Anatomia di un sogno (La Repubblica Romana)

di

Claudio Prili


Claudio Prili - Anatomia di un sogno (La Repubblica Romana)
Collana "Le Schegge d'Oro" - I libri dei Premi - Narrativa
14x20,5 - pp. 84 - Euro 9,00
ISBN 978-88-6587-2109

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In copertina: “Particolare degli articoli della Costituzione della Repubblica Romana scolpita integralmente su un muretto del colle Gianicolo, dove si sono svolte le ultime battaglie per la difesa di Roma nel 1849”
fotografia dell’autore


Pubblicazione realizzata con il contributo de Il Club degli autori in quanto l’autore si è classificato al 1° posto al Premio Marguerite Yourcenar 2011 al 2° posto nel concorso letterario Il Giro d’Italia delle Poesie in cornice 2011


Questa è una storia che i testi scolastici hanno da sempre liquidato in pochissime righe. La storia di una straordinaria esperienza, di atti di eroismo, di patrioti che hanno donato la vita per difendere la conquistata libertà di un popolo asfissiato dal giogo papalino. Le ragioni di chi orgogliosamente ha alzato la testa per restituire una nuova dignità alla Città Eterna dopo secoli di ottusità e di immobilismo dello Stato più conservatore d’Europa.

Una storia scritta come sempre dalla gente: uomini, donne, bambini romani che combattono fianco a fianco, strada per strada. Garibaldini e bersaglieri, scienziati e analfabeti, volontari accorsi da tutta Italia e dall’Europa in difesa della Repubblica. Una storia di speranze tradite, di voltafaccia, di ideali che sono sopravvissuti a chi decise di spegnerli nel sangue, la storia di un seme che ha generato l’attuale Costituzione Italiana.

L’Autore


PRESENTAZIONE

Il letterato e saggista Claudio Prili, presenta “La Repubblica Romana” inquadrata magnificamente nel suo periodo storico e con questo lavoro, condotto con competenza fluida e piacevole, offre ai lettori uno scorcio del suo nobile animo, con i diversi aspetti caratteriali e personali.
Nel testo vengono descritte con perizia le vicende in passaggi di ore, fino al momento della totale resa della Repubblica; un tipico saggio dove le pagine brillantemente scritte danno brio allo sfondo di una Roma sottomessa alla dittatura papale e di conseguenza francese.
Una vigoria attiva, appassionante e didascalica comanda su tutta la registrazione storica, quest’ultima altamente realistica, dove figure infelici precipitano nell’abiezione del nemico.
La lettura è espressiva, umana e piacevole: piccoli eroi, che purtroppo non hanno trovato nella Storia giusta collocazione, in noi si immergono grazie al metodo brillante ben prefissato dell’autore.
Questa narrazione di Claudio Prili è assai articolata, ma soprattutto utile ed interessante; è possibile identificarla come una guida efficace e sicuramente corretta per la didattica odierna, infatti con saggezza vengono intrecciati errori, debolezze e deficienze storiche, nonché consensi e plausi sfrondati, sempre con distacco obiettivo.
“La Repubblica Romana” è senza dubbio un elaborato pregevole, la cui suggestione è accresciuta dal contatto fisico/morale dell’autore con la città natia, quella città che, in quell’obsoleto periodo, fu assoggettata al patrizio snobismo conservatore.
Dal primo capitolo, all’ultimo, questo diario è indiscutibilmente un atto d’amore non solo per l’amata città natia, ma soprattutto è generato dall’interesse dell’autore per quello specifico arco storico-temporale, reso in primis famoso e poi, forse, volutamente dimenticato.
Con spigliata semplicità stilistica e venature ironiche, lo scrittore si assume l’incarico di presentare nitidi acquarelli, cari ed apprezzati dai veri amatori degli eventi romani risorgimentali, non privi di impressionismo romantico, che rende affascinante la rievocazione letteraria di veri e propri eventi bellici.
Una serie di scene vivissime ed ispirate, dunque, mostrano la qualità principale di Claudio Prili: essere un arguto indagatore satirico e, al tempo stesso psicologico, dello spirito umano, capace di registrare le impressioni e i comportamenti della popolazione, in fasi predominanti dell’intera vicenda, dalla lotta, all’annunzio di un regime liberatorio.
Dell’intero operato letterario di Prili, la “Repubblica” costituisce senz’altro la relazione più sentita dall’autore che, nella stesura, intesse un vero e proprio colloquio coi “fratelli romani” morti, permettendo al lettore di conoscere il palcoscenico su cui si recita il racconto, nonché la chiara verità circa le gesta che hanno reso possibile la vittoria sull’ingiustizia e la prepotenza sociale.
Dunque queste pagine, e l’aedo stesso, si offrono come una sterile espiazione, in rievocazione della barbara sconfitta e innescano il pensiero del fruitore verso una specifica chiave di meditazione ed educazione sentimentale.
Il titolo esprime chiaramente il contenuto del romanzo/cronaca, intensamente antropico, protetto dalla sintesi del sogno/desiderio, in cui le vicende riportate toccano il cuore in maniera indimenticabile, anche grazie alla presenza di figure di alto rilievo, quali quelle della giovane Colomba Antonietti e del dodicenne Righetto.
Non di meno sono presentati, con adeguata tramatura, gli artefici di questo splendido rinnovamento romano.
Lo scrivente apre il racconto con la descrizione del passaggio del potere papale tra le Santità Gregorio XVI e Pio IX, intensificando la copiosa e palpitante narrazione con compendi tratti da notevoli bibliografie; il tutto viene affrontato con filantropia (“e quanno me perdonerebbe Iddio?”) e versi poetici romaneschi, sempre in grado di polverizzare le angherie, e le malinconie, a discapito della povera plebe.
È questo un racconto sagace, che offre l’amara visione di un periodo bellicoso ma romantico, dove la conclusione dell’opera riaccende la luce della fiducia e della speranza sugli alti valori umani.

