Katia, morire e rinascere

di

Cristiano Comelli


Cristiano Comelli - Katia, morire e rinascere
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 316 - Euro 15,50
ISBN 978-88-6587-7852

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In copertina: fotografia dell’autore


Prefazione

La vita è un continuo passaggio da una schiavitù a una libertà. È un invito a infrangere i limiti che abbiamo per scoprirci più leggeri e forti. Finiamo sempre per scoprirci schiavi di qualcosa che però ci chiede di liberarci di lui. E la libertà diventa allora una conquista, non qualcosa che ti sia stata data dall’esterno ma qualcosa che ti sei costruita giorno per giorno, a prezzo di grandi fatiche. Lo dico sempre a tutti coloro che incontro: per essere liberi bisogna imparare a riconoscersi schiavi, perché allora il cammino verso la libertà diventa un’affascinante avventura. Cosa intendiamo per schiavi? È sostanzialmente, credo, il capire che siamo una parte infinitesima di qualcosa che è molto più grande di noi. Non è rilevante il discorso che si possa credere o meno in Dio, ma il capire che comunque come uomini siamo meno di quanto ci circonda e con esso dobbiamo porci in costante rapporto. La definisco “schiavitù benigna” perché non comprime la libertà ma ne sollecita il graduale, imperioso emergere. Capita di scoprirsi schiavi di qualcosa, di un modo di pensare da cui non ci si riesce a liberare, di condizionamenti sociali, di un esistere che è diventato una routine, ma quanto importa è riuscire ad affrancarsi da tale schiavitù. E questo è quanto ci consente di modellare progressivamente la nostra libertà. Si è schiavi anche di perdite di persone care. Katia è uno di questi casi; lei riconosce che la perdita di queste persone potrebbe generare in lei una dipendenza dal loro ricordo ma trasforma tale dipendenza in sua ritrovata libertà. Per questo deve pagare un prezzo assai alto, perché il destino mette tra lei e la sua rinascita un ostacolo chiamato frigorifero; il freddo di questo frigorifero finisce per impossessarsi della sua anima ma poi lei riesce a umiliarlo con il calore della sua forza di volontà. Lo fa sia assecondando l’inatteso, che nel romanzo avrà la figura di Antonia, sia assecondando quanto le si offre come stabilità di affetto e cioè Melissa. Questo prova che per rinascere occorre abbandonarsi a quanto non era previsto e, al contempo, a quanto invece ha salde radici in noi. L’affetto che non ci si attende e quello che, invece, ha già preso stabile dimora nel nostro essere ed è lì non disposto ad abbandonarci neppure per mezzo minuto. In Katia ho voluto leggere la debolezza pronta a mutarsi sempre in nuova forza, e capace di farlo perché ha saputo prendersi sulle spalle di volta in volta le croci della sua sofferenza. Soffrire, e chi ha già letto il sottoscritto in altre occasioni ricorderà perfettamente che lo scrisse già, è componente ineliminabile della vita umana. Il punto non è che tale sofferenza ci sia né quanta ve ne sia, ma il modo in cui la si sa gestire e tramutare in risorsa di energie nuove per affrontare la vita in modo rinnovato e più scafato. La sofferenza è una scala infuocata, si può scegliere di rimanerne ai piedi e così non si corre il rischio di scottarsi oppure di scalarla a mani nude, avvertendo le lacerazioni causate dal fuoco ma al contempo imparando cosa sia il dolore e quindi come gestirlo. Un dolore non può restare senza nome, e infatti Katia non ve lo lascia mai senza. Paradossalmente, chiamare un dolore con il suo nome significa farselo amico. Un antico adagio recita che per combattere il nemico occorra conoscerlo. Ecco, come possiamo dunque combattere il dolore senza riconoscere l’identità che in esso si cela? In questa manifestazione di memoria di sofferenza, che magari si può chiamare anche romanzo, potrete trovare dei personaggi che, se vorrete, saranno considerabili come paradigmi di altrettante caratteristiche. Katia è la vita presa a pugni che non molla mai, proprio come l’albero che, scosso da fortissimo vento, resta saldamente ancorato alle sue radici non dando alla natura la soddisfazione di sradicarlo. Quest’albero sa di non essere solo nella sua lotta per sopravvivere, sa che una parte di natura lo difende e questa parte di natura sarà ravvisabile in Melissa. Matteo e Aziz sono inizialmente il sole nella vita di Katia e poi la loro morte li muta in pioggia violenta che rischia appunto di abbattersi su quest’albero senza pietà; è la pioggia delle lacrime, del rimpianto, della debolezza che Katia non può permettersi