Inside 4 walls - Storia di un amore

di

Claire Winchester


Claire Winchester - Inside 4 walls - Storia di un amore
Collana "I Salici" - I libri di Narrativa
14x20,5 - pp. 152 - Euro 11,00
ISBN 978-88-6037-8330

Clicca qui per acquistare questo libro

Vai alla pagina degli eventi relativi a questo Autore

In copertina: «Emily» illustrazione di Francesco Corato


Questa non è una storia d’adolescenti, non è una storia di sesso, tantomeno una storia di amanti.
Questa è la storia di un amore vero.
Un amore mai compreso da nessuno.
Una storia che dà speranza.
Una storia che qualcuno sicuramente troverà noiosa.



Inside 4 walls - Storia di un amore

A tutti quelli che mi vogliono (veramente) bene


- 1 –

LEI

Lei, figlia unica, nata da una famiglia di medio rango, con una grande passione per la musica, si stava accingendo ad andarsene di casa. Doveva lasciare il nido familiare, lasciare la sua amata città natale per potere avviare la sua carriera universitaria. I genitori avrebbero fatto di tutto per non farla andare via, ma prima o poi il nido ‘pascoliano’ deve essere abbandonato. E quel momento era arrivato.
In realtà lei non si faceva tutti questi problemi. Amava i suoi genitori, ma era contenta di andarsene finalmente, ed era giusto così. Non poteva certo farsi cinque ore complessive di treno per andare e tornare dall’università che aveva scelto. In quanto a Lingue e Letteratura era la migliore Università del paese, ed inoltre aveva una vasta scelta di lingue, comprese le tre lingue nordiche che tanto l’attiravano, ma che poche università vantavano.
Il suo nome era Emily, ragazza di media statura, carnagione chiara, capelli scuri che lei prontamente tingeva di nero, occhi azzurri come l’oceano e immancabile matita nera sotto occhi. Aveva un bel fisico anche se non era tipa da esibirlo troppo.
Nonostante questo suo bel corpo aveva vissuto 18 anni della sua vita senza mai avere un fidanzato, finché suo padre non provvide a farglielo incontrare.
In quanto a un futuro fidanzato per la figlia, la madre non aveva pretese straordinarie. Le sarebbe bastato un ragazzo che fosse in grado di amare Emily. Il padre invece voleva il meglio per lei. O meglio, quello che lui credeva il meglio.
Angelo, il padre, non aveva grandi passioni, era un uomo semplice, immediato e non approvava assolutamente quella musica che lei tanto amava. La sua vita era sempre stata fondata sul lavoro per poter dare il meglio alla propria famiglia. Aveva inoltre precise idee politiche e non avrebbe sopportato un futuro genero con idee politiche contrastanti dalle sue. Ad Emily tutto ciò poco interessava; non era questo che avrebbe guardato in un uomo. Amava e rispettava suo padre che l’aveva cresciuta cercando di non farle mancare niente, ma non condivideva molto questo profilo che il suo futuro fidanzato doveva per forza avere.
Non era la ragazza copertina a cui tutti facevano il filo, anzi faceva di tutto per non esserlo, e non le interessava avere un ragazzo. Non l’aveva mai cercato e non aveva intenzione di iniziare ora. Aveva la musica a tenerle compagnia. Non aveva bisogno di un fidanzato a tutti i costi.
Tutto questo, finché suo padre non organizzò una cena con un collega di lavoro, e alla quale venne anche il figlio del collega, Michael. Lui era il ragazzo ‘perfetto’: semplice (ovvero un po’ tonto), politicamente nel ‘giusto’, della musica poco gli importava; non era certo tipo da concerti, Emily viveva per i concerti. Era carino però. Nonostante ciò a lei non andava molto a genio. Era molto infastidita dal fatto che suo padre si intromettesse così tanto nella sua vita sentimentale e che forzasse così tanto la cosa.
Nonostante queste premesse accettò di frequentarlo e conoscerlo, più per far contento suo padre, che per far felice se stessa. Finì che si misero insieme. Michael si era davvero innamorato. Lei non era così presa da lui, ma sebbene non condividessero molte passioni, in sua compagnia non stava poi male; e suo padre era contento. Raramente lo vide così contento come quella volta che gli disse che si era fidanzata con Michael.