dott.ssa Pasqualina Genovese D’Orazio


Anatomia di un sogno (La Repubblica Romana)


CAPITOLO I

Il primo Giugno 1846 morì Papa Gregorio XVI lasciando lo Stato Pontificio in una condizione di arretratezza sociale, di conservazione di privilegi, di miseria diffusa nelle classi più deboli, che non trovava eguali nel resto della Penisola. In questo pessimo clima sociale, il Cardinale Giovanni Mastai Ferretti da Senigallia divenne Papa assumendo il nome di Pio IX. Il conclave si aprì il 14.6.1846 alla presenza di 49 cardinali su 79 e soltanto dopo quattro scrutini venne eletto il nuovo Pontefice. Tanta fretta era giustificata dall’intenzione di impedire che il Cardinale austriaco Gaysruch arrivasse a Roma in tempo per imporre la volontà del suo Imperatore a cui avrebbe diplomaticamente fatto molto comodo un connazionale a San Pietro.

L’Europa intera viveva un’atmosfera complessivamente instabile ed incerta, dopo che aveva cercato di rimediare nel modo peggiore a quel ciclone di nome Napoleone, con il Congresso di Vienna che aveva prodotto una linea di condotta generale riassumibile nel termine “restaurazione”, termine assai difficile da ingoiare per chiunque anelasse ideali di democrazia.

Pio IX, cosciente di questa situazione, opportunamente decise di dare alla sua politica una pronunciata impronta riformista e tutto questo mise involontariamente in moto un meccanismo che avrebbe portato a quella esperienza formidabile quanto effimera, chiamata Repubblica Romana. L’inizio del suo Papato venne caratterizzato dall’amnistia per tutti i prigionieri politici, concessa soltanto un mese dopo il suo insediamento e da un pensiero che rafforzò non poco le speranze di chi desiderava l’unità d’Italia, l’idea di un unico Stato che coagulasse l’intera penisola sotto la guida del Papa stesso.

Sotto il pontificato di Pio IX si diede inizio alla costruzione di ferrovie, ad una serie di opere pubbliche con lo scopo di ridurre la disoccupazione che costituiva una delle principali ragioni di una criminalità diffusissima. Nelle classi più deboli nacque l’illusione di risolvere in tutta fretta problemi che si trascinavano da secoli e quindi proprio queste classi sociali furono le prime ad essere deluse e tradite da una politica economica che, pur lungimirante, si rivelò comunque insufficiente a fermare una crisi che maturava da anni.
Tuttavia a Roma si respirava in quel periodo un’aria diversa, più leggera, il fermento che solitamente si accompagna al preludio di cambiamenti epocali. In questo caso aveva un nome che gonfiava i cuori di tutti i patrioti: l’Indipendenza dell’Italia.

Quando poi Pio IX decise nel marzo 1847 di inviare truppe Pontificie al comando del generale Ferrari per sostenere Carlo Alberto che aveva in quei giorni dichiarato guerra all’Austria, sembrò che finalmente il momento tanto atteso fosse giunto. Di lì a poco, tutti invece si resero conto che proprio in quei giorni si sarebbe verificata la spaccatura insanabile tra il Papa ed il popolo romano. Una spaccatura che sarebbe sfociata qualche mese dopo negli eventi splendidi e sanguinosi della Repubblica Romana.

