Opere di

Claudio Maria Zattera


PER L’ETERNITÀ

Non esiste nessun dio che io sappia,
né are alle grondanti mie preghiere,
né cumuli di pietra dove io possa
offrire ciò che esiste di me stesso.
Così il dolore resta, inconsumabile:
nessuna compostezza a contenerlo
basta, nessun silenzio lo deforma
né l’anima svilita lo sotterra.
Le notti ad aspettarti sulla luna,
contando sogni ai fantasmi di polvere
e l’alba, complice, ingollava il sole,
cerchio ruvido intorno alla ferita
nostalgia. Sei la mia immortalità,
sei l’intima certezza che il tempo
si dissolve tremando sopra un petalo,
come le ali aperte degli angeli
dei fiori se dondolano oltre il limite,
a sfiorare l’immenso con un volo.
Si fermeranno gli anni e le stagioni
al primo nostro incontro, e sarà
lo stesso giorno per l’eternità.


MEDICINALI E SANTI

Non volevo saperne del tramonto
ed imprecavo al volo degli alati
flutti di cielo, nei tuoi occhi, accolti.
Sopra le nostre labbra fece breccia
il sospiro in agguato,
t’amo sensuale e schivo,
ebbro, pulsante abbraccio.
Il terrore era spingermi oltre noi,
chiamando in causa ogni divino despota
avesse stabilito
il limite d’amare.

Scorcio d’anima, perfettamente quieto,
sovrasta l’incomprensibile luce
inscritta nel teorema, lo stupore
di possederti prima che dio fosse,
un bacio dopo l’altro
nell’alba impregnata
dal nascente universo.
Non ho tempo per dirti morirò
Di questo amore tanto vivo.
Sopra il tuo comodino
Medicinali e santi.


LA DONNA CHE NON VEDO

Esisto perché ti amo, da sempre,
perciò ti stringo forte al silenzio,
pace e spavento d’ascoltare il cuore
che si è fermato ebbro d’occhi verdi,
e delle sfumature di smeraldo
avvinte al sogno di cui sono memoria.
E il tempo si è sospeso, anzi scorre
indietro, preso al laccio dalla folle
protervia d’una pia celebrazione
intorno all’argomento degli amanti
e dei poteri magici d’amore.
Rimane solo l’istante, tremito
rosa senza uno scopo definito,
sui nostri corpi congiunti e nobili,
troppo vicini ai voli di giardino
piuttosto che al tocco della terra.
Nuda su di me hai messo le mani
nelle mie e solo t’amo mi hai detto
quasi a scusarti d’essere indifesa;
e ti ho riposto t’amo, con violenza,
osando di più tra il ventre e l’anima.
Ho in bocca il sapore del piacere,
e sul petto la tiepida tua pelle
mi ripete la donna che non vedo.
T’accarezzo i capelli e poi la schiena
finché mi fermi, appena, con le dita.


GESU’ DI ALEPPO

Ti prego Gesù,
accogli il bambino di Aleppo,
fagli un poco di spazio nella greppia.
Un Angelo ho veduto
con un fagotto in braccio.
Leggero camminava sopra le acque
scure come la morte di un barcone.
Noi, aggrappati, non staremo a galla.
La mia poesia nella stagnola
si vestirà da stella
prima di andare a fondo.
E tu Babbo Natale devi smettere
di regalare bambole agli orfani.


APPARTENGONO A DIO

Ai poeti appartengono le parole
galanti, tra le tazze
d’oro zecchino della
pasticceria del corso,
al momento del tè.
Ai poeti appartengono le strade
senza uscita, i vicoli
aulenti d’osteria,
la rima dello sbronzo:
crepa, vigliacco mondo!

Ai poeti appartengono le pagine
bianche dove adagiare
i sogni, e le pietre
per coprire la morte
dall’assalto del canto.
Ai poeti appartengono le notti
e i fogli neri, drappi
d’una vita descritta
graffiando la vernice,
con chiave di lettura
di per sé stessa univoca.

Ai poeti appartengono le ore
di punta d’attardata
solitudine, pena
in cui lenti s’indugiano
per fede manifesta.
Ai poeti appartengono le donne
amate, e spogliate
alla luce d’un tocco,
labbra evocate, mute
all’intima bellezza.

Tutti i poeti appartengono a dio,
a chiunque sia posto
sulla croce del bivio
con le mani legate,
ad accogliere chiodi
e uomini risorti.


GRAFFIO NELLA JUTA

La vita è questo sentiero sterrato.
Nei fossi di campo, sul fondo,
la danza dell’alga m’implora
e sfioro la chioma nell’acqua.
Tra il verde dei prati
e il cielo d’ingenue colline
non so dove inizi la luce.
Ti penso.
Sei l’ordito di tutto ciò che vedo,
sei ricordo e presente, percezione
d’amore fatto di lino e resina,
tela impressa sotto la vita
bianca per cui non colgo
se sono stato veramente,
e se potrò esistere di nuovo
fuori dal graffio nella juta.


