Incontro al divin verbo

di

Cristiano Comelli


Cristiano Comelli - Incontro al divin verbo
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 176 - Euro 13,00
ISBN 978-88-6587-9252

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In copertina: «Monumento a Papa Giovanni XXIII – Loreto» © dtatiana – Fotolia.com


Il Vangelo interroga e dà senso all’interrogarsi. L’uomo, attraverso esso, non vive solo il suo presente ma anche il suo passato e il suo futuro recuperando la sua dimensione di totalità e divenendo un solo tempo con Cristo e con Dio. È questo a insegnargli che la vita è un progetto e mai un insieme di istanti tra loro slegati e che il suo significato si annida al di fuori della singolarità dei giorni e delle ore per acquisirsi gradualmente come valore unico: in ogni minuto di vita vi è una vita, in ogni vita vi è Cristo. E in quel solo Cristo il valore e lo scopo della vita che si svelano. Senza ombra di equivoco.


Prefazione

Il senso di una riflessione, l’approdo di un cammino

Quando mi sono accinto a questo lavoro l’ho fatto con una consapevolezza chiara: di fronte al Vangelo un uomo non smette mai di interrogarsi. Esso rappresenta la risposta al senso della vita che l’uomo si pone continuamente come obiettivo in ogni contesto di spazio e di tempo. L’uomo interroga le sacre scritture e ne è interrogato in un rapporto che è, da parte del primo, di amore e timore insieme. Il termine “timore” deriva dal verbo greco timein che significa “onorare”. Non lo dobbiamo quindi prendere, quando ci accostiamo alle sacre scritture, come un “avere paura” nel modo in cui siamo abituati a concepirlo. E se proprio questa debba essere l’accezione, quell’avere paura è un invito ad andare oltre essa e a liberarsene lentamente attraverso il rapporto mai compiuto e sempre in evoluzione con la parola. Con la p maiuscola, quindi quella di Dio. Nel personale cammino che sto conducendo mi sono convinto con decisione che senso della vita e approdo al Vangelo siano la medesima cosa. Cioè, in altri termini, che il Vangelo indichi tutto quanto occorre essere perché la vita sia autenticamente vita. E sono verità, quelle di Gesù Cristo, con cui anche chi non lo pone come riferimento, se davvero desidera compiere un cammino di crescita, è chiamato a confrontarsi. Perché valori come amore, giustizia, rispetto per il prossimo, sono valori che si rivolgono a tutti, non ai credenti soltanto. Ma Gesù dice: quei valori vi rendono davvero immagine e somiglianza di Dio. Dunque vi rendono uomini al di là del vostro essere uomini terreni, a cui restereste confinati qualora quei valori decideste di vivere solamente nella dimensione terrena e senza alcun riferimento al “dopo”. Gesù ci dice con chiarezza che la verità ci renderà liberi. E ho sempre visto in questo l’essenza della parola, liberare ciò che l’uomo è e non ingabbiarlo. E chi ha ridotto il cristianesimo a una religione di precetti che intrappola in essi l’uomo e non gli consente di comportarsi con la massima libertà davvero non ha capito nulla del valore che il Vangelo ha per modellare davvero la libertà dell’uomo. Perché non gli nuoccia né nuoccia al suo simile. La parola ci parla. Sempre. E distintamente a ognuno di noi pur essendo uguale per tutti. Siamo agli occhi di Dio unici e irripetibili, accomunati dall’essenza di essere uomini e suoi figli ma ognuno con le proprie peculiarità. Concetto che dovremmo certamente portarci con noi in quest’epoca di tentativi reiterati di massificazione che, comprimendo la specificità dell’uomo avendone paura, lo vogliono monoorientato, votato a una sola moda. Questo non significa antropomorfizzare il Vangelo nel senso di piegare Dio e Gesù alle esigenze dell’uomo. Questo sarebbe un modo utilitaristico di vivere la parola che non pare davvero avere alcunché a che fare con la fede autentica e con l’autentico percorso verso Dio. Ho cercato di accostarmi con umiltà a questa parola, interrogandola e facendomene interrogare. La parola ci stimola, non rappresenta mai, né Gesù lo chiede, un meccanico modo di darvi esecuzione come se fosse un libretto di istruzioni per costruire una barca. Il senso della comunità cristiana mi pare risieda anche in questo, condividere la parola ciascuno partendo dalle sue sensibilità. Perché la parola ha, al tempo, uno e mille significati. Per Dio ne ha evidentemente uno soltanto e chiarissimo. Per l’uomo ce l’ha secondo quanto il suo cuore la interroghi e ne sia interrogato vivendo poi di conseguenza delle conclusioni che, di volta in volta, ne trae. Se la parola comunicasse a ogni uomo le stesse sensazioni, la condivisione