Realizzato che le truppe pontificie erano state inviate contro l’esercito di uno Stato cattolico e, particolare non trascurabile, estremamente potente, Pio IX fece un passo indietro che storicamente segnò il suo cocente tradimento alla causa dell’unità nazionale.

Il 29 aprile 1848, nella sua forse più famosa allocuzione, Papa Mastai-Ferretti fece ufficialmente marcia indietro, rifiutando qualunque partecipazione alla guerra contro l’Austria.

“Ai nostri soldati, mandati ai confini del dominio pontificio, non volemmo che s’imponesse altro, sennonché difendessero l’integrità e la sicurezza dello Stato pontificio. Ma conciossiacosachè ora alcuni desiderino, che Noi altresì con altri popoli e principi d’Italia prendiamo guerra contro gli Austriaci, giudicammo conveniente di palesar chiaro… che ciò si dilunga del tutto dai nostri consigli, essendochè Noi…abbracciamo tutte le genti, popoli e nazioni con pari studio e paternale amore”.

Informato dell’allocuzione del 29 aprile, l’esercito pontificio decise di non ubbidire al Papa e rimase a svolgere l’incarico affidatogli: coprire le città libere del Veneto, appoggiandosi alla solida roccaforte di Venezia, governata da Manin.


Daniele Manin

Daniele Manin, nato a Venezia il 13 maggio 1804, era il terzogenito di Pietro e Anna Maria Bellotto. La famiglia Manin aveva ascendenze israelitiche. Fu infatti il nonno Samuele Medina, di origini veronesi, a convertirsi con la moglie Allegra Moravia, assumendo nome e cognome del padrino di battesimo, il noto Ludovico Manin, ultimo doge della Repubblica di Venezia.

Ottenuta la laurea in Giurisprudenza a Padova nel 1821, si dedicò all’attività forense nella città natia.

Nel 1824 sposò Teresa Perissinotti, appartenente ad una famiglia aristocratica veneziana con ampie proprietà terriere a Venezia e nel trevisano.

Imprigionato nelle carceri austriache per la sua attività patriottica, fu liberato a furor di popolo il 17.3.1848 assieme all’altro patriota Nicolò Tommaseo. Alla successiva proclamazione della Repubblica di San Marco ne fu eletto Presidente e, durante l’assedio della città nel 1848-1849, diede grande prova di intelligenza, coraggio e fermezza. Contribuì inoltre a fondare la Società Nazionale Italiana. Costretto all’esilio dal ritorno degli austriaci, visse poi a Parigi dando lezioni di lingua italiana e conservando intatto l’amore per la patria veneta. Morì esule a Parigi il 22 settembre 1857.

“Er sordato pontificio”

Ciò ‘na fame che propio nun ce vedo
e li piedi gonfi come du’ zzampogne,
so’ venuto ‘n Veneto perché ce credo
che è ora de scalà ‘ste du’ montaggne.

L’austriaci se ne deveno annà a casa,
‘sta nazzione mia dovrà nasce prima o poi,
co’ ‘st’idea che sotto sotto nu’ riposa
perché l’Itaija la dovemo guidà noi.

E ‘nvece poi me dicheno de bbotto
che abbisogna fa’ finta de ggnente,
che puro ‘n austriaco cià Gesù ner petto
e che ‘n ze po’ ammazza’ ‘sta brutta ggente.

Sarebbe mejo e ‘n domani ancor più bello
arivortasse contro er sangue mio?,
tajà la gola puro a mi fratello…
e quanno me perdonerebbe Iddio?

Perciò sai che te dico Papa bbono?,
te dico che diserto e bbonasera,
dovrei infirzà la panza de ‘n romano?
vorà ddì che inizzio ‘n’artra guera!

Quella che sarebbe meno strana
de questa che me sembra ‘na pazzia,
lotterò pe’ la Repubblica Romana,
morirò pe’ difenne casa mia!

Tuttavia, l’esercito pontificio non poté mai contare sui notevoli rinforzi (16.000 uomini) inviati dal Regno delle Due Sicilie che pure avevano già raggiunto il Po ed erano in procinto di entrare in Veneto. Proprio al passaggio del fiume, a quel massiccio corpo di spedizione venne notificato l’ordine di Ferdinando II di Borbone di rientrare a Napoli. Rifiutò l’ordine solo il generale Guglielmo Pepe, grande patriota, che riuscì a raggiungere Venezia ove gli venne affidato il comando supremo delle truppe e, pur offrendo uno splendido contributo lungo l’intero assedio della città, di fatto non riuscì mai ad affiancare le truppe pontificie guidate da Giovanni Durando.


