nemmeno puoi immaginare; la tua mente si sentirà leggera e sarà come se i tuoi pensieri avessero imparato a volare. E sarà anche come se ci fosse un po’ di te in ogni angolo della terra”.


2.

E CRESCEVA GIORNO PER GIORNO

Il tempo trascorreva e ogni mio pensiero era appunto per lei; vi erano giorni in cui mi sorprendevo persino a parlarle, come se possedesse davvero un’anima. E in effetti, nel mio immaginario di bimbo, ce l’aveva. Mi piaceva pensare che tutte le altre persone intente a osservarla le dedicassero un pensiero.
Cominciai davvero a considerarla un incontro tra pensieri.
L’attendere il suo passaggio quotidiano divenne per me una sorta di missione cui tenere fede a ogni costo, un compito che sentivo di avere nei confronti di me stesso e del mondo.
Preparavo con estrema cura la riflessione che intendevo donarle, con l’emozione di un bambino che sta per prendere parte a una festa e vuole scegliere per il suo amico il regalo più bello. Frequentare la scuola mi appassionava molto, contrariamente a quanto avveniva per altri ragazzi della mia età. Per i ricordi ormai sbiaditi che possiedo di quegli anni, non ero quello che si dice uno studente “secchione” con l’attenzione sempre protesa sui libri, avvertivo però tutto il fascino di poter riempire gli spazi vuoti della mia mente con scoperte sempre nuove. Seduto nel mio piccolo banco, con un occhio sul libro e sul quaderno e un altro proiettato verso la finestra, pensavo alle molte nozioni che avrei potuto apprendere e poi applicare alla realtà quando avessi realizzato il mio sogno di poter pilotare una locomotiva. Già, perchè era ormai chiaro in me il fatto che il solo modo per amarla davvero era riuscire a diventarne un macchinista.
La scuola sorgeva oltre la distesa di campi che abbracciava la mia casa, quando vi arrivavo, ogni mattina, avevo già gli occhi ricolmi della solarità e della leggiadra semplicità delle spighe di grano.
Un mattino mia madre, entrando come di consueto per darmi la sveglia, mi rivolse una domanda secca: “ascolta Giorgio, secondo te la locomotiva viaggia sola per il mondo?”. “Ma no – le risposi con fanciullesca innocenza – sei tu ad avermi detto che viaggia insieme con i pensieri che le regaliamo ogni giorno”. “No – soggiunse – volevo dirti che vi è qualcuno che la dirige nei luoghi meravigliosi di cui ti ho parlato”.
Da bambini accade non di rado di pensare che gli oggetti inanimati possiedano una volontà propria. Mia madre decise in quell’occasione di chiarirmi il concetto con una similitudine: “quando eri proprio piccolissimo ti prendevo per mano per evitare che tu finissi nei pericoli – mi disse – la stessa cosa fa il macchinista con la sua locomotiva”. Si accese in me una luce che non mi avrebbe mai più abbandonato, come qualcosa che ti avvince il cuore e non ti lascia solo per un attimo. Promisi infatti a me stesso che sarei stato anch’io uno di quei macchinisti. D’altra parte già a scuola avevo subordinato, sia pur con l’innocenza e l’ingenuità di un bimbo, ogni attività e ogni pensiero allo svolgimento di quel lavoro. Il pensiero divenne in breve tempo un’ossessione, tanto da farmi cominciare a trascorrere notti insonni e da suscitare i frequenti rimproveri dei miei, ovviamente preoccupati del fatto che il mio rendimento scolastico venisse a calare.


3.

