Fermo immagine

di

Cristiana Romano


Cristiana Romano  - Fermo immagine
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 48 - Euro 8,00
ISBN 978-88-6587-9375

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In copertina: «Black camera isolated on white background» © BillionPhotos.com – stock.adobe.com


Prefazione

La narrazione breve, quale entità testuale autonoma ed indipendente, consiste nell’arte di raccontare una storia nel modo più breve possibile ad un lettore attivo, il quale viene colpito nella significatività del titolo, nell’importanza dell’inizio e del finale, conclusivo o aperto che sia.
In quest’ottica, Fermo immagine raccoglie, come in un collage, quindici piccole storie i cui personaggi, frutto della mia fantasia, parlano al cuore del lettore, raccontandosi in modo semplice e conciso ma diretto ed efficace.
La fruizione veloce e delicata dei miniracconti mette insieme forma e contenuto nel tentativo di raggiungere la perfetta armonia tra di essi.
Inoltre, con l’intenzione di coinvolgere soprattutto l’aspetto emotivo della lettura, le flash stories della raccolta dosano e selezionano le parole più giuste affinché il lettore, nello stesso modo di un fermo immagine, “si trovi davanti agli occhi un arcobaleno che rimane nella testa per sempre”.
Buona lettura!

Cristiana Romano


Fermo immagine


Metti a nudo il tuo cuore, e la gente starà
ad ascoltarti per quello – e solo quello è interessante.
Joseph Conrad


Fermo immagine

Erano tutti lì, pronti ad essere fotografati vent’anni dopo la maturità, posti tra l’obiettivo della fotocamera di Carlo ed i cancelli serrati del liceo, con lo sguardo ancora limpido, l’animo giovane.
Tutti tranne Dario.
Quasi non sembrava che fosse trascorso tanto tempo: gli abbracci, le risate e la complicità di allora perduravano tuttora.
Cheese fu l’ultima parola che pronunciarono insieme prima dello scatto.
Un fermo immagine vivido nel colore e nel ricordo.