comunitaria non avrebbe probabilmente ragione d’essere. Una cosa, però, la comunica a tutti, che esiste un Dio che ci ama e che concede all’uomo di cercarlo e così di scoprire il solo senso vero della sua esistenza. Nel cammino delle mie riflessioni che non hanno, sarebbe ovvio ma ribadiamolo comunque, alcuna pretesa di completezza e di esaustività, mi sono avvalso anche di due filoni che ringrazio sentitamente: da un lato le riflessioni di sacerdoti qualificati nelle varie omelie a cui ho avuto il privilegio di assistere, dall’altro alcune letture, in particolare filosofiche, che mi sono state e mi saranno sempre compagne. Vi è una riflessione nella quale paragono i discepoli che Cristo sceglie di fare procedere a due a due a fede e ragione. “Fides et ratio” la cui fecondità di incontro era già stata ottimamente evidenziata dall’indimenticabile San Giovanni Paolo II. Una ragione che deve fare i conti con i suoi limiti, che deve uscire da se stessa e non avere paura di dichiarare la propria insufficienza e di gettarsi tra le braccia della fede. E una fede che deve saper prendere per mano la ragione nella consapevolezza che essa le fornisce le basi per viversi anche con consapevolezza culturale oltreché con slancio di cuore. Si pone insomma l’esigenza di attuare il passaggio da una ragione “autoreferenziale” ancorata soltanto al mondo dell’uomo a una ragione avvinta alla fede che consente all’uomo di andare al di là della propria finitudine. Sono diversi i temi suggeriti dalle letture evangeliche. Uno stesso tema, poi, induce a più riflessioni. Perché è anche un altro il valore aggiunto della parola: ogni volta che la si legga non è mai uguale a se stessa, lancia sempre nuovi messaggi, nuovi stimoli a scoprire la vita e a diffonderla. La parola è insomma “unità multiforme” e in questo sta davvero la sua ricchezza. L’appello che lancia è quello a una fede creativa, in grado di ridiscutersi, alimentarsi, se necessario rigenerarsi continuamente. È la multiformità di una parola che sa sempre mostrarti il senso del vivere sotto un aspetto nuovo. Tutto è la parola, tranne che scontata. Le stesse omelie dei sacerdoti durante le funzioni liturgiche lo provano in modo inconfutabile: provate ad assistere a una serie di funzioni nelle quali la lettura evangelica sia la stessa, scorgerete le differenti suggestioni che durante l’omelia il sacerdote ha coltivato nel suo cuore e diffonde poi al popolo. E la parola, sì, anche se può sembrare una contraddizione, è anche il silenzio. La parola prepara infatti, quando la si legge con attenzione, a coltivare il silenzioso riflettere dell’anima su di sé. Gesù si fida dell’uomo. Del resto Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. E proprio perché si fida lascia che sia l’uomo a farsi sempre più scavare dalla parola e a trovare in essa le multiformi espressioni del suo amore per lui. Dio non ama l’uomo in un modo soltanto, lo ama in mille modi differenti. E non soltanto perché ogni sua creatura ha un valore particolare che la diversifica da tutte le altre. Alcuni si sono domandati e si domandano tuttora perché i Vangeli scelti siano quattro e ne siano stati scartati altri che pure, magari, avrebbero illuminato sulla vita di Gesù. Taluni fanno riferimento, per esempio, a un Vangelo di Tommaso e a uno di Giuda. Questo è un problema che, sinceramente, non intendo pormi. La scelta dei quattro Vangeli è stata certamente dettata da un’illuminazione. I quattro evangelisti sono stati fedeli trascrittori della vita e delle opere di Gesù. Si parla di “parola rivelata” e quindi chi ha operato la scelta dei quattro Vangeli lo ha fatto accogliendo appunto quei Vangeli che contengono la verità e l’essenza della parola di Dio. E la fede è anche nutrire fiducia in questa capacità di scelta in chi la fece secoli fa, non da solo ma ispirato. È un momento storico nel quale di recuperare il Vangelo si sente fortemente la necessità. Anche soltanto come elemento di confronto se si scelgono altri riferimenti per la propria vita. Il pluralismo delle pseudo verità storiche che non hanno mai avuto una risposta ultimativa, né mai l’avranno, sul senso e sul destino dell’uomo e del mondo si sbriciola di fronte alla sola parola che sia in grado di considerare l’uomo nella totalità del suo tempo, passato, presente e futuro. La storia ci consegna l’uomo quale è stato. La filosofia quale potrebbe essere, non quale è perché non può esistere un abc di chi e come debba essere l’uomo a partire da un altro uomo come lui. E in ambedue i casi, comunque, si resta entro i confini dell’uomo che non si sa tendere verso