Giovanni Durando

Nasce a Mondovì il 23.6.1804. Fratello del patriota Giacomo Durando e del beato Marcantonio Durando.

Suddito sardo, l’11 aprile 1822 entrò tra le guardie del corpo di Vittorio Emanuele I di Savoia, diventando sottotenente nel 1826. Di orientamento liberale moderato, partecipò ai moti rivoluzionari in Piemonte del 1831, in seguito ai quali fu costretto a rifugiarsi all’estero assieme al fratello Giacomo. Prestò servizio nella legione straniera belga in qualità di sottotenente (1832), combatté in Portogallo al servizio di don Pedro, in qualità di capitano dei Cacciatori di Oporto (1833-1838) e infine in Spagna nella guerra contro i carlisti nel corso della quale ottenne il grado di Generale.

Rimpatriato ai primi del 1842, dal 24.3.1848 assunse il comando delle truppe pontificie ed estere al servizio di Pio IX, partecipando alla sfortunata prima guerra d’Indipendenza Italiana. Impossibilitato a contrastare l’avanzata delle truppe austriache di Laval Nugent, fu bloccato a Vicenza e, sconfessato da Pio IX, costretto alla resa in data 10.6.1848.

Passato al servizio del Piemonte e nominato aiutante di campo di Carlo Alberto, partecipò alla battaglia di Novara nel 1849 al comando di una divisione. Fu eletto deputato nelle elezioni del 1848 e del 1849. Giovanni Durando morì a Firenze il 29 febbraio 1860.

Il piccolo esercito di Pio IX, dopo aver dato grande prova di coraggio nel respingere a Vicenza l’assalto degli austriaci il cui esercito contava il doppio degli uomini, inevitabilmente capitolò quando Radetzky rovesciò l’intero fronte dell’esercito austriaco proprio sul Veneto.

Il 9 agosto dello stesso anno, con l’armistizio firmato a Milano dal generale Carlo Canera di Salasco e dal generale H. Von Hess, cessarono temporaneamente le ostilità tra piemontesi ed austriaci.

Tra i patrioti la delusione per questi avvenimenti fu enorme, superata soltanto dal rancore nei confronti di un Papa che sembrava voler addirittura incarnare la volontà generale di unificazione dell’Italia e che, alla luce dei fatti, si era invece dimostrato inaffidabile e voltafaccia.

Il 15 novembre 1848, Pellegrino Rossi, sessantunenne di Carrara e Ministro dell’Interno dello Stato pontificio, mentre saliva le scale del Palazzo della Cancelleria venne assassinato da un gruppo di popolani di cui faceva parte anche Luigi Brunetti, figlio di Angelo detto “Ciceruacchio”, patriota romano e ormai acceso rivale di quel Papa che l’aveva prima illuso per poi fargli ingoiare la peggiore delusione per un patriota che in cuor suo desiderava un’Italia libera e indipendente.

Scoppiò immediatamente una disordinata rivolta inscenata sotto il Palazzo del Quirinale. Pio IX si asserragliò nel Palazzo, assediato dal popolo romano che addirittura puntò un cannone in direzione della Sede Papale. Violenti furono gli scontri con la guardia svizzera pontificia in cui trovò addirittura la morte un Monsignore addetto ai Sacri Palazzi. Convocato il corpo diplomatico, Pio IX affermò “Accettare le loro condizioni, sarebbe per me abdicare ed io non ne ho il diritto”. Due giorni dopo convocò gli ambasciatori esteri ed a loro dichiarò di essere stato costretto a cedere alla violenza e che da quel momento i suoi atti sarebbero stati da considerare invalidi a tutti gli effetti.

Indignato, quasi incredulo di fronte ad una ribellione che mai avrebbe immaginato potesse divampare così in fretta e virulenta in una città da secoli rassegnata e sonnacchiosa, il Papa non trovò di meglio che fuggire vigliaccamente da Roma la sera del 24 novembre, travestito da semplice sacerdote, in una carrozza chiusa ed accompagnato da un suo collaboratore segreto.

Raggiunse il conte Spaur, ambasciatore di Baviera e, la sera del 25, giunse nella fortezza di Gaeta. Si pose sotto la protezione del Regno delle Due Sicilie, chiedendo dopo alcuni giorni l’intervento delle potenze cattoliche per ristabilire l’ordine a Roma.

Ormai al sicuro, Pio IX rifiutò fermamente l’invito di due Deputati a rientrare a Roma. Non concesse loro neanche la possibilità di varcare il confine napoletano, facendoli bloccare a Portello dalle truppe borboniche. Involontariamente, questo atteggiamento fomentò ancora di più gli animi dei mazziniani che ormai ritenevano matura la convocazione di un’Assemblea Costituente dato che il Papa si era volontariamente ritirato e con lui la sua autorità, in un altro Stato.

