Racconto premiato di Claudio Malatini

Con questo racconto è risultato 2° classificato – Sezione narrativa alla XIII Edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2009


Questa la motivazione della Giuria: «Il racconto di Claudio Malatini è, allo stesso tempo, affascinante e straziante. Le apparenze ingannano solo coloro che vivono di apparenze e l’Autore ne offre una conferma emblematica. La storia raccontata pare una premonizione che ha il sapore del misterioso destino al quale siamo tutti legati. Il momento del definitivo taglio con questo mondo sarà sempre sconosciuto e la nostra impotenza sarà evidente. Ne “Il collezionista”, uno scrittore incontra casualmente un uomo che è appena uscito dal carcere dopo aver scontato alcuni anni di galera per un omicidio. Nel paese di periferia gli sguardi di disprezzo e i timori si sprecano, ma lo scrittore diventa suo amico. Condivide le passioni di quest’uomo che desidera solo respirare la nascita di un nuovo tempo e il sapore della libertà. Lo scrittore scoprirà la profonda sensibilità d’un uomo che è un collezionista: appassionato scripofilo con una raccolta di azioni, obbligazioni, documenti e tessere d’ogni genere nonché collezionista di foglie con una filloteca così ordinata da fare invidia ad un esperto. Le apparenze nascondono l’imprevedibile mondo d’un personaggio creato dalla fervida inventiva di Claudio Malatini». Massimo Barile