Tornando alla imminente partenza di lei, Michael aveva già un lavoro nella società di famiglia della madre e non poteva certo mollare tutto per seguirla. Così rimasero d’accordo di trovarsi ogni week-end, alternandosi il viaggio in treno.
Il fatto di vederlo solo il weekend non le dispiaceva poi troppo, anzi. Emily aveva sempre voluto i suoi spazi. Già ora che abitavano a pochi chilometri di distanza si vedevano appena un paio di volte a settimane. Di solito era lui e chiamare lei, che trovava inutile parlarsi ogni giorno. Non aveva certo novità imminenti da raccontagli ogni santo giorno, così era sempre lui a cercare lei e mai il contrario. Ma questo non infastidiva il ragazzo.

Venne così il tanto atteso giorno. Emily non vedeva l’ora di partire per questa nuova ‘avventura’, anche se non sapeva ancora dove avrebbe alloggiato. Ai suoi aveva detto che aveva trovato un appartamento con una ragazza, ma non era vero. Emily aveva sempre vissuto la sua vita giorno per giorno senza preoccuparsi troppo del futuro. Era sicura che una volta in facoltà un posto dove stare lo avrebbe trovato.
Non era la prima volta che mentiva ai suoi. L’estate precedente, quella dei suoi 18 anni, aveva preso ‘armi e bagagli’ e se ne era andata negli Stati Uniti. Non aveva una meta esatta. Arrivò a New York con il primo volo low-cost disponibile che aveva trovato, andò a piangere i caduti del giorno in cui l’America Cried (11 settembre 2001), dormendo nella stazione centrale. Gli ostelli erano tutti pieno e gli hotel avevano prezzi assurdi. Dopo una settimana si spostò a Boston dove andò a visitare Harvard. Aveva sempre sognato di studiare nel prestigioso college e contava di poterlo fare in futuro, anche magari solo per un semestre. Sapeva che sarebbe restato solamente un sogno. Non era né abbastanza ricca da pagarselo, né abbastanza intelligente da guadagnarsi una borsa di studio di quel livello.
Essendo estate c’erano pochi ragazzi quindi riuscì ad avere il prestigio di dormire per qualche notte in un dormitorio, corrompendo il custode. Era un tipo sulla sessantina che si emozionava per ogni ragazzina dal bell’aspetto che vedeva. Emily non aveva mai considerato il suo corpo ‘sexy’ e quella fu la prima volta che ‘usò’ il suo grazioso corpo per corrompere qualcuno. Con quel guardiano per fortuna non fu difficile, anche perchè non era certo disposta a vendersi troppo. Qualcosa di attillato e scollato bastò.
Girata un po’ Boston prese l’aereo e si spostò nel Texas. Ci restò per quasi un mese girando di città in città, di ostello in ostello. E così visitò anche il Minnesota, il Nevada e la California.
Tornò a casa dopo due mesi e di questo viaggio ‘avventuroso’ i suoi sapevano poco o niente. Gli aveva detto che sarebbe andata a trovare una amica e che avrebbe vissuto con lei per un paio di mesi. I suoi non erano sciocchi, ma lei era astuta. Riuscì a fare in modo che si bevessero l’enorme bugia, contando anche sul fatto che i suoi l’inglese non lo sapevano.
Lei era fatta così: prendeva ed andava, senza tante preoccupazioni. Non era certo un ‘dono’ che aveva acquisito da sua madre, che passava la maggior parte del tempo a preoccuparsi.

I suoi decisero di ‘scortarla’ in auto fino all’università con la scusa delle valigie e tutto il resto – tra cui gli strumenti musicali.
Il viaggio fu lungo, ma soprattutto stressante. Regnava perennemente un silenzio di tomba e una atmosfera pesante, con la madre che aveva praticamente le lacrime agli occhi.
“Mamma mi vedrai ogni due settimane, non è così un dramma dai” disse ad un certo punto, ma servì a ben poco.