di fare trionfare. Degli altri personaggi che scorgerete desidero vi facciate un’idea a prescindere da quella che io ho avuto in testa, come del resto di quelli di cui vi ho proposto una chiave di lettura. Se, come ben affermava il filosofo Epicuro di Samo, molte volte per approdare a grandi piaceri occorre passare da grandi dolori, allora questo romanzo lo vuole rivelare in modo inequivocabile. Anche perché, a ben vedere, il piacere che derivi dall’avere attraversato un dolore è amplificato. Sai che non ti è stato regalato, ma che te lo sei davvero conquistato e lo hai fatto con la grandezza di te stesso e della tua capacità di crederci sempre. Sai che, accanto al dolore che provi, vi è sempre una luce inizialmente fioca che ti illumina sul modo di sconfiggerlo; e questa luce si fa sempre più forte, fino ad abbagliare il dolore e a consentirgli di non puntare più il suo sguardo sulla nostra vita. Dolore comincia per D, come Dio del resto. No, non si traggano conclusioni affrettate. Quella d di dolore acquista un senso, e Katia lo capisce per via, se è combattuta con l’altra d di Dio. E allora per l’uomo si ha la possibilità di dominare (ecco di nuovo la d) il dolore, di dargli (ecco ancora la d che compare) un senso, di difendere (la terza d), la propria vita da qualsiasi sofferenza che minacci di travolgerla. E così scaturisce la quarta D che ci traccia il cammino, d come domani. Sembra quasi una concatenazione logica, dolore, Dio, dominio, domani. Il dolore lo si legge con gli occhi della presenza di Dio, in questo modo lo si domina e ci si pone le premesse per il domani. Ma se vogliamo questo, nell’ottica di Katia, può essere anche il romanzo delle quattro m; morte, Melissa, mano, meraviglia. La morte è quella che prova nel cuore quando Matteo e Aziz se ne vanno dal mondo dei vivi, Melissa è colei che, appunto, le tende la mano, e così la vita ridiventa meraviglia. Potrei anche dilungarmi a stabilire altre concatenazioni partendo da diverse lettere dell’alfabeto e dalla figura di Katia, una potrebbe essere frigorifero, freddo, fede, fortuna; il frigorifero esprime il freddo di un’anima che rischia di macerarsi nel dolore, poi arriva la fede che dà alla vita un esito fausto, questo significa in tale accezione fortuna, non qualcosa che viene per capriccio del caso ma qualcosa che, viceversa, si sia saputa suscitare con il proprio impegno personale e la capacità di non arrendersi. Ma questo è l’ultimo esempio di concatenazione logica che offro, non mi dilungherò oltre per non tediare. Mi piacerebbe invece lo facesse chi legge ricalibrandolo sulla propria vita. Ma la vita è logica, mi sono domandato innumerevoli volte? Non lo credo, in tutta onestà. Perché se fosse supina alla logica, la vita smarrirebbe la sua multiformità, il suo elemento di sorpresa, la sua capacità di conversione progressiva dall’incomprensibile al comprensibile. La vita è incomprensibile che si fa comprensibile. Non totalmente, è ovvio, ma comunque in modo costante. E più ci conosciamo, meno diveniamo schiavi di noi stessi. La schiavitù deriva forse, ancor prima di tutto il resto, dall’ignoranza non di noi stessi, ma dell’idea di doverci conoscere. È una missione che abbiamo verso noi stessi e gli altri. Non un dovere, ma una missione. Un dovere, infatti, è qualcosa che trasmette la sensazione di costrizione, dunque ci fa piombare di nuovo nella sfera della limitazione; la missione richiama invece alla libertà, ne è un meraviglioso inno. Katia avverte una mutazione in se stessa e si accorge, cammin facendo, che il dolore non è tempo sprecato: esso esiste per fortificarci, e la condizione per cui questo possa avvenire è saperlo veramente chiamare con il nome di dolore. Questo permette di non minimizzarlo, di dargli un’identità; si dice spesso che per combattere il nemico lo si debba conoscere e questo vale anche per ogni dolore che ci si trovi a vivere. Quel dilaniarti dentro che il dolore sa fare così bene ti crea un vuoto, ma paradossalmente quel territorio è spazio di creatività, di rinascita. E quando hai imparato a fare questo, sai portarti dentro tutto ciò che ti ha causato dolore appunto perché lo vedi come una spinta a rinascere. Katia fa questo con le figure di Matteo e Aziz; esse sono il dolore della perdita ma anche le molle per superarla. Katia sente di non dover rispondere a una certa “chiamata” di Melissa; e non lo fa per sadismo né per mancanza di sensibilità, sa che solo rifiutando un certo bene se ne può presentare uno più grande e duraturo. E allora ti viene in mente