LE PRIME PERPLESSITÀ DI MIO PADRE

Vedendo quale notevole fatica facessi ad alzarmi la mattina per recarmi a scuola cominciarono, come era probabilmente normale che fosse, a preoccuparsi. Mio padre, in particolare, insisteva con il dire: “è soltanto una locomotiva, capisci, soltanto un pezzo di ferro”. Quella banalizzazione della mia passione mi feriva profondamente, per me era come ricevere una coltellata nei visceri. Quel “pezzo di ferro” era infatti divenuto il mio interlocutore privilegiato. Ormai non vi erano più dubbi: la locomotiva doveva essere l’approdo ultimo dei miei desideri, e più mio padre insisteva nel minimizzare la mia aspirazione più questa aumentava di intensità.
Lasciai i ricordi che le avevo affidato durante l’infanzia e, con il trascorrere degli anni, mi lasciai invadere dall’idea che un giorno ne avrei condotta una.
Non mi ci volle molto tempo per capire che questa scelta avrebbe creato un conflitto fortissimo e purtroppo insanabile con i miei genitori. In particolare lo avrebbe generato con mio padre che già mi vedeva destinato a portare avanti la sua bottega di falegnameria. Per i miei, insomma, la locomotiva doveva essere null’altro che un tenero ricordo della mia infanzia. “Questo pensiero – disse mio padre un giorno – ti è entrato in testa in modo assurdo, è una bella favola e come tale la devi prendere. Ormai non sei più un bambino e devi essere in grado di distinguere da solo i sogni dalla realtà, non vorrei essere costretto a dirtelo un’altra volta”.
Fin da quando frequentavo la scuola media, avevo sviluppato l’abitudine di raccontare ai miei compagni, tediandoli non poco, i passaggi della locomotiva, le sensazioni che mi trasmetteva e i pensieri a lei donati. Alcuni mi prendevano in giro ma non ci facevo alcun caso, altri, invece, mi seguivano con interesse.
Ricordo ancora la tenerezza di un mio compagno di classe che ogni giorno non mancava di chiedermi, e non per celia ma con estrema serietà, quale pensiero avessi dato alla locomotiva il giorno prima. L’ostilità di mio padre nei confronti dell’aspirazione che avevo cresceva di giorno in giorno e in un modo per me incomprensibile. Era una persona decisamente poco incline ai sogni e ai voli pindarici, attento come era sempre stato invece agli aspetti concreti dell’esistenza. Per lui vivere la vita significava gestire nel modo migliore la quotidianità degli eventi, io, invece, avevo lo sguardo proiettato più lontano, avevo quel senso di progettualità del futuro che a lui mancava. Aveva sempre svolto la professione di falegname a poca distanza dalla nostra abitazione. Se ne stava rinchiuso per ore nella sua bottega, solo e dinanzi a una piccola lucerna.
Ammiravo la passione con cui viveva e svolgeva il suo lavoro, mi domandavo spesso quali pensieri avesse, se fosse davvero contento della vita che il destino gli aveva riservato ma sentivo al contempo che il mio mondo non sarebbe stato quello.
Questa sua maniacale “legnomania”, come spesso la definivo, aveva finito persino per farlo isolare un po’ dal mondo. I miei avevano pochissimi amici e ogni tanto mamma gli rimproverava proprio questa scarsità di frequentazioni. Mia madre aveva, rispetto a lui, un carattere piuttosto differente. Quando era piccola, infatti, i suoi genitori le avevano impedito di realizzare la sua aspirazione a diventare un’insegnante. Sapeva quindi bene cosa significasse dover rinunciare a qualcosa in cui si crede profondamente. Possedeva un carattere molto dolce e affabile che talvolta la portava persino a essere eccessivamente remissiva con mio padre dandogli ragione anche quando in sé sapeva che aveva torto.
Non trascorreva giorno senza che mio padre mi ripetesse la litania di tutti i sacrifici fatti per mettere in piedi la falegnameria. Soleva sempre dire che un giorno, di tutti quei suoi sforzi, avrei raccolto io i frutti e ne sarei stato felicissimo. Le sue sfuriate si facevano sempre più frequenti e intense. Ciò che mi irritava in modo particolare del suo atteggiamento era il fatto di industriarsi per trovare le parole necessarie per farmi sentire colpevole del mio sogno.