ciò che gli vada oltre. Solo l’abbraccio del Vangelo è in grado di consentirgli di attuare questo passaggio. E di restituirlo alla sua temporalità complessiva consegnandogli il senso non soltanto del passato e del presente ma anche quello del futuro. I Vangeli contengono anche il domani dell’uomo. Questo domani si chiama salvezza. Nessuna filosofia può inglobare in sé questa dimensione futura che fa capire chiaramente all’uomo che la sua vita non solo non si esaurisce nella dimensione terrena e materica ma ha anche un porto sicuro a cui tendere, Dio. I filosofi lo possono al massimo ipotizzare, Gesù ne dà la certezza. E non con i ragionamenti soggettivi e mai uguali gli uni agli altri dei filosofi ma con i miracoli. Come ho proceduto nell’individuare i vari passi è presto detto. È lo stesso criterio che mi ha fatto nascere l’idea di confezionare questa pubblicazione. Ho assistito ad alcune funzioni, non per questo scopo ma per cercare di svolgere il mio dovere di buon cristiano non solo di nome, ho udito alcune omelie e mi sono detto: ma perché non provo a rileggere in modo più approfondito le pagine di Vangelo che mi sono proposte al di là di quanto mi è, sia pur preziosamente, riferito dai sacerdoti che di volta in volta celebrano messa? E quindi ecco il risultato. È un riflettere sulla parola che non poteva non essere anche un riflettere su me stesso. Non voglio pensare neppure per un minuto né di avere scritto un trattato sui Vangeli né di avere dato insegnamenti a qualcuno. Sono una persona che ha tentato e tenta di “vivere” il Vangelo allo stesso modo in cui lo possono fare tutti gli altri, con diverse suggestioni si capisce, ma per fortuna è così. Il Vangelo ha la proprietà di sapersi calare nella storia pur trascendendola. Non è conclusione originaria mia, ma tale la faccio volentieri. C’è una storia che certo si svolge in un contesto particolare ma sa diventare universale. Perché non è una storia, ma è “la” storia. È quella del Dio che salva il mondo e annuncia all’uomo un concetto fondamentale: non sei solo. Il che significa anche che la storia di tutti i tempi è unificata in questa storia di salvezza, a essa tende, pur con tutte le sue imperfezioni. Ogni epoca storica promana da quell’epoca in cui Gesù annuncia la salvezza e la sua parola per tutti noi e, passo dopo passo, tende verso la realizzazione del regno di Dio. Per quello il tempo della storia dei Vangeli si rende tempo di partenza ma anche di arrivo. Quasi a volere affermare, per la salvezza siete nati e alla salvezza tendete. Ogni epoca mette a disposizione se stessa per affermare questo suo avvicinamento al regno di Dio. E infatti Gesù dice: “Io sono con voi fino alla fine dei tempi”. A significare, appunto, che questo cammino storico non si svolge orfano di una guida e quindi l’uomo non lo compie in solitudine. Ma anche che ogni epoca più della precedente avvicina al realizzarsi pieno del regno di Dio. Il che non sta a significare che un’epoca mortifichi quella che l’ha preceduta, ma che ne rappresenti l’evoluzione, un passo successivo senza rinnegarla. Pensiamo ai vari contributi culturali. Il pensiero di Kant, Spinoza, Cartesio, Hegel e molti altri non rappresenta l’umiliazione di quello greco ma è l’estensione del suo cammino. La concatenazione storica è al servizio di un processo di circolarità che parte da Dio e termina in Dio. Questo fa venire alla mente, ad esempio, l’itinerarium hominis ad deum così ben rappresentato da Dante Alighieri in quella sublime “Divina commedia” che rimane l’insuperato monumento alla poesia. Un insieme di sperimentazioni dal peccato alla redenzione che porta direttamente alla contemplazione della grandezza divina. Peccato e redenzione, i due volti dell’uomo, due volti che Dio valorizza entrambi per far capire all’uomo quale sia la sua reale condizione di ricerca. Una ricerca che si compie nel tempo. Che diventa alleato dell’uomo grazie al messaggio evangelico laddove invece preso a sé stante lo si concepirebbe come carcere. Solo la parola certifica un tempo che sfoci nel tempo, un tempo che prepari “il” tempo. Un semplice ancoramento alla dimensione umana del tempo non può realizzare quest’obiettivo. Ecco perché, leggendo il Vangelo, non si è soltanto a contatto né con quel tempo ma con il proprio tempo ma a contatto con il senso del tempo vero, il solo vero, quello disegnato da Dio ed espresso attraverso il messaggio di Cristo. Ed è con quest’abbraccio che l’uomo sa fare divenire il suo semplice e transeunte tempo un tempo con la T maiuscola perché partecipa del tempo universale e salvifico di Dio. Buona lettura.