Il 21 gennaio 1849 si svolsero a Roma le prime elezioni a suffragio universale e, nonostante Pio IX avesse vietato a tutti i “bravi cristiani” di partecipare alle elezioni minacciando nei loro confronti addirittura la scomunica, alle urne si recò invece gran parte della popolazione dello Stato Pontificio. La Costituente divenne di fatto un’assemblea rivoluzionaria.

Il 9.2.1849, a Palazzo della Cancelleria la Costituente proclamò la nascita della Repubblica Romana “Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano. Il Pontefice avrà tutte le guarentigie necessarie per l’indipendenza nell’esercizio della sua potestà spirituale. La forma del governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura, e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana. La Repubblica Romana avrà col resto d’Italia le relazioni che esige la nazionalità comune”.

La gente si riversò nelle strade festeggiando col tricolore la nascita di un sogno che durò soltanto sino al 4.7.1849, lasciando tuttavia un’indelebile impronta sugli avvenimenti che dodici anni più tardi avrebbero fatto dell’Italia una nazione finalmente unita.

Il decreto portava le firme del presidente dell’Assemblea costituente Giuseppe Galletti e dei segretari Giovanni Pennacchi, Ariodante Fabretti, Antonio Zambianchi e Quirico Filopanti.

Da un manifestino stampato dai democratici con molta concitazione, (come si deduce dagli errori nel resoconto della seduta) e distribuito in città nella notte tra l’8 ed il 9 febbraio 1849, subito dopo la proclamazione della Repubblica Romana:

W LA REPUBBLICA ROMANA

È l’una dopo la mezzanotte, e usciamo in questo momento dalla sala, ove è stata adunata la Costituente dalle undici antimeridiane. Chi potrebbe descrivere la commozione da cui e noi tutti sono stati commossi! La gran parola è stata pronunciata. La Democrazia ha vinto. Dopo una discussione grave, animata ma libera, coscanziosa, alle ore undici e un quarto pomeridiane tra gli applausi del popolo affollato nelle tribune, si è proclamata la Repubblica Romana, dopo d’essersi dichiarato la decadenza del potere temporale dei papi. Di centoquaranta Rappresentanti e più, solamente una ventina è stata contraria alle ammesse proposizioni. (…)

Riserbandoci dare a domani esteso ragguaglio dell’importanti fatti di oggi, terminiamo come abbiam cominciato col grido di VIVA LA REPUBBLICA ROMANA!


Il palazzo della Cancelleria

Il Palazzo della Cancelleria a Roma è situato tra Corso Vittorio Emanuele II e Campo De’ Fiori. Edificato tra il 1485 ed il 1513, è uno dei primi esempi di palazzi costruiti in stile rinascimentale. Il Cardinal Riario, nipote di Papa Sisto IV, lo commissionò con i proventi di una vincita al gioco. Nel 1517 gli fu requisito da Papa Leone X in quanto il Riario aveva preso parte attiva alla congiura de’ pazzi. Nella notte tra l’8 ed il 9 Febbraio 1849 in questo edificio fu proclamata ufficialmente la seconda Repubblica Romana e successivamente fu sede della Corte Imperiale Napoleonica. Attualmente ospita il Tribunale della Sacra Rota, essendo tuttora territorio dello Stato Vaticano in quanto gode del diritto di extraterritorialità riconosciuto con i patti lateranensi.

“Er Palazzo de la Cancelleria”

Tra Corzo Vittorio e Campo de’ Fiori
Ce sta ‘n palazzo costruito pe’ scommessa,
Vinto a carte dar Cardinal Riario a picche e fiori
Pe’ ‘na bbotta de culo principesca.

Quanno zì Papa je disse ch’era troppo
Quer che aveva ‘ntascato co’ le carte,
Je rispose “A zì, sai che nova c’è? Io me ne fotto!
E m’apro ‘sto palazzo co’ li sordi de la sorte”.

Lo tirò su cor marmo bbianco der Coliseo
E quello rosato d’origgine più oscura,
Ma Leone Decimo je disse “Poro babbeo…”
E je lo requisì pe’ via de ‘na conggiura.

‘Nzomma, tra Papi,Cardinali e ‘Mperatori
Er palazzo de la Cancelleria
Più che artro fu ‘n coacervo d’affaristi e truffatori
Frequentato guasi più de ‘na bbona pizzeria.

Penzà che a febbraro der quarantanove
Proprio qua nacque la Repubblica Romana,
esempio raro de ‘n’Itaija che se move
senza chiede aiuto all’urtimo vortagabbana!