Epicuro e pensi quanta ragione avesse a ricordarti che spesso a un grande dolore segue un grande piacere o che, per avere un bene più grande, si possa rinunciare per via a una serie di beni più piccoli. E ricorrerà, spesso, in modo anche martellante, il tema della morte. Di una morte che si riesce a domare, paradossalmente, quanto più la si abbia dentro. Se la morte dimora in noi, è una sfida che ci chiama ad affrontare. Per combattere la morte bisogna avere dentro la morte. Perché quella morte ti permette di guardare in faccia la vita sotto forma di risorse che possiedi in te stesso. Verrebbe da dire che non si possa combattere l’idea della morte se non la si sperimenti. Il riferimento è a una morte interiore che la protagonista di questo libro sperimenterà a lungo. Morte altrui, morte propria, rinascita, questo è lo schema che vedrete ripetersi. Naturalmente in modo più articolato di quanto lo si stia qui compendiando. La morte prepara alla rinascita intesa anche come trionfo del perdonare e del perdonarsi. Perdonare chi ci ha lasciato soli dandosela, perdonarsi per averla data vinta a quella morte e non osare guardarla in faccia. Poi lo scenario cambia e, quando la si osserva, in quello stesso momento si comincia a sconfiggerla. La morte è quindi il presupposto fondamentale per la rinascita, se la si sappia davvero “leggere” e fare propria. Naturalmente il riferimento è alla morte in senso spirituale che ho sempre ritenuto più grave di quella fisica. Quest’ultima è un non vivere in senso assoluto ma la prima è un vivere in malo modo. In malo modo se, appunto, non riesce a farsi forza per rinascere ma resta confinata all’ambito della presa d’atto della morte stessa. E vi sarà, lungo il cammino del libro, il tema della magia di ogni nuovo incontro, del fatto che, dopo di esso, non si è mai uguali a se stessi, si è sempre qualcuno di diverso in grado di portarsi dentro un respiro nuovo. Ci si costruisce attraverso l’incontro, con buona pace di chi invece ritiene che l’incontro vada ad annullare le identità di chi lo vive. E invece è un incontro che include, mai che esclude, e se per caso si fa imposizione non è certamente tale da meritare la qualifica di incontro. La protagonista lo capirà bene, così come capirà che l’incontro non viene mai vanamente né mai evita di lasciare una traccia del suo nettare benefico. Ci si è soffermati sui personaggi, non volendo sancire il primato dei momenti sugli uomini perché sono sempre questi ultimi a prevalere sui primi, non fosse altro che per il fatto di esserne demiurghi. E dunque non i momenti e i loro uomini, sovvertendo l’espressione del sociologo Erwing Goffmann, ma gli uomini e i loro momenti. Sarebbe certo da approfondire il tema del rapporto tra uomo e momento, ma sia sufficiente tale sottolineatura a evidenziare la centralità del costruttore del momento sul momento che poi si fa realtà oggettiva. Ma vi è un ulteriore aspetto da evidenziare, e auspichiamo che ci si perdonerà questa concessione al filosofico; che tali momenti, una volta creati dall’uomo particolare, hanno la imprescindibile vocazione alla dimensione dell’universalità. E prenderemo volentieri in prestito la formidabile costruzione filosofica che uno dei massimi esponenti dell’idealismo, Friedrich Schelling, per cui nel particolare si possa ravvisare l’essenza dell’universale, la coincidenza di finito e infinito come egli la individuava nell’inimitabile scandirsi dell’epos omerico. Ogni momento finito di ogni persona regala l’infinito di tutte le altre perché vi contribuisce. E quest’infinito non svanisce per il semplice fatto che i demiurghi dei momenti sono inghiottiti dalla morte. Vuole essere, questo, anche se vi troverete presenze di più d’una persona morta tragicamente, un libro di speranza, perché la protagonista proprio intende simboleggiare quella speranza, quell’eterna rinascita che non si lasciano comprimere da alcun freno posto dal destino. Anzi, vorremmo davvero che la protagonista del libro fosse per voi la speranza pronta a prendervi sempre per mano anche quando avvertite la sua mano fredda o pensate ch’essa si sia dileguata. Ebbene, molto modestamente vorremmo dimostrarvi che le cose non stanno in questi termini. Che la speranza non abbandona mai l’uomo che la ama. Esige di farsi amare e in cambio dà un amore moltiplicato all’infinito. Sì, forse è proprio questo ciò che, lungo queste pagine, vorremmo fare passare. Ama la speranza e la speranza ti amerà. Senza abbandonarti mai e rivelandoti per quale sentiero stia la tua autentica felicità.