- 2 –

LUI

Lui era il secondo di sette fratelli. Nell’epoca in cui più nessuno faceva figli in Italia la sua famiglia era l’eccezione. Però la sua non è mai stata una bella, vera famiglia felice stile “Settimo Cielo”, la fin troppo puritana famiglia americana che incombeva da un decennio negli schermi delle televisioni pubbliche.
Dietro all’impressione della grande famiglia felice, dovuta comunque solo al gran numero di figli, c’era un padre che dominava sua moglie, maltrattandola e picchiandola; non le aveva mai portato rispetto. I sette figli non erano nati per volontà sua, decideva tutto lui. E si comportava allo stesso modo con i suoi figli.
Lui era il primogenito maschio e suo padre pretendeva il massimo da lui; ma non si accorgeva di pretendere troppo.
Il suo nome era Henkka, nome di origine finnica. Sua nonna materna, che tanto adorava, era finlandese prima di sposare un italiano. Aveva non solo il nome di un finnico, ma anche i connotati tipicamente nordici: capelli biondi che teneva rigorosamente lunghi, occhi verdi, pelle chiara, alto ma non gigante e di comporatura media. Non aveva mai fatto palestra o altro nella sua vita, ma amava giocatore a calcio, nuotare e giocare a hockey. Tre sport diversi tra loro, ma amava sia complicità con i compagni che comportava il calcio, che era visto come lo sport nazionale, sia l’indivialismo, la solitudine del nuoto in cui in cui puoi contare solo su te stesso. Ci sei solo tu immerso nei tuoi pensieri. Dell’hockey su ghiaccio ammirava come nonostante fosse uno sport duro ci fossero meno infortuni che nel calcio, ad esempio.
Henkka era sempre stato un bravo ragazzo, senza lodi particolari, ma sicuramente il più tranquillo e meno impegnativo dei figli. Eppure questo a suo padre non bastava. Arrivò ad impedirgli di vedere sua nonna; diceva che gli riempiva la testa di stronzate finniche. Henkka invece adorava stare ad ascoltare quello che nonna Marta gli raccontava. Era una tra le persone più colte che conosceva. Sapeva parlare fluentemente più di cinque lingue (italiano, inglese, svedese, finlandese, norvegese e tedesco), aveva una stanza in casa dedicata solo ai libri e poi era una fonte inesauribile di ‘consigli da nonna’. Henkka restava ore ad ascoltarla, che si parlasse del suo passato nella sua terra natale o che si parlasse di storia o letteratura; non faceva differenza. E poi era sicuramente la donna più saggia che conoscesse. Nessuno meglio di lei poteva dargli dei consigli. Fuggiva spesso da casa per poter andare dalla nonna, ma con i tempi le sue fughe diventavano sempre più rare.
Henkka non sopportava suo padre e aveva una pena tremenda per sua madre e sua sorella maggiore, che era l’unica figlia femmina e veniva quindi maltratta, malmenata e derisa perchè donna.
Sua sorella, Alexandra, aveva 2 anni più di lui ed erano sempre andati molto d’accordo. Si somigliavano molto anche fisicamente al contrario degli altri fratelli. Anche lei bionda, tipicamente con tratti nordici; chiunque poteva dedurre che erano fratelli. La somiglianza con gli altri cinque fratelli non era però così lampante. Il terzo genito, Marcus, aveva 3 anni in meno di Henkka e 5 meno di Alex. Era basso, tarchiato con capelli ed occhi scuri. Lui ed Henkka non erano mai andati d’accordo. Quest’ultimo lo chiamava ‘bassotto’ per la sua statura, mentre Marcus non aveva un soprannome specifico per il fratello. Usava vari nomignoli dispregiativi in base al suo umore. Il quarto genito, Andrea, era anch’esso scuro di capelli. Aveva un anno meno di Marcus, 4 meno di Henkka e 6 meno della sorella. Lui era sempre stato più alto del fratello-quasi coetaneo con cui passava tutto il suo tempo. Henkka ed Alexandra a volte usavano chiamarli “Stanllio & Ollio” per via del loro aspetto. Era quasi buffo vederli assieme. Il quinto e sesto genito, due gemelli, Charlie e Carl, ripresero in parte i tratti nordici, con i loro capelli biondi. Infine arriva Stefano, l’ultimo nato, che invece aveva un aspetto mediterraneo con tanto di pelle scura e capelli neri.