Soltanto tre giorni dopo, il Papa convocò di nuovo gli ambasciatori di Austria, Francia, Spagna e Regno delle due Sicilie per chiedere il loro sostegno nel ristabilire il potere Pontificio ormai ufficialmente destituito.

La Repubblica Romana, pur in un clima di grande euforia popolare, dovette tuttavia fare immediatamente i conti con la peggiore delle eredità dello Stato Pontificio: il disastro delle finanze pubbliche. Così, con una decisione che suscitò grande clamore, il 21 febbraio l’Assemblea votò l’incameramento dei beni ecclesiastici che complessivamente poteva essere calcolato attorno ai 120 milioni di scudi. Una somma enorme che tuttavia non venne ritenuta sufficiente per raddrizzare le finanze del Governo. Governo che fu quindi costretto a dover attuare altre misure, la prima delle quali fu un prestito forzoso che obbligò tutti coloro che disponevano di una rendita superiore ai 2000 scudi l’anno a cederne una percentuale allo Stato, seppur sotto forma di prestito.

Tutta questa frenesia nel recupero di ingenti importi, queste misure eccezionali, furono comunque rese necessarie non soltanto dalla situazione finanziaria al collasso in cui versava Roma, ma anche dall’addensarsi delle minacce che attentavano già alla neonata Repubblica Romana: da Gaeta Pio IX aveva invocato con lodevole tempestività l’aiuto delle grandi potenze cattoliche e la Repubblica fu quindi costretta a prevedere un aumento delle spese militari al fine di tutelare sé stessa contro l’imminente attacco dall’esterno che ormai era certo.

La Storia insegna come le situazioni peggiori siano quelle in cui il vento delle nuove idee spesso va ad infrangersi contro le porte chiuse di un’eredità politica ed economica ingovernabile. Il vertice della Repubblica Romana si trovò strangolato sin dall’inizio in una situazione ingestibile che neanche Mazzini e Saffi, che affiancarono Armellini subentrando a Montecchi e Saliceti nel triumvirato, riuscirono a gestire.

La forma di democrazia immaginata inizialmente, era quella di un governo liberale moderato, ma lo stesso Papa, fuggito a Gaeta, contribuì a dare respiro ai massimalisti che diedero forse alla Repubblica Romana il carattere più nobile e romantico a questa esperienza, quello utopistico che, specie Mazzini allora quarantaquattrenne e giunto a Roma il 5 marzo, cavalcò con passione e capacità perché non andasse perduto il sacrificio di tanti patrioti e per lasciare ai posteri forse la pagina più alta del suo impegno nel Risorgimento italiano.

La piccola Repubblica Romana appena proclamata, si dovette quindi apprestare alla guerra contro l’Austria che il 23 marzo sconfisse Carlo Alberto di Savoia, decidendo il giorno successivo di intervenire pesantemente per restaurare l’ordine nello Stato Pontificio. Contemporaneamente, anche i francesi intervennero in Italia dietro la specifica sollecitazione in tal senso da parte di Pio IX.

Anziché organizzare immediatamente la resistenza militare alle preponderanti forze cattoliche, il governo romano ritenne invece più opportuno emanare una serie di disposizioni quali l’abolizione della censura, l’istituzione del matrimonio civile, fissò a 21 anni la maggiore età per uomini e donne, abrogò nei procedimenti di successione la norma che escludeva le donne ed i loro discendenti, abolì la tassa sul sale, abrogò la leva obbligatoria, istituì la riforma agraria, il diritto alla casa, la laicità dello Stato, stabilì l’abolizione della pena di morte e della tortura. Venne deciso di suddividere il patrimonio fondiario ecclesiastico in lotti da consegnare alle famiglie povere:

Art. 1 Ogni famiglia, composta da un numero di almeno tre individui, avrà da coltivare una quantità di terra capace ai lavori di un paio di buoi, corrispondente ad un buon rubbio romano, cioè due quadrati censuari, pari a metri quadrati ventimila.

Art. 2 I vigneti saranno dati a coltura all’individui senza che sia richiesta famiglia e verranno divisi in ragione della metà della misura indicata.

Il patrimonio immobiliare ecclesiastico venne utilizzato per dare una casa ai più poveri, la tassa patenti che i commercianti e gli artigiani dovevano pagare per esercitare il loro mestiere, fu abolita.

La grandezza di pensiero di Mazzini si esprime proprio in questo frangente, in cui apparentemente sembra invece maturare il grossolano errore di anteporre le riforme civili alla difesa della patria minacciata.