L’Autore


Katia, morire e rinascere


Il declino dell’esistere che morde l’anima: dal caldo della vita al freddo del frigorifero

Il frigorifero si trovava, in aspetto quasi troneggiante, proprio al centro della mia cucina di modeste dimensioni e aveva finito, nella mia mente e in pochissimo tempo, per assumere l’aspetto di un gigante con le braccia tese a morsa sulla mia anima priva di argini e di difese; era sempre più seducente con il suo lacerante modo di luccicare e resistergli era diventata per me una missione impossibile da sostenere. Non so perché decisi di collocarlo al centro della cucina, di certo, però, quando lo feci, non avrei mai immaginato che esso avrebbe costituito la mia maledizione e avrebbe minacciato di inghiottirsi completamente il mio futuro; che un elettrodomestico banalissimo deputato a conservare soltanto cibi sarebbe diventato anche il carceriere della mia anima è cosa su cui avrei riso verso chiunque me lo avesse pronosticato.
Chissà, forse quella collocazione centrale era il presagio di quanto sarebbe poi un giorno diventato ma ovviamente, in quel momento, non lo sapevo. Possedeva il fascino a calamita di un ragazzo o una ragazza da copertina di riviste di moda o di una vetrina riccamente addobbata per le feste natalizie da cui non riuscivi a staccare gli occhi o a distrarre il pensiero; ma osservare quelle vetrine ti rendeva un pieno di felicità pur se non potevi magari comprare nulla, osservare quel frigorifero era invece l’espressione della mia lacerante impotenza a negarne il ruolo che aveva assunto nel mio esistere. Più ci provavo, più ne ero risucchiata. E capivo come, a dispetto di quanto si possa credere, talora l’uomo possa finire schiavo degli stessi oggetti che egli ha prodotto per propria volontà e con l’intento di usarli, non di esserne usato. Non potevo liberarmene, arrivai anzi a considerarlo un’indispensabile estensione di me stessa; con lui ci parlavo persino riuscendo così a scattare una fotografia su quella follia che avevo sempre riscontrato in altri e non pensando che potesse un giorno appartenere anche a me. Quello, per lui che naturalmente non possedeva un’anima, era il segnale per farmi capire che aveva in pugno la mia vita; aveva come disegnato una ragnatela in cui mi inoltravo sempre più inebetita ma in fondo persino fiera e dalla quale uscivo sempre più prostrata nella mia esistenza fragile.
La prima volta in cui sentii nominare la parola “bulimia” andai sul vocabolario per vedere esattamente che cosa significasse; sapevo che altre persone anche di mia conoscenza erano passate attraverso problemi con il cibo ma non riuscivo a identificare esattamente cosa fosse, la sola certezza di cui disponevo era che non fosse una parola che designasse qualcosa di positivo e potesse rendermi felice: non volli guardare sul vocabolario per curiosità originaria, dal momento che fino a quel momento con il cibo avevo avuto un rapporto equilibrato pur se ero una golosa e di tanto in tanto tendevo a esagerare un po’. Mi imbattei in quel termine a causa della morte per questa malattia che ti devasta piano piano di una mia carissima amica, Sabrina, che, dopo essere stata abbandonata da un ragazzo verso cui provava sconfinato amore e con il quale conviveva da ben dieci anni con il proposito di sposarsi, scelse questa forma di suicidio lenta e inesorabile per urlare al mondo il suo desiderio di non appartenergli più. Ricordo quando pronunciava, come una lacerante litania, le tre parole che non si vorrebbero mai sentir dire da alcuno: “la faccio finita, abbasso la vita”.
L’amore, quando finisce, ha l’effetto di uno spillo in un palloncino, lo devasta completamente come appunto un amore concluso devasta il cuore. Ma, così ho sempre sostenuto, per il fatto che un amore finisca non significa che finisca l’amore. Un amore non è l’amore, il primo è mutevole, il secondo stabile. Ed è quello che Sabrina non riuscì a capire. Dall’esterno, però, siamo tutti maledettamente bravi a dire agli altri che non hanno capito. E infatti io lo avrei constatato sulla mia pelle. Forse ebbi la mia parte di colpa nel sottovalutare quel ripetuto segnale di desiderio di autoannientamento che da lei proveniva perché poi mi accorgevo che cercare di rincuorarla era farla precipitare in una situazione peggiore; non smetterò mai di rimproverarmi di non avere fatto abbastanza per lei o quantomeno di non avere compiuto quanto fosse più giusto per risucchiarla da quel maledetto vortice di morte. Quello stesso vocabolario che mi rivelò il significato della parola si trovava sul tavolo della cucina di casa mia quando per la prima volta la bulimia decise di catturare anche me e di prendermi in ostaggio l’anima; ma allora non ne avevo bisogno poiché il mio andare a controllare dopo il dramma di Sabrina mi aveva già messo in guardia su quale stritolante cancro fosse.