Alcuni mesi prima, Carlo e Marina, gli unici della classe ad essere rimasti in contatto, avevano desiderato ritrovare i compagni del liceo ed organizzare la tipica rimpatriata dopo tempo. Forse perché a quarant’anni sentivano la necessità di confrontarsi e fare il punto della situazione, di riabbracciarsi o, semplicemente, di tornare a sorridere come facevano in gioventù.
Con pazienza certosina, i due si erano proposti di riacciuffare tutti gli alunni della vecchia e cara quinta A. Tutti tranne Dario, il ragazzone dal sorriso aperto e sincero che divorava la pizza in meno di un minuto, prendeva sempre le parti del più debole ed amava sedere all’ultimo banco.
Non sarebbe stata un’impresa facile ma ne sarebbe valsa la pena: il presente avrebbe richiamato il passato, il passato avrebbe attraversato il presente.
Il timore più grande, che paventavano Carlo e Marina, era quello di non riuscire a ritrovarsi più da quando Dario li aveva lasciati, da quando, cioè, nel cuore di una stupida notte estiva, avevano ricevuto l’assurda notizia dell’incidente d’auto in cui Dario aveva perso la vita.
Subito dopo il funerale, sembrava essersi eretto un muro tra loro, quasi non avesse senso ancora ritrovarsi e divertirsi insieme: era Dario, allora, a proporre feste ed uscite e a trascinare gli altri della classe.
Per l’evento Carlo e Marina impiegarono ogni possibile motore di ricerca, soprattutto per rinvenire chi non risiedeva più da anni nella città della scuola; fissarono una data utile per incontrarsi e prenotarono il tavolo per banchettare insieme presso un ristorantino dalla cucina locale.
Pensarono, ovviamente, anche al dolce: una zuppa inglese poco liquorosa, orgogliosamente illuminata dalla luce di venti candeline, una per ogni anno di distante silenzio.
Tante furono le chiacchiere che gli ex liceali scambiarono a tavola in compagnia di un ottimo Barolo, scelto appositamente per l’occasione: famiglia, lavoro ed interessi attuali risultarono gli argomenti più gettonati della sera, oltre alle gesta mirabolanti degli insegnanti di allora e alle numerose disavventure scolastiche delle quali da alunni erano stati simpaticamente protagonisti.
Tirarono in ballo persino la gita dell’ultimo anno a Berlino e, chiaramente, l’esame di maturità.
Il presente richiamava il passato, il passato attraversava il presente.
Nessuna parola fu spesa per Dario ad eternare la sua memoria: non era facile, ancora dopo tanto tempo, affrontare la perdita di un buon amico.
Eppure erano lì, di nuovo tutti assieme, per lui e nel modo in cui lui li avrebbe voluti sapere: felici e sorridenti.
L’affetto che li legava a Dario si leggeva nei loro occhi e lo si avvertiva nel tono della voce di ognuno quando andavano prendendo parola.
Dario, il ragazzone impegnato nel sociale e con la passione per i Dire Straits, era amato da tutti e, seppur silenziosamente, riviveva in ciascuno dei convitati.
Marina ad esempio, lavorando in un negozio di fiori, aveva pensato per l’occorrenza di colorare la tavola, posizionandovi al centro una composizione profumatissima di rose gialle e rosse, che richiamò l’attenzione e l’approvazione dei compagni tutti e degli altri clienti del locale: giallo e rosso erano i colori della squadra preferita di Dario.
Carlo invece, fotografo di professione, aveva portato con sé, oltre alla fotocamera, un taccuino su cui far annotare un pensiero o uno schizzo a ricordo della bella serata ed aveva attaccato, tra una pagina e l’altra del libretto stesso, alcune vecchie figurine che ritraevano i calciatori più osannati da Dario al tempo del liceo: in quegli anni Carlo e Dario giocavano a calcetto presso il campetto della parrocchia di Don Celestino.
Prima di congedarsi e tornare ognuno ai propri affanni, Marina e Carlo invitarono i compagni a raggiungere l’ingresso della scuola per immortalare l’avvenuta riconciliazione.

Erano tutti lì, pronti ad essere fotografati vent’anni dopo la maturità, posti tra l’obiettivo della fotocamera di Carlo ed i cancelli serrati del liceo, con lo sguardo ancora limpido, l’animo giovane.
Tutti compreso Dario, Spirito nello Spirito e carne nella carne.
Quasi non sembrava che fosse trascorso tanto tempo: gli abbracci, le risate e la complicità di allora perduravano tuttora.
Cheese fu l’ultima parola che pronunciarono insieme prima dello scatto.
Un fermo immagine vivido nel colore e nel ricordo.