Quando aveva 15 anni, Henkka iniziò a pensare che suo padre abusasse sessualmente di Alex, visto anche i precedenti con sua madre di cui tutti erano a conoscenza.
La vedeva più chiusa, la sentiva piangere la notte.
Alex aveva una grande passione per la musica, che aveva trasmesso al fratello. Lei viveva per il suo piano, che aveva iniziato a suonare a soli quattro anni; erano giorni che non suonava. Era chiaro che c’era qualcosa che non andava. In 13 anni aveva suonato ogni singolo giorno. Non poteva vivere senza suonare. Scoprì che stava pure saltando scuola; non tipico di sua sorella, la migliore della classe a cui piaceva veramente apprendere e che aveva sempre avuto una natura curiosa.
Cercò di parlarle ma lei si era isolata, non voleva parlare con nessuno. Neppure con lui, quello che lei definiva il suo più grande amico.
A tavola non guardava mai il padre, teneva sempre la testa bassa.
Nonostante tutti questi indizi lampanti, Henkka sperava di sbagliarsi. Sapeva quanto stronzo fosse suo padre, ma non voleva immaginare che si fosse spinto fino a quel punto: violentare la sua unica figlia.
Si mise a pedinare la sorella fino a scoprire che purtroppo non si sbagliava.
La scena che gli si presentò davanti quasi accidentalmente gli raggelò il sangue. Suo padre aveva legato mani e piedi di Alexandra al letto matrimonale testimone di tanti abusi e le aveva imbavagliato la bocca perché non potesse urlare. Sua sorella era lì, nuda. Piangeva. E lui sopra di lei ad abusare violentemente. Non si era neppure accorto della presenza del figlio, che dopo un conato di vomito soppresso, si scaraventò violentemente su di lui. Lo buttò giù dal letto e iniziò a picchiarlo con tutta la forza che aveva in corpo. Picchiarlo a morte.
Henkka uccise il padre a suon di pugni. Alexandra voleva gridargli di smetterla. Non poteva. Ed Henkka non si rese conto di quanta violenza ci fosse nei suoi pugni. Era accecato dalla rabbia. Quell’essere ripugnante, sangue del suo sangue, aveva ucciso l’anima pura di sua sorella.
Quando si rese conto di ciò che aveva fatto entrò nel panico. Il sangue era schizzato ovunque e lui ne era tutto sporco. Era un assassino.
Guardò sua sorella e si mise a piangere, dopo averla slegata. Era un assassino.
Iniziò a gridare: “Perché ti facevi fare tutto ciò? Perché non hai mai detto niente? Perché? PERCHÉ?”
Sua sorella non rispose mai. Tutt’ora Henkka sta ancora aspettando quella risposta.
Ci fu il processo. Il suo avvocato riuscì a convincere la giuria che un anno di riformatorio sarebbe bastato. Poteva andargli peggio (l’accusa ne aveva chiesti 3 di anni, fino alla maggiore età), ma poteva sicuramente anche andargli meglio visto la reputazione della “giustizia” italiana.
Per gran parte del tempo passato in riformatorio provò un sentimento d’odio di sua sorella. Fu il periodo più buio della sua vita. Avrebbe voluto parlare con Alexandra, ma non ci riusciva. Dall’altra parte lei non si fece viva. Era solo dentro quel ghetto di piccoli criminali, che si davano tante arie per il solo fatto di essere lì. Alcuni avevano semplicemente rubato in qualche negozietto o strisciato qualche auto. Lui aveva ucciso. Era colui che aveva ucciso suo padre a forza di pugni. “Non sono un assassino” si ripeteva lui, ma tutti quelli che aveva incontro lo vedevano come tale. Il giorno seguente il fatto, i giornali l’avevano definito come ‘L’angelo della morte finnico’. E continuarono a chiamarlo così finché, spedito l’assassino in carcere, le acque non si furono calmate.
In riformatorio tendevano ad evitarlo e a chiamarlo con un’altra serie di nomignoli dispregiativi. La verità è che molti di quei ragazzi che si vantavano d’essere lì e che magari avevano strisciato solo l’auto del preside, erano gelosi ed Henkka l’aveva capito. “Come si fa ad essere gelosi per una cosa del genere?” si chiedeva.
Uscito, dopo l’anno e macchiato, non sono sui documenti, da questo crimine, non tornò a casa. Se ne andrò il più distante possibile. Da quel giorno non ebbe più contatti con la sua famiglia. Una volta maggiorenne cambiò il suo cognome il quello della nonna.
Già sua nonna, che fine aveva fatto? Mentre era in riformatorio gli era arrivata comunicazione che era morta. La nonna aveva la leucemia. L’aveva tenuto nascosto a tutti e non aveva voluto farsi curare. Voleva vivere appieno gli ultimi anni della sua vita. Così un bel giorno, mentre il gallo cantava l’alba e il sole sorgeva, lei si spense nel suo letto. Si era ripromesso che una volta fuori di lì sarebbe sicuramente andata a trovarla. Lei aveva voluto farsi seppellire nella sua terra, in Finlandia. Henkka aveva sempre voluto vedere ed ammirare con i suoi occhi quella terra di cui tanto aveva sentito parlare. Chissà se un giorno sarebbe riuscito ad andarci.
Intanto lui che era nel bel pieno dell’adolescenza, aveva un ripudio assoluto per il sesso. Non riusciva a togliersi quella immagine dalla mente.