LA VIA DEL RITORNO

Lunga sarà la notte
che mi riporta l’ora che ti ho perso.
L’oscurità dimentica il colore
del sole e non immagina né lampi
né fuochi, né azzurri raggi di voci,
ma il riflesso dell’ombra in cuore trema
come un merletto d’angelo in attesa.
L’anima parla trasparente e, densa,
sullo specchio d’ottone si tradisce.
Se qualche volta ho pianto non so dove
sia finito il lamento, se polvere
è rimasto e non goccia, o stilla, o pioggia.
Venga la solitudine, tra falci
di luce, tra la crepitante e spessa
cartilagine d’un urlo d’amore
che non s’espande più in là del vertice,
obliquo e vergine, dell’abbandono.
Perché non insegnano ai morti
la via del ritorno?


INCONTRI E RITORNI

Quante volte ti aspetterò,
io maldestro amante,
sotto la vite, tra la radice e il frutto.
La scorza soffre e poi si crepa al sole,
sfoglia, si torce e svela
quanto ho bisogno, ancora,
di te e di questa terra
sebbene, qui, lei sia rimasta
e tu sia già lontana,
anima d’acqua e d’indecise ali.
Velario trepido nell’aria,
metà spartito e per metà preghiera,
note di vento, di baci, sangue che scorre
nel desiderio di riaverti, e le armonie, cercando,
forme immortali, d’incontri e di ritorni.


LA MIA CITTÀ

La mia città ha merlo ghibellino,
piantato sul castello di Cangrande.
S’andava con mio padre, io bambino,
e gli facevo un sacco di domande.
Seguo dal ponte il volo dei “cocai”:
il fiume stringe al cuore la sua terra
d’amore e di passione sazia mai,
sospira la beltà d’un fior di serra.
Ti conosco Verona, sciatta e pia,
donna suadente dai vicoli oscuri
o santa immagine d’Ave Maria.
Non sei cambiata e qui sono rimasto
immobile, nascosto dietro i muri,
ad aspettar l’inizio e il suo contrasto.
Nel tuo ventre, io, figlio d’autunno,
imparai a vivere, sbadato alunno.


ORFEO LABBRA DI LINO

La luce si scompone in parti uguali quando l’inorganico arcipelago
si flette e rende spazio ai nidi d’inferi in cui deposito i ricordi
come uova di cuculo: che se li covi dio! Senza saperlo
rinasceranno, nuovi diademi procreativi, metempsicosi
di sogno sufficientemente spesso, in vero, per far da piedistallo
a me, con la lanterna oltre il muro, e cogliere l’abisso di Persefone.
Ci getto l’urlo: percuota l’aria, ridesti i cani ed i traghettatori ,
Erinni e Ade. Ritorni il sole sul viso di Euridice e che mi veda!

Soltanto amarti perdutamente, nient’altro io potevo fare;
soltanto per un giorno, Ninfa prediletta, e ti baciavo tra le nuvole
ed i fiori, ed il ruscello azzurro e chiaro al pari dei tuoi occhi, e azzurro
e chiaro il cielo ed il mio bacio, profondo fino all’anima, viva,
eppure dentro me, soltanto morto se non respiro accanto al tuo sorriso
esile ed eterno. Quale colpa è degli uomini se gli dei non sanno
riconoscere l’amore puro e si rifanno ad un’estetica vestale,
timorata specie di alati turbamenti. Giasone mi consegnò il coraggio
e il grido ovale sulle guance, ruolo secondario d’espressione
irriso dall’ansia di scendere tra i sassi e trascinare maschere.

Ma perderti mi colma di paura come la linea di pensieri adatti all’alba
da cui sono caduto, tonfo d’acqua, dal bacio al morso steso nel folto
infetto, dopo notti insonni invocate a piene mani, canto colto.
Impazzire senza di te, piangere per te, Euridice, morire mai, cercarti sempre!
Lira senza musica atta a vibrare per muovere le ombre e chi son state,
radici d’un incantamento appeso per il sangue, amo velenoso all’Erebo.
Davvero mi dovrei fermare davanti a questo velo e non guardarti?
Dalle dimore della morte, passo su passo, io ti riprendo e t’amo
tra i bagliori della cenere, posando le labbra tue di lino.


ASTRATTO IMMORTALE

L’odore dei corpi spaventa come
cercare sotto i sassi
la parola da dire,
la lettera solvente:
credo ed esisto fuori da me stesso;
cedo ed esito in noi,
ara d’amore e terra,
trattenendo la vita
dentro il tempio che siamo.
Infine il tuo profumo di ginestra,
e ti amo abbastanza
da essere, astratto
immortale, riflesso quanto voglio
nell’anima discesa
dalla tua evanescenza,
ora, l’unico uomo
fecondato da un bacio.



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