Incontro al divin verbo


Incontro al Vangelo di Matteo


1.

Matteo 13,36-43

Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa: i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”. Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno. E il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli.
Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo.
Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace dove sarà pianto e stridore di denti.
Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del padre loro. Chi ha orecchi intenda!”

Nel profondo del verbo

Questo passo evangelico può creare un colossale fraintendimento perché potrebbe indurre qualche superficiale a ritenere che sia Dio a decidere il male finale dell’uomo. E non vi sarebbe conclusione più falsa perché è l’uomo stesso a condannarsi al male con i propri atteggiamenti. Dio, quando separerà la zizzania dal grano, prenderà atto del fatto che l’uomo abbia scelto nella propria vita di essere incline al bene o al male. Compiere il bene si articola in mille modi diversi ma converge sempre in un unico punto: fare la volontà di Dio, dunque scegliere di seguire i suoi insegnamenti trasmessi tramite Gesù Cristo. Ed è una scelta che l’uomo compie in tutta libertà e responsabilità perché Dio, avendolo creato libero e responsabile, non gliela impone bensì gliela propone soltanto. E con questo dovrebbero essere liquidati definitivamente coloro i quali pensano in modo deterministico a un Dio dittatore. Dio non è soltanto colui che concede libertà e responsabilità all’uomo ma è anche colui che in esse nutre piena fiducia. Il fatto che le conceda è di per sé stesso già elemento certificatore del suo confidare in un buon uso di questi doni da parte dell’uomo. Dunque compiere il male che cosa è se non un tradire la fiducia di Dio? È un dire tu ti fiderai anche di me ma io non mi fido affatto di te. E questa è la peggiore negazione e mortificazione che si possa infliggere alla propria libertà e responsabilità. Dunque che cosa è il compiere il male se non appunto tradire la fiducia in Dio e cancellare la nostra stessa identità di uomini negando a noi stessi quei due doni senza i quali non possiamo compiere alcun cammino? Nel passo in questione Gesù è il seminatore, non colui che fa crescere il seme, quest’ultimo è compito che egli affida all’uomo che può così mettere a frutto per se stesso e per i fratelli quella libertà e responsabilità che Dio gli ha affidato. E anche questa è una prova suprema della sua fiducia in noi. Io pongo un seme, a te affido il compito di non disperderlo e di fare fruttare nel modo migliore quel seme attraverso i doni che ti ho concesso, attraverso la natura che ti ho donato creandoti e amandoti. Posto che creare e amare, in Dio, coincidono, e la creazione è sempre espressione di un amore. E dunque Dio ci responsabilizza rispetto alla nostra vita, diversamente si avrebbe un bel dire che egli ci ami se oltre a mettere il seme si assumesse anche la responsabilità di farlo crescere. Quella, appunto, la lascia a noi e non certo per disimpegnarsi ma perché desidera che il suo creato si faccia a propria volta promotore di bene. Ecco, infondendoci libertà e responsabilità Dio ci fa creatori, e creatori potenziali dello stesso suo bene, certo, nelle nostre forme limitate e con differente gradazione ma pur sempre creatori d’amore. E dunque ecco che compiere il male è anche rinuncia a creare. Il male non ha valenza creativa, è sempre una sottrazione, mai un’aggiunta. Il male è l’antitesi del creare, dunque anche l’antitesi dell’uomo, o meglio, dell’uomo quale Dio lo ha desiderato creandolo. Il male supremo è dunque deresponsabilizzarsi rispetto all’atto di creatività amorevole o di amore creativo che Dio ci ha affidato con il seme. E quest’astensione dalla creatività amorevole diventa appunto zizzania, cosa inutile, e sarà avere decretato inutile la propria esistenza, colpa che l’uomo deve addebitare interamente a se stesso. Dunque, se vogliamo il seme potenziale, per servirci di una categoria aristotelica, è chiamato a farsi piantina di creatività attuale, responsabile, libera, amorevole. Il seme è potenziale di amore, dunque l’atto dell’odio tradisce la natura di potenza del seme.