Finì le superiori con un anno di ritardo per colpa di quel fatto e si iscrisse all’università: Lingue e Letteratura, lavorando nel frattempo. Fece vari lavoretti per mantenersi. Dal meccanico, al fattorino, all’idraulico, al cameriere, finché non trovò un lavoro ‘inusuale’.
Lì nella sua città c’era un night club per sole donne, in cui c’erano i classici spogliarellisti. In mancanza di lavoro rispose all’annuncio ‘Cercasi cameriere’. Scoprì poi che, il quel locale, i camerieri non si limitavano a servire bibite ai tavoli. Ad ogni cameriere era affidata una private room e se la cliente voleva, poteva richiedere prestazioni sessuali pagandolo con una ‘donazione’ spontanea. Chiaramente il cameriere poteva rifiutarsi se la cliente non era di suo ‘gusto’. Non poteva rifiutarsi troppo però. Visto il buon stipendio propostogli, accettò. Per le prime due settimane rifiutò tutte le proposte. Poi ricevette un ultimatum dal suo capo: “O accontenti le clienti o ti licenzio.”
Fu così che Henkka iniziò la sua attività di ‘gigolò’ che gli fruttava soldi extra, che andavano ad aggiungersi al salario regolare, che già di suo era un bel salario. E fu così che Henkka ci prese gusto a fare sesso. Il ripudio era passato. Non capì mai cosa sbloccò il suo corpo, cosa gli permise di fare sesso la prima volta e di trovarlo piacevole, nonostante i quasi conati di vomito che gli venivano in precedenza al solo pensiero. La sua prima cliente ‘fisica’ era una giovane ragazza di vent’anni. Non era una delle tante puttanelle che andavano lì per divertirsi. Lei gli aveva raccontato che aveva scoperto il suo ragazzo tradirla con la sua migliore amica. Voleva solo vendetta. Henkka vide negli occhioni azzuri e tristi di quella ragazza ciò di cui aveva bisogno per convincersi a farlo. Vedeva tanta tristezza, tanta solitudine. Aveva pianto molto e si vedeva. Come lui aveva un vuoto enorme dentro di sé. Era la ragazza giusta con cui lasciarsi andare. E così fece, superando l’imbarazzo e l’impaccio iniziale, che accomuna ogni principiante. Lei venne ancora per un altro paio di sere, poi gli disse: “Questa è la mia ultima volta. Devo trovare un altro modo di farmi forza. Grazie.” Henkka le sorrise e la salutò. Era lui che avrebbe dovuto ringraziare lei, ma questo lei non lo sapeva. Non la rivide più, ma Jessica, questo il suo nome, era stata una sorta di salvezza. Era stata una sorta d’angelo per lui. L’aveva illuminato. Le sarebbe piaciuto rivederla per poterla mettere al corrente di quanto aveva fatto per lui, ma come promesso lei non ritornò più al night.
Avendo superato quel blocco, iniziò a svolgere il suo lavoro in modo ‘completo’. Non era un lavoro di cui vantarsi, ma gli permetteva di vivere meglio ed era ‘piacevole’ come cosa. E poi… era solo lavoro!

[continua]

Se sei interessato a leggere l'intera Opera e desideri acquistarla clicca qui

Torna alla homepage dell'Autore

Il Club degli Autori - Concorsi Letterari - Montedit - Consigli Editoriali - Il Club dei Poeti
Chi siamo
La Rivista
La voce degli Autori
Tutti i nostri Autori
Per iscriversi
ClubNews
Il notiziario gratuito
Ultimi inserimenti
Homepage
Per pubblicare
il tuo 
Libro
nel cassetto
Per Acquistare
questo libro
Il Catalogo
Montedit
Pubblicizzare
il tuo Libro
su queste pagine