In un giorno qualunque

Aldo e Flavia, ogni venerdì mattina, solevano recarsi al supermercato e fare un bel po’ di compere per il fine settimana.
La coppia, in pensione da cinque anni, aveva adesso tanto più tempo libero da dedicare agli amici e ai nipoti, agli impegni e ai lavoretti di casa, agli acquisti e al giardinaggio.
Flavia era stata un’impiegata della previdenza sociale, Aldo un bancario.
Si erano sposati oltre quarant’anni prima e dalla loro unione era nato Luigi, che avevano finito per viziare. Luigi aveva donato loro due splendidi nipoti, dei quali i nonni si occupavano amorevolmente il martedì ed il giovedì pomeriggio per i rientri lavorativi dello stesso Luigi e di sua moglie Linda.
Nonni, figlio, nuora e nipoti si ritrovavano abitualmente tutti insieme per il pranzo domenicale, dopo la celebrazione della Santa Messa alla parrocchia del quartiere.
Flavia era una donna energica e risoluta, al contrario di Aldo, il quale veniva rimbeccato malamente dalla moglie ogniqualvolta provasse a contraddirla.
Aldo amava giocare con i nipotini e leggere loro le favole più belle, incontrare vecchi amici e scolpire il legno; per il quieto vivere della famiglia tutta, sistematicamente, ingoiava il rospo e non osava intervenire nelle questioni per cui Flavia o Luigi tendevano quasi sempre ad alzare la voce. Non era, però, un uomo debole, come poteva lasciar credere. Flavia, diversamente, rivolgeva le proprie energie soprattutto ai fornelli e alle pulizie della casa e si occupava finemente del giardino. La donna ricordava un Bulldog per l’espressione permanentemente accigliata e per la stazza robusta, che la definivano da parecchi anni ormai.
La settimana dei nonni trascorreva di solito piuttosto velocemente e in modo ben organizzato.
Quel venerdì mattina il supermercato brulicava di gente.
Flavia si spostava nervosamente da uno scaffale all’altro, riempiendo il carrello di tutto ciò che sapeva mancare in casa. Aldo l’assecondava nella scelta dei prodotti alimentari, compreso il vino buono da servire a tavola per il pranzo della domenica.
La donna, nonostante i numerosi clienti, procedeva con destrezza tra un reparto e l’altro e Aldo, con infinita pazienza, la seguiva alla guida del carrello in quello slalom tra la folla, dribblando gli ostacoli nel minor tempo possibile.
“Dovrei aver pensato a tutto”, disse Flavia rivolta ad Aldo.
“Abbiamo cibo per un reggimento. Direi di rientrare”, rispose Aldo pacatamente alla moglie.
“Hai ragione ma manca un’ultima cosa… non meno importante”, aggiunse Flavia con l’aria di chi la sa lunga.
Aldo accompagnò Flavia al reparto giardinaggio e solo allora gli fu chiaro l’intento della moglie: acquistare il veleno per topi.
Erano giorni, infatti, che nel giardino della coppia si andavano aggirando alcuni curiosi topolini ma le trappole, poste con particolare cura da Flavia, non avevano sortito alcun effetto: i topolini, vivi e vegeti, continuavano a pasturare e scorrazzare in giardino in barba ai proprietari di casa.
La presenza nel verde di tali ospiti non disturbava eccessivamente Aldo, mandava Flavia, invece, su tutte le furie, non riuscendo la donna a controllare la ripugnante invasione.
Afferrata la scatola del topicida, Flavia si appropinquò alle casse con un sorrisetto di sfida.
Aldo, per un movimento meccanico delle labbra veloce e sbrigativo, ricambiò alla moglie, ora di spalle, una smorfia rabbiosa e avanzò anch’egli in direzione delle casse, sospingendo il carrello della spesa strabordante di viveri.

La mattina seguente la donna preparava i bocconi avvelenati da porre in giardino contro i fastidiosi roditori.
Anche Aldo meditava l’avvelenamento del fastidioso Bulldog di casa.
L’uomo non riusciva proprio a capacitarsi del fatto che quella donna, una perfetta estranea ormai, potesse essere sua moglie. La signorina snella e sorridente, che tanti anni prima l’aveva fatto innamorare per i suoi modi gentili ed accoglienti, non esisteva più. Non mancava giorno che quel Bulldog non lo rimbrottasse, non storcesse il naso, non gli ordinasse cosa fare e cosa disfare, non lo controllasse in ogni suo movimento.
Irriconoscibile agli occhi di Aldo, Flavia si meritava l’avvelenamento e quei simpatici topolini giungevano in giardino a proposito.
Difatti, occupandosi la moglie in via esclusiva del giardino, il veleno per topi sarebbe risultato perfetto per inscenare l’accidentale avvelenamento della consorte.
Il fattaccio sarebbe accaduto in un giorno qualunque, insospettabile al figlio Luigi, alla nuora Linda e ai nipoti.

Aldo non era un uomo debole, come poteva lasciar credere: simulava quiete e sotto sotto lavorava per riuscire nei suoi fini.

[continua]


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