Incontro alla narrazione di Luca


29.

Luca 7,11-47

In seguito si recò in una città chiamata Naim e facevano la strada con lui i discepoli e grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato al sepolcro un morto, Figlio unico di madre vedova, e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse “Non piangere”. E, accostatosi, toccò la bara mentre i portatori si fermarono. Poi disse: “Giovinetto, dico a te, alzati”. Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: “Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo”. La fama di questi fatti si diffuse in tutta la Giudea e per tutta la regione.

A contatto con la parola

Si parla di Gesù che resuscita il figlio di una vedova toccandone la bara e comandandogli di alzarsi. La morte, nel Vangelo, appare molto collegata all’idea di una vita in cui si sia scelto di escludere Dio, di un’esistenza nella quale l’uomo si culla nell’illusione di potersi bastare non sperimentando in alcun momento la condizione della trascendenza ma restando ancorato alla sua immanenza. Quell’“alzati” che Gesù dice al ragazzo morto e resuscitato simboleggia la possibilità di ognuno di noi morto alla fede di alzarsi e tornare a credere in Dio e alla sua presenza in ogni momento. Elementarmente, la condizione della morte della fede non appare riscattabile laddove non si accompagni alla percezione della morte della fede. Prima del cammino di conversione è assolutamente necessario compiere quello della percezione della necessità di convertirsi. E anche questo è quanto reso possibile da Dio. Si ha quindi una tripartizione tra stato di peccaminosità, stato di percezione di essa e avvio verso la conversione che ha come ulteriore tappa il quarto elemento, la conversione stessa. Lo stato di peccaminosità è uguale ad autopercezione dell’uomo come autoreferenziale, lo stato di percezione della peccaminosità è invece uguale a necessità di introdurre nella propria esistenza la dimensione della eteroreferenzialità. L’uomo, per cercare la propria salvezza, deve farsi altro da sé. E rinunciare all’intento di antropomorfizzare quest’alterità conferendole le sue caratteristiche. Perché, per logica, la liberazione dell’uomo essere insufficiente dai suoi peccati non può avvenire in forma compiuta mediante un altro essere insufficiente. La percezione dello stato di peccaminosità non è, peraltro, legata alla constatazione dei singoli peccati, ché altrimenti una ben misera percezione sarebbe, bensì all’andare direttamente al più grave di questi peccati, quello che unifica gli altri sotto la sua stessa bandiera, la presunzione umana, il farsi Dio dell’uomo da se stesso. Il peccato supremo dell’uomo sta in questo, e solo la rimozione di tale dimensione può davvero spalancare la strada a una vera conversione. Parliamo di conversione consapevole, ma anche di conversione assistita perché tale processo non si attua se non per l’intervento di Dio. Noi possiamo, e Sant’Agostino lo afferma con chiarezza, compiere la scoperta o riscoperta di Dio grazie allo Spirito Santo amore, non si aggiunge nulla di nuovo, lo stato finale è la conversione compiuta che resta sullo sfondo dell’intera esistenza, una retta che qualsiasi curva di vita umana non arriva mai a toccare con pienezza. La conversione compiuta equivale infatti a identificarsi totalmente con Dio, cosa che non si ritiene propria di quest’esperienza terrena. Il massimo cui l’uomo possa pervenire, ma è già moltissimo e la sua suprema ricchezza, nell’esperienza terrena è preparare, con la sua conversione, la strada alla completa identificazione con Dio che si attua nel regno dei cieli.