È credibile che Mazzini sperasse realmente nell’affermazione militare della Repubblica Romana? Sarebbe riuscita veramente a difendersi dai suoi nemici esterni? Appare invece più plausibile immaginare che, pur cosciente dell’imminente ed inevitabile tracollo, intendesse quanto meno salvare il valore morale dell’esperienza. La Repubblica Romana fu il primo Stato Europeo, seppur non riconosciuto, a proclamare che la credenza religiosa era libera, né poteva rappresentare una discriminante per l’esercizio dei diritti civili e politici. Tutti gli altri Stati riconoscevano la religione cattolica come culto dello Stato e comunque lo stesso Statuto concesso da Pio IX stabiliva che le pubbliche carriere erano consentite solo ai cittadini di fede cattolica. Quindi, pur essendo impellente l’urgenza di predisporre misure militari a difesa del nuovo Stato, Mazzini reputò ancora più importante salvare i valori morali che lo contraddistinguevano.

Questa la scommessa vinta da Mazzini: lasciare un segno indelebile nella Storia, rendere moralmente eterno il valore dei cinque mesi della Repubblica Romana. Afferma infatti Mazzini “La Repubblica Romana è anzitutto principio d’amore, di maggior incivilimento, di progresso fraterno con tutti e per tutti, di miglioramento morale, intellettuale, economico per l’università dei cittadini… è il principio del bene su quello del male, del diritto comune sull’arbitrio di pochi, della Santa Eguaglianza sul Privilegio ed il Dispotismo…”

La guerra era ormai alle porte. Per le uniformi, bastò sostituire il simbolo papale delle chiavi incrociate con una semplice coccarda tricolore. Garibaldi, Bixio e Mameli vennero eletti tra i Senatori. L’esercito pontificio, tranne le forze mercenarie ed estere, passò in blocco dalla parte degli insorti. A questo primo nucleo, si aggiunsero poi i vari Corpi di volontari. Roma, insidiata da ogni parte, si considerava ormai alla vigilia della guerra e si preparava come poteva a difendersi contro tutti, accogliendo allo stesso tempo tutti coloro che arrivavano per offrirle il proprio aiuto.

Abbracciò gli esuli lombardi di Luciano Manara, i genovesi di Goffredo Mameli, i legionari di Garibaldi.

“V’aspettamo fratelli!”

V’aspettamo fratelli itaijani,
voi che ciavete la Patria ner core,
che se farà coll’unghie e le mani
pe’ difenne ‘sta storia, ‘st’amore.

Roma sarà pe’ voi tutti ‘na casa
dove fragole e vino nun mancheranno,
a ogni angolo ce sarà ‘na rosa
e porchetta profumata tutto l’anno.

Sarete ‘n tanti a rimettece le penne,
ma co ‘n pizzico de fegato e fortuna
potrete mette propio qui le tende
e cantà d’amore sera e matina.

Lacrime e sangue v’accompagneranno,
ma sarà l’avventura de la vita,
‘sti francesi ancora nu lo sanno
che pe’ loro è qui che ’ncomincia la salita…

Capo di tutte le forze armate venne nominato il generale Pietro Roselli, con Carlo Pisacane in veste di Capo di Stato Maggiore: comandava ventimila uomini (quanto di più eterogeneo si potesse immaginare) e circa un centinaio di pezzi d’artiglieria.

Nonostante fosse stata l’Austria a decidere per prima l’intervento a favore del Papa, fu però la Francia a muoversi sulla base di un decreto urgente firmato da Napoleone III per controbilanciare il peso politico di Vienna, ingraziarsi i cattolici di Francia e soprattutto i loro voti.

Il 24 aprile la flotta francese, formata da sei fregate a vapore, due corvette e due battelli con circa 15.000 uomini agli ordini del generale Oudinot, arrivò di fronte a Civitavecchia e poco dopo il generale iniziò le trattative con le autorità locali per lo sbarco. Da Roma l’ordine era di resistere, la Repubblica non poteva e non voleva credere alla “amicizia” millantata da Oudinot che infatti il giorno successivo occupò Civitavecchia senza sparare un colpo, essendo impossibile per il colonnello Pietramellara opporre la minima resistenza con i suoi duecento bersaglieri.

Il 26 aprile, una delegazione francese chiese al triumvirato di accogliere le truppe francesi come alleati, ma Mazzini non cadde nella trappola e decise, con il beneplacito dell’Assemblea, di rispondere con forza alla forza. Garibaldi venne richiamato a Roma assieme ai suoi uomini che erano acquartierati a Rieti.

Il giorno dopo giunsero in porto a Civitavecchia due battelli, il “Colombo” ed il “Giulio II”, salpati da Chiavari. Trasportavano 600 bersaglieri della disciolta “Divisione Lombarda” dell’esercito sardo: questa divisione era stata costituita nel corso della campagna del 1848 con reclute e volontari provenienti dalle provincie liberate del Lombardo-Veneto.