In falegnameria ci ero stato molto spesso quando ero piccolo. Mio padre mi aveva persino insegnato a intagliare oggetti graziosi nel legno. Era qualcosa che mi dava una sensazione di piacere ma non mi trasmetteva comunque particolari emozioni.
Una delle frasi che mi ripeteva in quei tempi era: “il legno, non il ferro devi portare dentro di te, il legno esprime la dolcezza del cuore dell’uomo, il ferro, invece, la sua durezza e indifferenza, quindi il legno, non il ferro devi amare”. La battaglia tra noi due divenne ancora più aspra quando portai a termine il ciclo di studi delle scuole medie. Il suo pensiero era che, a quel punto, avessi già studiato a sufficienza e possedessi già il minimo livello di istruzione per lui necessario per affrontare il lavoro. Era giunta, a suo avviso, l’ora di affiancarlo in falegnameria per poi lentamente rilevarne la conduzione quando fosse arrivata per lui l’età della pensione. Il mio desiderio, però, andava in tutt’altra direzione ed era di frequentare il liceo scientifico. Devo ammettere che, in quell’occasione, mia madre compì un vero e proprio miracolo nel riuscire a convincerlo a farmi proseguire gli studi.
Il liceo si trovava a circa cinque chilometri da casa mia, ci andavo a volte a piedi altre volte in bicicletta. Al terzo anno di studi superiori compresi che la scuola, per quanto importante e da me considerata con il massimo dell’impegno, non fosse sufficiente da sola per formarmi e avvicinarmi alla mia aspirazione.
Cominciai così ad acquistare le prime riviste sui locomotori e a condurre una sorta di studio parallelo da autodidatta. Lo facevo con la paga che i miei mi davano settimanalmente. Mi ripromisi di non leggere mai quelle riviste durante l’orario scolastico, in realtà però poi cedetti alla tentazione di farlo più di una volta e in alcune occasioni me ne tornai a casa con qualche nota. Imparai, per fortuna, a perdere il vizio.
Riuscire bene negli studi era per me un punto d’onore, visto che quel proseguimento sui banchi me lo ero conquistato con ostinazione e con un pizzico di aiuto di mia madre. Anche in casa parlavo volentieri di quanto apprendevo a scuola e persino mio padre che non era stato d’accordo sulla mia scelta di continuare gli studi esprimeva talora un sorriso bonario nel sentirmi così partecipe di quanto studiavo. Ma questi momenti erano in realtà molto rari. Poi riprendeva con il suo atteggiamento di sempre: “vedrai – ripeteva come una cantilena – la falegnameria è il tuo vero mondo e lo scoprirai presto”. L’unico momento della giornata in cui eravamo riuniti tutti e tre era la cena. A essa si attribuiva, in casa mia, un significato quasi solenne.
Ben presto, però, la vidi trasformarsi in un orrendo ring da pugilato nel quale ero impegnato a respingere i “pugni” di mio padre. Mia madre, di questo, soffriva moltissimo anche se il suo carattere dolce e mansueto le vietava di abbandonarsi a particolari scenate. Una sera, però, prima che andassi a coricarmi, mi prese in disparte e disse: “lo sai quanto papà ami il lavoro che svolge, anche se ormai ho capito che della falegnameria non te ne importa nulla; ti prego, però, cerca di mostrarti ugualmente interessato al suo lavoro e di evitare, d’ora in poi, di nominare la parola locomotiva quando siamo a tavola; non voglio passare il resto dei miei giorni a vedervi litigare per questo tuo sogno, penso di non meritarlo”. Decisi di provare ad accontentarla, anche se ero molto perplesso e inoltre ero convinto che non avrebbe per nulla funzionato.