Incontro alla narrazione di Marco

39.

Marco 1,14-20

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il Vangelo di Dio e diceva: il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo. Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare: erano infatti pescatori. Gesù disse loro: seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini. E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide sulla barca anche giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò ed essi, lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono.

Il Cristo che si svela

“Seguitemi vi farò pescatori di uomini”. È una frase molto bella che costituisce giustamente un elemento centrale del percorso evangelico. Abbiamo del seguire un concetto, per così dire, estremo. O lo consideriamo come supina accettazione della strada indicataci da qualcun altro accostandoci in modo acritico e spogliandoci dunque del nostro impegno a pensare o lo stimiamo come il diavolo in persona perché ci condurrebbe a una sorta di negazione della sovranità su noi stessi. Questi due estremi appartengono all’uomo ma non certamente a Gesù. Egli invita l’uomo a metterli al bando e a riconoscere in quel seguitemi qualcosa che parte dall’intimo di loro stessi, li fa uscire da loro stessi e non si risolve affatto in un’espoliazione della sovranità dell’individuo. Nel seguitemi profumano due concetti di base: il primo è che seguire Gesù non obbliga l’uomo ad allontanarsi da se stesso ma gli concede il piacere di trovarsi nella sua autenticità. Il secondo, invece, è che proprio l’individuazione di quest’autenticità lo fa davvero sovrano di se stesso. Quel seguitemi suona dunque, in prima battuta, come un seguitemi e mi scoprirete, vi amerete davvero come uomini. Ed è prodromico al passaggio successivo perché Gesù dice a Simone e Andrea che avevano gettato in acqua le reti per pescare “vi farò pescatori di uomini”. Dunque l’impegno assunto dall’uomo nel seguire Gesù è impegno successivo anche nell’insegnare ai suoi simili a seguire Gesù. Si potrebbe dire che seguire davvero il percorso di Cristo significhi anche saper coinvolgere i propri fratelli in questo meraviglioso cammino. Seguire Gesù si fa dunque assunzione di impegno non soltanto verso noi stessi ma anche verso gli altri. Ed è logico, perché seguirlo significa seguire il suo verbo purificatore e salvifico. Perché il seguirlo come persona abbia quale passo successivo il seguirlo come comunità. Ecco la Chiesa, dunque, seguire Gesù con la propria persona coinvolgendo i propri simili e imparando a seguirlo come comunità. Gesù non invita affatto a sposare in modo acritico i suoi comandamenti, ci fa comprendere però che è dalle azioni che da essi promanano che ci verrà la nostra accettazione della nostra libertà. Perché, è evidente, seguire Dio è una scelta di libertà e non potrà mai rappresentare qualcosa di diverso e neppure dunque un seguirlo acriticamente. E in questa libertà di aderire all’amore di Dio l’uomo finisce per realizzare una matura, responsabile, consapevole sovranità su se stesso in quanto ha compreso come egli, per dare senso alle cose, necessiti della luce vivificante di Dio stesso. Dio fa appello alla libertà dell’uomo invitandola a scegliere consapevolmente il suo messaggio di amore e salvezza, non si impone quale dittatore. Dunque il seguire nel senso indicato da Gesù in questo passo evangelico consente certamente di affrancarsi dalla acriticità ma anche di conservare la propria sovranità su se stessi quando si sia capito che una sovranità assoluta dell’uomo su di sé non potrà mai appartenergli in quanto essere limitato. Del resto la fede, nutrendosi di progressiva consapevolezza della centralità che Dio ha sulla vita di ogni uomo, è sia accettazione critica con il riconoscimento di tale consapevolezza, sia esercizio di sovranità dell’uomo sull’uomo non debordante rispetto alla sua stessa struttura. E allora l’affermazione che il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo non può certo essere interpretata come un ultimatum di Gesù. Il tempo è compiuto suona come il tempo è maturo perché voi, se lo vogliate, possiate compiere un’autentica e per nulla traballante scelta di fede. Il regno di Dio vicino si configura come un progressivo penetrare del Vangelo nel cuore dell’uomo che ci si lascia scavare tale da realizzare una sempre più ferrea vicinanza a Dio stesso fino alla comunione totale. E il convertitevi è un invito all’uomo sia a flessibilizzarsi verso il messaggio di Dio sia ad aderirvi con convinzione con la sua irripetibile e unica sensibilità. Cosa significa convertirsi? Appunto credere al Vangelo, prima vi è l’indicazione della conversione quale scelta di libertà, poi lo strumento principe che consente di attuarla in ogni spazio e tempo.