Colomba Antonietti

“‘Nnamo Giggi, se parte pe’ Roma, er sesto battajone de li bberzajeri dev’annà a trovà er Papa”. “Ma perché, che me vòi seguì ancora? Nun t’è abbastata la guera ‘n Lombardia, ‘n Veneto?… e daje, stattene a casa ‘na vorta tanto…” “A Giggi, fàmose a capì, ma che ggnente ggnente me devi da mette le corna?” “E come no?, magara co’ quarche francese o co’ quarche prete. No amò, è che si me venissi a mancà, nu je la farei a annà avanti…” “Anvedi questo… ’n ufficiale che se ne more pe’ ‘n bberzaijere!”. “E vabbè, continua a scherzà. Ma nun potevi esse ‘na moje come tutte l’artre? Quelle che penzano solo a fa’ minestre e fiji?” “E no!, io so’ de quelle che stanno ar fianco der marito. Sempre. A proposito, t’ho stirato la divisa e ‘n valiggia ciò messo quattro camicie pulite. Cerca de nun inzozzalle de sangue che poi nun viè più via….” “A Colò, Manara ha detto che dovemo arivà fino a San Pancrazzio e che si ce arivamo vivi è ggià tanto”.

“A Giggi, nun esse funesto… daje, cantame la canzone de li fratelli dell’Itaija che me piace ‘n sacco”.

“Colomba mia, me dighi come farei senza de te?” “A Giggè, sta’ tranquillo che io nun t’ammollo e mò da ‘n bacio co’ lo scrocchio ar berzaijere tuo!”

Il 13 giugno 1849 Colomba Antonietti morì a San Pancrazio, nella eroica difesa della postazione assegnata ai bersaglieri di Luciano Manara. Per seguire il marito Luigi Porzi, Colomba aveva deciso di tagliarsi i capelli e di vestirsi da soldato per combattere al suo fianco in Lombardia, in Veneto e a Roma. Dalle memorie di Giuseppe Garibaldi “La palla di cannone era andata a battere contro il muro e ricacciata indietro aveva spezzato le reni di un giovane soldato. Il giovane soldato posto nella barella aveva incrociato le mani, alzato gli occhi al cielo e reso l’ultimo respiro. Stavano per recarlo all’ambulanza quando un ufficiale si era gettato sul cadavere e l’aveva coperto di baci. Quell’ufficiale era Porzi. Il giovane soldato era Colomba Antonietti, sua moglie, che lo aveva seguito a Velletri e combattuto al suo fianco”.

Colomba Antonietti morì compianta nei giornali dell’epoca e dalle parole di storici e politici, ma la manifestazione più alta l’ebbe dal popolo romano che accompagnò il feretro coprendolo di rose bianche e seguendolo lungo le vie di Roma fino alla cappella di Santa Cecilia dell’Accademia Musicale, dove la salma fu tumulata.

Colomba nacque a Bastia Umbra il 19 ottobre 1826. Figlia di fornai, si trasferì giovanissima a Foligno dove conobbe Luigi Porzi di Imola, cadetto del Corpo di Guardia della Guarnigione Pontificia. Si innamorarono perdutamente, ma l’enorme differenza sociale tra loro, convinse le rispettive famiglie che questo matrimonio “non s’aveva da fare”. I due ragazzi, per niente turbati dai rispettivi veti familiari, lo contrassero in gran segreto, senza richiedere come da prassi l’autorizzazione alle superiori autorità militari.

Scoperto l’inganno, venne rinchiuso a Castel Sant’Angelo per scontare un periodo di prigione. Dover subire questa ingiustizia, sviluppò nei due giovani l’odio per l’oppressione e sentimenti che poco alla volta li avvicinò alla causa dell’indipendenza nazionale. Luigi, abbandonando l’esercito pontificio, partì volontario allo scoppio della prima guerra d’Indipendenza e lei, pur di stargli accanto, tagliò i suoi bellissimi capelli neri e si arruolò a sua volta travestendosi da soldato semplice. Il gruppo di volontari di cui facevano parte, divenne una formazione regolare dell’esercito Sardo-Piemontese, assumendo la numerazione di VI battaglione Bersaglieri, battaglione che venne inviato a Roma al comando di Luciano Manara per difendere la Repubblica. Una pagina d’amore come tante altre che crebbe incurante della guerra ed alla quale pagò inesorabilmente pegno. Lei morì nell’adempimento del proprio dovere e lui, disperato, riparò in Uruguay facendo perdere per sempre le sue tracce.

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