C’era la finestra aperta da cui penetrava un fortissimo vento, ma quella pagina non faceva il minimo cenno di spostarsi, come se il destino le avesse posato addosso le sue mani poderose per bloccarla; già, quella pagina conteneva una parola che per me sarebbe diventata sinonimo di maledizione, lettere che mi stritolavano la gola come la mano di un assassino efferato. Infatti lessi il permanere di quella pagina nel suo stato come il segno inequivocabile che la bulimia sarebbe diventata la mia ossessionante compagna di vita; è incredibile come a volte simboli in apparenza insignificanti ti sappiano invece comunicare cosa sarà della tua vita.
Io e Sabrina condividevamo tante cose, ci raccontavamo tutto, avevamo diversi interessi in comune; adoravamo i fiori, amavamo concederci lunghe passeggiate in bicicletta in un parco che sorgeva vicino a casa sua, ciò che non condividevamo era invece il volontariato, mia grande passione che lei non condivise mai perché, diceva, bisogna pensare innanzitutto a se stessi. Non capivo, lo confesso, questo suo egoismo ma imparai comunque ad accettarla come era, del resto mi era sempre stato insegnato che di un amico devi sapere accogliere tutto e non soltanto quello che ti piace.
Al centro a farmi visita ci venne una sola volta e rimase persino traumatizzata alla vista dei miei amici disabili; provai forte sconcerto ma, per non danneggiare l’amicizia, scelsi di non dirle nulla. Mai avrei immaginato che ai nostri interessi comuni si sarebbe aggiunta, tragicamente, anche la schiavitù della stessa malattia; aiutare le persone era diventata un po’ la mia vocazione ma con lei sentivo che più mi davo da fare per sollevarla da quella situazione e più la facevo precipitare nel baratro. Era lei stessa a dirmi di non aiutarla perché, diceva, “ormai la mia vita è segnata per sempre e non potrò mai più risalire, Fausto non tornerà e se non torna lui non può tornarmi nemmeno il sorriso; sai che cosa mi lacera maggiormente, il fatto che ora stia donando le sue ore a un’altra che sicuramente non è alla mia altezza, io sola lo so capire completamente, io sola, e lui non ha capito questo, maledetto, maledetto”.
Una volta, nel sentirla affermare ciò, le mollai un sonoro schiaffo e ci mancò davvero un nulla che l’amicizia si rompesse per sempre. Dare un volto preciso ai termini, alle parole, a volte può essere un modo per amare di più il mondo, ma altre volte può rivelarsi anche una strada per riuscire a detestare se stessi in modo più consapevole e velenoso. Ripensavo anche all’impotenza dei miei discorsi quando cercavo di persuadere Sabrina che in amore si può sempre ricominciare anche se il destino ti ha riservato un dolore talmente forte da non riuscire neppure a dargli un nome o un volto; io non avevo conosciuto un’esperienza di abbandono fino a quel momento ma cercavo, questo con tutti e in tutte le situazioni, di immedesimarmi il più possibile nella parte di chi provava una grande sofferenza. La invitavo a uscire da se stessa e a venire con me nel mio centro per provare a cimentarsi nel volontariato, consapevole che donarsi agli altri è spesso un’ottima cura per le proprie ansie. Non che con questo io avessi mai concepito in senso utilitaristico il mio slancio solidale ma aiutare gli altri mi ha sempre dato benessere. Sabrina, coerentemente con quanto aveva sempre pensato, rifiutò sempre i miei inviti in questo senso; “e poi – mi disse – se sto male io come puoi mai pensare che riesca a fare stare bene qualcun altro?”.
Ricordo i tanti mazzi di rose con bigliettini affettuosi che le facevo recapitare, come fossi un suo corteggiatore, e tutto questo per dirle o per farle comunque capire che non avrebbe dovuto prestare il minimo orecchio a quella pur insistente voce di autodistruzione che stava tentando di colonizzare le sue vene e la stava riducendo sempre più a un automa nelle mani di quella maledetta, sempre più indominabile spirale da ingurgitamento di cibo.

[continua]


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