Non si creda che io esageri, ma non parlare della locomotiva era per me come non poter respirare. E infatti quella situazione non durò a lungo. Restai molto deluso. Avevo pensato che almeno mia madre mi avrebbe dato un appoggio concreto nella mia scelta e invece scorgevo in lei la stessa mancanza di entusiasmo presente in mio padre. Forse avevo sbagliato fin dall’inizio a interpretare il suo pensiero o forse, chissà, per vedere mio padre sereno, aveva cambiato idea. Ma dall’altra parte c’ero sempre io, suo figlio con tutto il diritto di scegliere che cosa fare della sua vita.
Avrei potuto evitare di parlare dell’argomento ma non sarei mai riuscito a celare il malessere che provavo nel contenermi. Il sorriso e il dialogo, durante le cene, erano sempre più assenti. Ero persino arrivato a leggere di nascosto le riviste sui treni che avevo ormai accumulato in misura notevole. Quella situazione non avrebbe potuto protrarsi per molto, così decisi di mettere subito le cose in chiaro con mia madre: le ribadii di non poter fingere di avere per la falegnameria un interesse che mi era del tutto estraneo e le dissi di avere diritto di disporre della mia vita come meglio credessi.
Mio padre aveva una visione piuttosto arcaica e tradizionale della famiglia: quello che il capofamiglia diceva era legge per definizione e non si poteva assolutamente contestare. Al massimo si poteva chiedere un chiarimento se non si fosse capito bene il messaggio.
Mio nonno, che non avevo mai conosciuto se non attraverso quanto mio padre mi aveva raccontato di lui, gli aveva impartito un’educazione molto rigida e manesca fatta spesso anche di grandi ceffoni. Nonostante questo, del nonno papà conservava sempre ricordi dolci. “Nelle sue mani – mi disse un giorno – non vi era odio ma soltanto bene, ho sempre pensato che se non mi avesse dato delle sberle sarebbe stato peggio perché questo significava che fosse indifferente nei miei confronti.
Anche con quegli eccessi, però, intendeva comunicarmi il messaggio che la vita deve essere presa così, senza essere né forzata né complicata. Il suo scopo era di farmi capire l’importanza di rispettare un genitore quando dice qualcosa per il tuo bene”.
Ripensando spesso a quelle parole comprendevo, in realtà, che così giusto mio nonno nei confronti di mio padre non lo era mai stato se lo aveva costretto a scegliere una determinata strada. Lo stesso intendeva fare lui con me. Quando parlavo con i compagni di classe del liceo, li sentivo spesso esprimere la loro soddisfazione perché i loro genitori li avevano lasciati liberi di compiere le scelte che ritenevano migliori. All’origine del contrasto con mio padre, pensai sempre, c’era anche una ragione per così dire generazionale. Lui, infatti, era sempre stato convinto del fatto che i giovani appartenuti alla sua generazione fossero del tutto diversi e comunque migliori rispetto a quelli della mia età e non perdeva occasione per ricordarmelo. “Voi ragazzi di questa generazione – diceva – non siete più come quelli a scorza dura dei bei tempi andati, credete di poter cambiare e governare il mondo e non siete nemmeno capaci di controllare voi stessi, siete convinti che il legno duro si possa tagliare a mani nude senza impiegare la sega, avete perduto il senso della realtà. No, ai miei tempi le cose funzionavano molto diversamente, c’era meno possibilità di scegliere, sì, ma più semplicità e quanto dicevano i genitori era tenuto in sacrosanta considerazione”. Aveva insomma lo schema mentale di un genitore d’altri tempi. Sono tuo padre, quindi ho ragione per definizione e finchè vivrai sotto il mio tetto non potrai fare altro che assoggettarti alle mie regole. E questo mi faceva ribollire il sangue.
Non avevo fatto in tempo a conoscere mio nonno. Era morto due anni prima che io nascessi, mi sarebbe molto piaciuto conoscerlo anche perché, forse, avrei compreso la ragione vera di tanto ostruzionismo di mio padre nei confronti di quanto intendevo realizzare. Magari, pensavo, sarei riuscito ad averlo come alleato, a instaurare con lui quella complicità che spesso nonno e nipote riescono ad avere e a fare cambiare idea a mio padre.

[continua]


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