Il collezionista

La vita a volte piove addosso, a 
dirotto. Questa credevo, poteva essere la spiegazione che caratterizzò gli anni trascorsi da Mario prima dell’omicidio.
Un uomo difficile per gli abitanti di quella periferia di case basse e tristemente legate alla erra senza fondamenta profonde tanto da sembrare sorrette a vicenda in un intreccio di orgogliosa miseria.
Quell’uomo granitico, dai lineamenti scolpiti e appena abbozzati era per tutti: “il signor Mario”.
Titolo distintivo che gli spettava di diritto non per il timore che comunque incuteva, bensì per gli anni di galera scontati.
Era uscito da pochi giorni ma la notizia del suo ritorno aveva inondato la corte almeno da un mese.
Si era preparato istintivamente un clima di ostilità che gli anziani avevano trasmesso ai più giovani assieme ad un’insana curiosità che eccitava soprattutto le donne.
Sicché l’attesa ebbe l’effetto di far dimenticare, o comunque porre in secondo piano, le miserie di cui ognuno portava il segno.
Gli aspetti di fondo, al suo arrivo, mutarono. Prevalsero il bisbiglio, le occhiate d’intesa furtiva, le persiane socchiuse, un falso silenzio.
Alloggiava accanto, in una stanza unica con bagno. Sentivo il rumore del martello e dello strusciare di qualche mobile che evidentemente stava riattando.
A quell’epoca mi alzavo alle prime luci, non scrivevo più di notte. Non mi fu difficile affrontarlo.
Dava da mangiare ai passeri sbriciolando il pane raffermo davanti al suo uscio e scacciava le gazze.
«Sono affamate anche loro». Esordii, tanto per dire qualcosa.
«Sì, ma sono più grandi e spesso li aggrediscono, a volte li uccidono». Detto da un assassino era veramente un paradosso. Se ne accorse ma non si stupì. L’aveva fatto apposta, andando subito al sodo e anticipando il mio interesse.
«Vivo qui da poco, sono uno scrittore». Mi presentai.
«Si vede…» Rispose «Che abita qui da poco, intendo, ma non è diverso dagli altri… Le interessa l’assassino…»
«No. M’interessa la morte».
Mi guardò stupito. Da vicino le sue rughe erano ancora più espressive e marcate conferendo all’aspetto un che di essenziale e diretto: «La morte… La morte… È solo un passaggio obbligato. Non è autonoma, è il tempo che la porta con sé e poi la lascia cadere, come un frutto dalla pianta, a volte naturalmente, a volte perché viene staccata prematuramente dal suo picciolo… Fa sempre lo stesso rumore, un tonfo sordo. Se la tocchi non ti togli più l’odore di dosso, soprattutto alle mani che lavi cento volte al giorno e rinfrangono sempre, anche di notte».
«Lei scrittore di periferia, io tipografo obsoleto a causa della tecnologia, penso ci si potrò intendere». Concluse.
I giorni seguenti consolidarono la frattura tra lui e la popolazione della corte. Un isolamento fatto di saluti formali, quando proprio non era possibile evitarli, di sguardi penetranti di curiosità morbosa, di fughe che troncavano i discorsi e disperdevano i crocchi al suo passaggio.
Questo rese più esclusiva e assidua la nostra frequentazione.
Gli offrii vecchie riviste e giornali che lui lesse avidamente prima di ammorbidirli nell’acqua assieme ad ogni sorta di carta raccolta che poi appallottolava e metteva ad essiccare.
L’inumidiva con un po’ di petrolio e l’usava nella stufa al posto della legna per riscaldare lo stanzone.
Ridare vita, dignità di esistenza storica ai pensieri racchiusi nelle cose. Far riaffiorare nel presente il passato ogni volta con un significato diverso, attuale, Catalogare, ordinare in una nuova dimensione vitale. Era un collezionista.
Mi confessò di essere un appassionato “scripofilo”.
La sua scripofilia non era ortodossa, nel senso che non era esclusivamente mirata alla raccolta di vecchie azioni, obbligazioni o cartelle del debito pubblico, anzi, si estendeva a vecchi documenti scolastici, atti amministrativi, patenti, biglietti, tessere…
Trascorremmo una notte intera ad esaminare e ammirare una tessera dorata di iscrizione all’Azione Cattolica del 1930, una vecchia pagella scolastica del 1919 di Siracusa, una tessera della gioventù italiana del littorio datata 1939, un vecchio biglietto d’auguri con la prua rossa della nave “Lenin” che campeggiava perentoria e sinistra sul globo bianco. Ci commovemmo quando estrasse “Il primo cammino” – pieghevole scolastico degli anni ’60 – e “Il carissimo babbo” – biglietto d’auguri scritto a mano nel 1919. Ci rincuorammo con le donne in costume. Pareva profumassero ancora.
Facemmo l’alba e mi lasciò per salire in alto, sul silos abbandonato in fondo alla corte, ove mi confidò andare ogni mattina per respirare la nascita di un nuovo tempo e il sapore della libertà.
Mi ritirai guardandolo salire pericolosamente sulla piccola scala arrugginita mentre diveniva sempre più piccolo.
Chiusi la porta che era ormai un’ombra solitaria e sinistra sulla sommità del silos.
Trascorsero alcuni giorni in cui si dedicò, senza successo, alla ricerca di un lavoro, poi m’invitò a cena.
Mi chiese se mi piacevano le omelettes. Gli risposi che ne ero ghiotto e mi pregò di portare uova, emmenthal, fontina, salsa di pomodoro, olio, piselli in scatola… Una lista accurata e interminabile. Portai anche del buon bordeaux, in abbondanza.
Aveva una filloteca. Una vasta collezione di foglie.
«È indispensabile raccoglierle intere. Devono essere mese ad essiccare tra due fogli di giornale. Tra i fogli devi interporre della carta assorbente e ci devi mettere sopra un peso. Devi curarle, ogni tanto cambiare i fogli di giornale e la carta assorbente. Quando sono definitivamente essiccate le fissi con spilli sui fogli di raccolta».
L’esame della filloteca ci prese prima e dopo cena.
Aveva numerato ogni foglio di raccolta, indicato il nome della foglia, la specie, la famiglia, descritto la lamina, le nervature, la forma dell’apice, l’inserzione e la disposizione sul ramo.
Spadellò parecchio. Eravamo ebbri di foglie, boschi, piante e di bordeaux.
Servì su una specie di cartone le omelettes, rigorosamente in coppia e numerate progressivamente secondo l’ordine di assaggio.
Iniziammo con l’omelette alla francese, rigirata su se stessa e farcita al formaggio; a seguire: la madrilena, con pezzetti di patata, fagiolini, prosciutto cotto, piselli e concentrato di pomodoro. Poi la basca con peperoni verdi, pomodori pelati, aglio e, infine, alla contadina con lardo, patate e cipolle.
Ci scolammo tutto il bordeaux finché trovai il coraggio di chiedergli: «… E non provi mai rimorso?».
Non distolse lo sguardo dalle stoviglie che stava lavando:
«Ho sentito dire che questo sarà un inverno crudo, con poca neve e tanto gelo. Chissà se finalmente moriranno le cimici. Da quando non disinfestano più è un’invasione».
Facemmo notte fonda, come al solito. Dimenticai le bottiglie vuote.
Mi svegliai ancora intorpidito. Avevo lasciato la porta non serrata, come sempre. Avevo sentito delle sirene nel dormiveglia e udivo uno strano trambusto provenire dalla zona del silos.
Trovai sul tavolo un biglietto: «Questa notte non sarà eterna, è nelle cose. Eppure il solitario rimbocco di una coperta troppo corta alita il freddo di un abbandono domestico tra pensieri oscuri, umiliati, buttati giù e soffocati nel silenzio di una porta chiusa. Questa notte ho raccolto l’agonia di un uccello che non sa volare, la fedeltà di un animale scacciato che va a morire laddove incrocia fissità di stelle. La buona notizia è che tutto, al primo bagliore d’aurora, inesorabilmente scompare».

Non uscii, non volevo vederlo sul carro. Sapevo che ora era veramente libero, per sempre.


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