Incontro al Vangelo di Giovanni


43.

Giovanni 1,35-42

In quel tempo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio”. E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: “Che cercate?”. Gli disposero: “Rabbì, che significa maestro, dove abiti?”. Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui.
Erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)” e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, il Figlio di Giovanni, ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)”.

Respirando la fonte della vita

Dove abita Gesù? Ecco la domanda che i discepoli gli rivolgono quando Giovanni lo indica loro come “l’agnello di Dio”. E Gesù risponde loro in modo assai semplice invitando a una scoperta: “venite e vedrete”. E che cosa si vedrà? Che la dimora di Gesù risiede nelle sue parole e nel cuore di coloro che le sapranno accogliere. Gesù non indica, a quanto si evince da questo passo, una dimora fisica né potrebbe farlo perché egli è in ogni luogo e quindi non in uno specifico. Egli è nella dimora della vita di ciascuno di noi, simultaneamente. E si fa dimora per noi. Andrea può così annunciare festante a suo fratello: “Abbiamo trovato il Cristo”. E in questo trovarlo non vi è nulla di fisico ma piuttosto l’approdo di un cammino interiore compiuto sia sul piano individuale sia su quello comunitario che sono poi i due modi inscindibili per vivere la fede. Gesù accoglie e si fa accogliere simultaneamente da chi abbia cuore e anima per ascoltarlo. E questa dimora deve essere spoglia ed essenziale. Spoglia, vista sul versante dell’uomo, ovviamente, dalle presunzioni di onnipotenza e onniscienza. Ma vi è anche un altro aspetto da considerare: nel momento in cui noi facciamo del nostro cuore una dimora per Cristo, essa diventa anche la nostra dimora autentica. È una dimora piena di sole, ariosa, accogliente, non più quella scura del nostro essere bastevoli a noi stessi. È l’inserirsi di Dio in essa che la rende davvero luccicante. Ecco allora la meraviglia di quel “venite e vedrete”; venite, vi porto a visitare l’autenticità del vostro cuore e vedrete che quell’autenticità saprà capacitarsi di essere tale e di brillare davvero. E in modo costante. Venire a Gesù per vedere l’autentico se stesso, quindi. Anche quando Gesù dice che chiamerà Simone Cefa ovvero Pietro vi è un grande significato. Ricorre molto, nei vari passi evangelici, l’elemento della pietra. Pietra come solidità e resistenza, cui il nome Pietro rimanda. Chiamando Simone Pietro Gesù chiama Pietro ognuno di noi, e ci mette in condizione di trovare quella solidità di fronte alla nostra vita e a tutti gli eventi che la concernono. Con la fede in noi, avendo Gesù come dimora ed essendo dimora per lui al tempo stesso noi acquisiamo la sola, vera solidità. Quel “che cercate” ha una funzione meravigliosa, domandare all’uomo: “State cercando il vostro vero essere uomini?”. Il “che cercate” assume il significato del “cercate bene”, Gesù non cerca una risposta, la conosce già, invita l’uomo a darsela. Una domanda che è consiglio fraterno, autentico atto d’amore e niente affatto imperativo perché la parola di Dio si propone e non si impone.

[continua]


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